Tutti i dubbi del Pd sulla commissione che dovrà giudicare Penati
Fino ai primi di agosto la commissione di garanzia del Pd aveva a disposizione solo una stanza nella vecchia sede di piazza Santi Apostoli a Roma, location tipica dell'epoca prodiana. Un appoggio più che sufficiente per gestire le decine di ricorsi, principalmente locali, generati dalle amministrative o dai vari commissariamenti, oppure questioni più corpose ma non paragonabili a quella innescata dal caso Penati, che infatti ha imposto il trasloco.
Fino ai primi di agosto la commissione di garanzia del Pd aveva a disposizione solo una stanza nella vecchia sede di piazza Santi Apostoli a Roma, location tipica dell'epoca prodiana. Un appoggio più che sufficiente per gestire le decine di ricorsi, principalmente locali, generati dalle amministrative o dai vari commissariamenti, oppure questioni più corpose ma non paragonabili a quella innescata dal caso Penati, che infatti ha imposto il trasloco: da una settimana i sette garanti guidati da Luigi Berlinguer hanno ottenuto un punto d'appoggio (e un telefono) vicino alla segreteria, al largo del Nazareno. Anche la logistica insomma dice del peso che il destino dell'ex presidente della provincia di Milano Filippo Penati ha assunto per il partito di Bersani.
E' lo stesso Luigi Berlinguer a confermare al Foglio la centralità del caso, paradigma della differenza “tra giudizio della magistratura e giudizio politico” come ha sostenuto in un'intervista all'Unità: “Mai il partito si è trovato in così grande difficoltà, dobbiamo distinguere il profilo dell'interesse del partito da quello della tutela dell'individuo. A questo serve la commissione di garanzia che non è una struttura come la magistratura, è un organismo che lavora insieme al segretario perché ha lo stesso fine: tutelare il partito e vincere le elezioni”. Berlinguer respinge qualunque analogia con casi del passato, le vicende che hanno coinvolto Fassino o D'Alema o anche la recente vicenda del senatore pugliese Alberto Tedesco. “Tedesco si è dimesso, mentre Penati si è sospeso. E' diverso” osserva. Quanto a pregresse vicende che hanno lambito D'Alema e Fassino “nessuno ha fatto richiesta o ricorso alla commissione” aggiunge Berlinguer.
Eppure basta grattare appena la superficie per far affiorare i dubbi che serpeggiano nel partito: “Investire la commissione dei garanti è mettere una toppa, far vedere che il partito è diverso, che fa qualcosa. Tutto qui”, commenta un deputato della ex Margherita. Che cosa possa fare questa commissione in effetti è più o meno un mistero. Remota l'ipotesi di una convocazione di Penati a meno che non voglia presentarsi lui, spiega ancora Berlinguer. Alcuni parlamentari del Pd citano le parole di Rosy Bindi come presagio della exit strategy che i garanti potrebbero adottare il 5 settembre, giorno della convocazione: i fatti addebitati a Penati, prescritti o no, “sono precedenti al Pd dunque non riguardano la commissione e nemmeno il Pd”. Penati si è già sospeso, dunque perché insistere, argomentano altri. I “non ds” analizzano maliziosamente anche la composizione della commissione, “saldamente in mani diessine da quando Luigi Berlinguer ha preso il posto lasciato libero un anno fa da Virginio Rognoni”. A riprova citano i nomi del costituzionalista Andrea Manzella, di Graziella Falconi funzionario dell'ex Pci, a lungo di stanza alle Frattocchie, di area riformista molto legata a Macaluso, di Luciano Vecchi, già alla sezione esteri dei Ds e dell'ex Cgil Beniamino Lapadula. I restanti membri sono di area ex Ppi: Giovanni Bruno, Adriano Giannola e tecnici come Giuseppe Busina, legato ad Antonello Soro. Il caso Penati-commissione di garanzia fa tornare a galla anche le differenze culturali tra le diverse anime in questo caso ridotte a due: ex ds da una parte e non ds dall'altra. “La verità è che vogliono fare come le commissioni centrali di controllo del vecchio Pci”, osserva un ex popolare, “espellevano anche quelli che si erano già dimessi perché doveva esserci il segno di un distacco totale del partito”.
Con Penati potrebbero fare così, teorizza: “Fuori dal partito, ma ovviamente libero di avvalersi della prescrizione”. Sull'argomento rinuncia alla prescrizione cavalcato dall'ex direttore del Riformista Antonio Polito sul Corriere e ripreso da Enrico Letta, fanno capolino i primi dubbi: Stefano Menichini oggi su Europa dice di capire le esigenze del partito, ma che è difficile chiedere a un singolo di rinunciare ad avvalersi della prescrizione come di altro.
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