Ti odio, calabrone
Ultimo venne il calabrone. Una sera d'estate stavo guardando su Rai1 degli spezzoni di tv vintage col dito pronto sul telecomando nel caso in cui i montatori, dopo “Canzonissima” e “L'amico del giaguaro” e “Un due tre”, mi propinassero a tradimento Panariello (forse per insipienza, forse per crudele voluttà di dimostrare la decadenza dei tempi), quand'ecco che il bianco e nero si è fatto colore e dal giardino di delizie che custodiva Panelli e Vianello e Tognazzi e Gassman ho visto spuntare a mo' di pianta carnivora il mezzobusto di Roberto Saviano.
Ultimo venne il calabrone. Una sera d'estate stavo guardando su Rai1 degli spezzoni di tv vintage col dito pronto sul telecomando nel caso in cui i montatori, dopo “Canzonissima” e “L'amico del giaguaro” e “Un due tre”, mi propinassero a tradimento Panariello (forse per insipienza, forse per crudele voluttà di dimostrare la decadenza dei tempi), quand'ecco che il bianco e nero si è fatto colore e dal giardino di delizie che custodiva Panelli e Vianello e Tognazzi e Gassman ho visto spuntare a mo' di pianta carnivora il mezzobusto di Roberto Saviano, la tetra pelata illuminata da un mezzo ghigno mentre spiegava al pubblico di “Vieni via con me” come mai un peso piuma come Leo Messi potesse emergere così sfolgorante nel panorama muscolare se non violento del calcio d'oggi. Allora è arrivato il calabrone. Con espressione compunta dovuta alla sacralità del momento, Saviano ha ripescato il famoso apologo del vespide le cui ali non possono sopportare il peso del corpo che a rigor di fisica dovrebbe sbilanciarne il volo; ma il calabrone lo ignora e per questo continua a volare. Nonostante tale storiella risalga a ben prima che Saviano la spiattellasse dinanzi alle telecamere, a ben prima che nascesse o che uno come lui potesse essere preventivato, il pubblico presente in sala s'è messo a ridere sguaiatamente, col viso stravolto dalla sorpresa per quest'apologo tanto ben trovato quanto inedito, lasciando che l'espressione compunta di Saviano si sciogliesse – ma per un attimo solo – nel compiaciuto sorriso di chi trova ulteriore conferma che ogni suo tiro è un goal. Saviano si credeva Messi ma mi pareva piuttosto che il pubblico si comportasse come il papà che si mette in porta e, per lasciare che il figlio di sei anni segni un rigore benché sbilenco, si getta platealmente dall'altra parte onde far credere di esserne rimasto spiazzato. Invece di sbuffare, fischiare e protestare con veemenza perché uno scrittore dovrebbe essere in grado di raccontare faccende un po' più originali se ha la pretesa di intrattenere e interessare, il pubblico presente in sala è scoppiato pavlovianamente a ridere di fronte alla solfa del calabrone per la stessa ragione per cui tempo addietro un giornalista si era – presumo – sforzato di mantenersi serio mentre Saviano si paragonava impunemente a Truman Capote. Allora, nonostante il programma seguitasse con spezzoni di Rai meno imbolsita, ho spento il televisore e dichiarato partita persa.
Devo ammettere a malincuore che quando Saviano giaceva ancora ignoto io volevo diventare uno scrittore – ero un ragazzino, perdonatemi – e allora, con tragico errore di calcolo, mi ero messo a leggere forsennatamente nella speranza di oliare la mia prosa e renderla, grazie alla vastità dei modelli e all'esercizio di riproduzione, più elegante e tonda. La mia convinzione era che, sacrificando per la lettura le ore che avrei preferito dedicare al pallone o alle signorinelle o alla selezione di altrui citofoni sui quali pigiare per poi scappare via, la maturazione di una prosa dalla superficie idealmente liscia e capace di non far trasparire la fatica e il risentimento che vi si celavano mi avrebbe portato dritto alla pubblicazione precoce e all'incasso della gloria letteraria. I fatti dimostrano che qualcosa è andato storto e, per carità, chi è causa del suo mal pianga se stesso; se non che, alla pubblicazione di “Gomorra”, ero stato assalito da un repentino moto di repulsione nei miei stessi confronti.
A guardare le pile di copie in libreria, a leggere il nome dell'editore, a scrutare la fotografia in posa da ganzo sulla quarta di copertina e poi su tutti i giornali, a scoprire soprattutto che Saviano aveva bene o male la mia stessa età, mi ero reso conto che tutte le mie letture e i tentativi che avevo accumulato fino ad allora erano fatica sprecata e che, un po' per abitudine un po' per l'irreversibilità del tempo, era troppo tardi per saper dedicarmi ad altro. Così ero rimasto a metà guado, immobile in libreria con “Gomorra” in mano, consapevolmente decidendo di non comprarlo né leggerlo né allora né mai: non per cattiva volontà ma perché ogni volta che lo vedevo (e lo vedevo spesso) mi tormentava un demonietto che dopo avere deriso il tramonto delle mie velleità letterarie mi sussurrava in cuore le perorazioni della mia invidia: sosteneva che la persecuzione camorristica garantisse a Saviano una fama da duro maledetto grazie alla quale riceveva caterve di lettere da ragazzine sdilinquite (ma io non sapevo se fosse vero, non credo, spero proprio di no); compitava quanti soldi potesse rendere una riduzione cinematografica; sibilava che va bene la scorta ma Saviano non stava proprio conducendo una vita da Salman Rushdie e anzi appariva in tv ogni due per tre, presentava il suo libro a tappeto, non mancava un festival o un cocktail o un vernissage. E sebbene mi sforzassi di ignorare tali illazioni, cercando di non ragionarci su perché altrimenti sarei impazzito e avrei gettato tutti i libri che avevo letto, il demonietto mi aveva vinto con un'argomentazione a trabocchetto. Lasciando momentaneamente perdere Saviano mi aveva insufflato il pensiero di Guareschi, sul quale da bambino avevo imparato a leggere: questi era ritenuto autore umoristico e come tale poco impegnato nonostante che combattesse per gli unici due ideali meritevoli, la monarchia e Gesù; ebbene Guareschi, dopo avere trascorso due anni nei lager tedeschi, fu ospite per diciotto mesi delle galere patrie perché non voleva rinunciare a delle bislacche convinzioni e, roba ancor più bislacca, invece di andare ogni due giorni in tv a lamentarsi del reiterato sopruso aveva preso lo stesso zaino del lager ed era pacificamente andato in carcere a finire di rovinarsi la salute e la vita.
Io però mi sforzo di essere buono, per quanto invano, e san Paolo mi ha insegnato che non bisogna far tramontare il sole sulla propria ira. Contestavo al demonietto che non intendevo augurare a Saviano né la galera né la morte, ché per quanto invidioso ero comunque dotato di discernimento, e mi rassegnavo a una saggia soluzione di compromesso: avrei evitato di leggere Saviano e di inseguirne il successo, mi sarei dato ad altro o, qualora non ne fossi stato capace, mi sarei accontentato di quel poco che riuscivo a mettere insieme e sarei vissuto sereno senza pensarci più. Avevo resistito per anni finché non ero passato da una libreria e avevo visto altre pile di edizioni economiche di “Gomorra” che nel frattempo era diventato un long-seller. L'avevo aperto e avevo scorso qualche frase qua e là, procedendo a casaccio e trovando sempre ciò che mi sarei aspettato: periodi brevi, prosa concitata, stile giornalese, palese incapacità di parlare d'altro o altrimenti (e il demonietto redivivo maliziosamente insinuava: ma Saviano approfitterà prima o poi della sua fama di scrittore per scrivere un romanzo?); mi ero reso conto che il mio rifiuto di leggere “Gomorra” non derivava da una scelta di quieto vivere ma dalla consapevolezza aprioristica che fosse come la marmite, un barattolo di cibo inglese che puzza da così distante che non c'è bisogno di assaggiarlo e che divide gli inglesi fra chi la detesta, chi l'adora perché convinto che la puzza sia profumo e chi l'acquista perché ritiene che se la commerciano su così vasta scala qualcuno dovrà pur comprarsela, anche se poi la tiene sigillata nella dispensa.
Ecco dunque la seconda rivelazione: mentre io affinavo la prosa a oltranza e aspettavo che gli editori venissero a litigarsi i miei manoscritti sotto casa, il pubblico di lettori italiani si rivelava composto in gran parte da consumatori di marmite tutti intenti a ripetersi l'un l'altro quanto fosse buona mentre la tenevano serrata dietro tre barattoli di Nutella. Se scrivevo, a che pubblico intendevo rivolgermi? A un pubblico di uomini barbosi usi a lamentarsi dell'analfabetismo italico, sottintendendo che poiché hanno letto tre libri, a fronte di una media nazionale dello zero virgola zero periodico, loro possono sì dirsi felici e colti e sempre dalla parte del giusto? A un pubblico di donzelle che ficcano le foto in bikini sul profilo di Facebook e alla voce professione aggiungono “scrittrice” a “impiegata”, o peggio ancora “poetessa”, e poi si vantano sullo stesso mezzo di avere fatto la fila in attesa dell'apertura della libreria per comprare “L'inferno e la bellezza”, dichiarandolo l'unico libro che meriti di essere letto dopo “Gomorra”, del tutto incuranti che s'intitoli invece “La bellezza e l'inferno”? Io invece andavo in biblioteca per leggermi Carlo Dossi e trovare scritto, con largo anticipo sui tempi, che in Italia “gli analfabeti son molti ma molti più ancora sono i leggenti che non capiscono nulla”, provando a consolarmi con la notazione che “contrattempisti più che tutti siam noi, noi scrittori, che ci ostiniamo a presentar libri a un'Italia che non sa lèggere”.
Non facevo in tempo a finire il capoverso che tornava su il demonietto e stavolta tuonava: se li merita, Saviano, i lettori che gli invertono l'ordine delle parole nei titoli, così come loro si meritano Saviano in perfetta corrispondenza d'amorosi sensi. Se li merita perché ha portato alle estreme conseguenze il setaccio col quale alla scuola superiore c'insegnavano a distinguere Verga da Pirandello: il primo sviluppava uno “stile di cose”, il secondo uno “stile di parole”. Le due metà dovrebbero tendere all'interdipendenza ma Saviano ha compiuto la scelta ideologica inversa, puntando tutto sulle cose, sulla perfetta rispondenza al vero di ciò che scrive, e sulla inevitabile collocazione delle sue parole nel versante del giusto in maniera tale che nessuno più potesse contraddirlo. Non mi rodeva tanto che si fosse autoeletto a martire ma che avesse spostato d'emblée la posta in gioco facendo scientemente accettare al pubblico, a quello che volevo fosse il mio pubblico, l'idea che il solo metro di grandezza di uno scrittore fosse la vocazione al martirio, la quantità di minacce che riceveva, il novero degli agenti di scorta volto a dimostrare plasticamente la veridicità dei suoi scritti. E per quanto io potessi dichiararmi per una letteratura meno impegnata, il vero motivo per cui appena vedevo una copia di “Gomorra” mi veniva l'istinto di morderla è che io avevo compiuto la scelta esattamente opposta, puntando tutto sulle parole, cercando di limare il suono delle pagine fino al momento in cui le cose avrebbero perduto ogni peso. Mi illudevo; meglio sarebbe stato farmi, come Saviano, volontariamente vittima di un carico di lupini, scegliendo di perdere ogni occasione di tentare della letteratura alta, senza data di scadenza, per concentrarmi sulla contabilità morale spiccia e immediata.
La verità, la verità, che cos'è la verità? – mi domandavo pilatescamente mentre vedevo crescere nel pubblico che non avevo saputo raggiungere il desiderio di una distinzione netta fra libri buoni e libri cattivi opposta all'unica distinzione che mi interessasse, fra i libri ben scritti e quelli scritti male. I libri buoni sono quelli che raccontano la verità: i romanzi con la fascetta “Ispirato a una storia vera”, le inchieste che dimostrano ciò che nessuno ardiva immaginare, i resoconti delle infiltrazioni con telecamera nascosta, gli spifferi di Wikileaks e tutto Saviano minuto per minuto. I libri cattivi sono tutti gli altri. Il pubblico voleva la verità: era un'inarrestabile epidemia di gomorrea e io non potevo trovare conforto se non in Fogazzaro, che in una lettera del 1886 (non indirizzata a me) aveva scritto che altro che rispondenza al vero, “il difficile è comporre un tutto ragionevole con tutti questi veri presi da tutte le parti”. Allora avevo deciso che, verità o meno, alla prima incongruenza stilistica in un libro lo avrei chiuso per non aprirlo più, perché l'irrefragabile realtà dell'inchiostro sulla pagina dimostra che ogni libro è fatto di parole e di nient'altro. Piuttosto di finirlo avrei acceso la tv, non per questo sentendomi al riparo in quanto magari ci avrei trovato, che so, un simil-Travaglio che apre un volume a caso, legge coram populo che – poniamo – il tale assessore è stato fotografato al battesimo del figlio di un cugino del vicino di un indagato per concorso esterno in associazione mafiosa e, prima ancora che la retta ragione possa contestare alcunché, agita il volume in faccia alla telecamera e bercia: “Questo l'ha scritto Saviano”. Tutti ci avrebbero creduto e solo io mi sarei ricordato che nel Seicento un teologo protestante, Jacques Abbadie, sosteneva che la descrizione del passaggio del mar Rosso nell'Antico Testamento fosse veridica perché oltre a Mosè potevano testimoniarla le migliaia di israeliti che, stando al suo stesso racconto, lo seguivano. I secoli passano ma il metodo è uguale.
Il pubblico che Saviano mi ha rubato, stando al demonietto, ricordava il topo di fogna nell' “Amico devoto” di Oscar Wilde, quando dice: “E la storia parla di me? In tal caso l'ascolterò con molta attenzione, perché mi piace la narrativa”. Io ero lì a contare le sillabe e intanto la gente comprava “Gomorra” per dimostrare di non essere camorrista: era un de me fabula narratur nel quale, come si faceva a botte per comparire sullo sfondo dell'inquadratura di un tg e sentirsi lambiti dal fatto di cronaca che veniva raccontato, così si comprava Saviano per sentirsi un po' minacciati da una camorra di plastica, per rientrare sullo sfondo dell'inquadratura benpensante.
Insomma, Saviano non può pretendere che io lo legga se prima non impara la bella prosa. Mi sono sforzato con l'introduzione del suo ultimo libro con Feltrinelli, che almeno ha il pregio di durare poche pagine, ma vi ho riscontrato un compendio del savianesimo più urtante, con il ritmo della prosa spezzato a casaccio, i periodi brevi come se avesse il singhiozzo, le patetiche anafore delle congiunzioni avversative e tutto ciò che un autore quindicenne tenterebbe di buttare su pagina pur di sembrare hard-boiled – risultando alla lunga non più hard ma solo boiled. Saviano non può pretendere che facciamo pace finché non scrive un bel romanzo d'amore e fantasia ambientato a Brescia: guardati dall'uomo di un solo libro, diceva san Tommaso d'Aquino, e secondo me non si riferiva tanto ai monolettori quanto ai monoscrittori. Saviano non può pretendere che io approvi “Gomorra” quando la condanna ideale della camorra l'ho sentita in “Così parlò Bellavista” (“Ma, tutto sommato, non è che fate una vita di merda? Perché penso io, Gesù, fate pure i miliardi, guadagnate, però vi ammazzate tra di voi; e poi anche quando non vi ammazzate tra di voi ci sono le vendette trasversali, vi ammazzano le mamme, le sorelle, i figli… Ma vi siete fatti bene i conti? Vi conviene?”); e per di più De Crescenzo se ne va in giro senza scorta. Saviano non può pretendere che io guardi la sua trasmissione su Rai3 senza notare l'ironia del titolo “Vieni via con me” affidato a uno che ha fatto un'arte del proclamare: “Basta! Me ne vado dall'Italia! Me ne sto andando! Me ne andrò! Sto quasi per andarmene! Guardate che vado via! Inizio a pensare di andarmene! Sono quasi in procinto di potermene andare!” – salvo poi restare lì, inchiavardato alla nazione che lo foraggiava mentre io dovevo andare a lavorare in Inghilterra. Saviano non può pretendere che spenda ventitré euri per i sette Cd di Saviano che legge “Gomorra” quando ne pagherei volentieri cinquanta per sette Cd in cui Saviano sta zitto.
Ho un bel dire tutto ciò ma l'ultima parola spetta al demonietto insopprimibile, secondo il quale Saviano non può pretendere un trattamento più benevolo se tutto il mio agitarmi, in libreria e davanti alla tv, resta impercepito; se il suo successo ha scavato fra noi una distanza talmente abissale da isolarmi nell'ininfluenza delle mie posizioni, nel frustrante sentimento che il mio astio, la mia invidia, il mio disgusto rimescolati non lo sfiorino e non possano aspirare a fargli né caldo né freddo perché lui è Saviano e io no. Sappia insomma Saviano che non potrà cessare di essere il mio nemico finché io non divento il suo.
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