Giochi tempestosi

Stefano Cingolani

Nelle stanze di palazzo Mezzanotte dove si celebrano i riti esangui del capitalismo italiano, va per la maggiore un nuovo gioco: lo chiamano Oracolo, dal nomignolo con il quale è conosciuto Warren Buffett. Al tavolo della Borsa di Milano provata dalla tempesta d'agosto, sono seduti in molti, perché nonostante le grida accorate sulla nuova apocalisse (ormai una al mese in finanza, senza contare quel che riesce a escogitare la natura matrigna) la ricchezza non si è magicamente dissolta.

    Nelle stanze di palazzo Mezzanotte dove si celebrano i riti esangui del capitalismo italiano, va per la maggiore un nuovo gioco: lo chiamano Oracolo, dal nomignolo con il quale è conosciuto Warren Buffett. Al tavolo della Borsa di Milano provata dalla tempesta d'agosto, sono seduti in molti, perché nonostante le grida accorate sulla nuova apocalisse (ormai una al mese in finanza, senza contare quel che riesce a escogitare la natura matrigna) la ricchezza non si è magicamente dissolta, non è stata distrutta, ma piuttosto redistribuita. Non tutti hanno perduto, c'è anche chi ha guadagnato. Non tutti hanno venduto, c'è chi ha comprato eccome, per di più a prezzi stracciati.

    Diego Della Valle ha acquistato 12 milioni di azioni Mediobanca salendo dallo 0,45 all'1,9 per cento: l'operazione sarebbe avvenuta il 19 agosto, proprio nel bel mezzo della bufera, pagando 6,35 euro a pezzo, con una spesa che s'aggira sui 70 milioni. Vincent Bolloré non è da meno, dichiara di puntare al 6 per cento della banca d'affari, e si prende un milione e mezzo di titoli per 8,75 milioni di euro. Ma non sono stati a pettinare le spiagge nemmeno Francesco Gaetano Caltagirone e Leonardo Del Vecchio, che hanno aumentato le loro quote in Generali. Chi ha pochi debiti e molti denari contanti da spendere, li getta adesso sul gran tappeto verde. Di liquidità in giro ne circola parecchia. Mario Moretti Polegato, Mr. Geox, cammina (e non è un gioco di parole) sulle orme di Mr. Tod's, con un patrimonio di 924 milioni e una posizione finanziaria netta per 381,9 milioni, calcola il Sole 24 Ore. Ernesto Bertarelli, l'imprenditore italo-svizzero, dopo aver venduto la Serono alla tedesca Merck per 10 miliardi di euro, ha lasciato le biotecnologie per le barche, le case e la finanza: ora ha investito 500 milioni di sterline nel mattone, ma vuole entrare anche in aziende biomediche italiane. Per non parlare di Carlo De Benedetti: i 564 milioni presi da Fininvest resteranno fuori bilancio fino alla sentenza finale della Cassazione; poi, se non torneranno al mittente, dovrà decidere che farne: gettarli nell'editoria o affidarli all'oculata gestione del figlio Rodolfo che guida il gruppo tra le secche delle energie alternative e il maelstrom della sanità. Dunque, è in questo bouquet di capitalisti che va scelto il Buffett di Piazza Affari?

    Il finanziere americano, tra gli uomini più ricchi al mondo con i suoi 50 miliardi di dollari, ha appena investito ben cinque miliardi nella Bank of America, una sorta di salvataggio privato dopo quello pubblico del 2008, per la maggiore banca commerciale a stelle e strisce, la cui storia risale alla Bank of Italy, fondata nel 1904 a San Francisco da Amadeo Giannini. Non è che al Saggio di Omaha (la città del Nebraska dove è nato il 30 agosto 1930 e opera con la sua corazzata finanziaria, il fondo Berkshire Hathaway) sia andato sempre tutto bene. Anzi, proprio in questo agosto di fuoco ha subito l'onta di vedersi degradare da Standard & Poor's. Una mera ritorsione, secondo alcuni, perché Buffett è il primo azionista di Moody's, l'agenzia di rating concorrente. Gli scossoni della Borsa, però, non cambiano un modus operandi affinato fin dagli anni 80: individuare imprese in difficoltà, intervenire con una buona iniezione di capitali, rilanciarle e poi uscire; non subito, magari dopo qualche anno, quando ormai sono in grado di navigare con le proprie vele. Né locusta né velociraptor, lui è un investitore che bada ai fondamentali. Così è successo con Goldman Sachs dopo il collasso del 2008, ma lo ha fatto con Coca-Cola (il primo grande successo che lo rese celebre al mondo intero), con il Washington Post, con American Express, Procter & Gamble, la rete televisiva Abc e tante altre belle firme del capitalismo americano.

    L'Oracolo sceglie i suoi obiettivi seguendo alcune linee guida: cerca aziende che abbiano una posizione leader nei beni di consumo o nei servizi, marchi ben riconoscibili, con forte capacità di generare utili. Il rapporto tra prezzo e profitto è il punto chiave nelle decisioni d'acquisto, seguendo un principio molto semplice: one dollar-one dollar, cioè per ogni dollaro di utile trattenuto dall'azienda almeno un dollaro in più nella capitalizzazione di Borsa. E' possibile applicare lo stesso schema in Italia? R & S, la società di ricerche che fa capo al centro studi di Mediobanca, ha calcolato come sono andate le cinquanta principali imprese quotate dal 2006 al 2010. Ebbene, il risultato netto dell'intero insieme è sceso del 31,9 per cento, il valore di Borsa del 40,8. La crisi ha colpito duro: si è perduto più di un euro di capitalizzazione ogni euro di utile in meno. E' il paradigma Buffett, ma a testa in giù.

    Poche le eccezioni e tra queste Luxottica che ha mantenuto lo stesso livello di utili e di capitalizzazione. Un risultato che adesso consente a Del Vecchio di celebrare i suoi cinquant'anni di attività distribuendo azioni gratuite ai dipendenti, vincolate per un triennio. Ma chi ha visto addirittura aumentare i profitti del 65 per cento e il valore di borsa del 21,6 per cento, è il gruppo Tod's. Il rendimento sul capitale investito è arrivato al 23,4 per cento, al primo posto tra i cinquanta titoli analizzati da R & S. Insomma, tutto secondo i criteri dell'Oracolo il quale ha posto come limite minimo per i suoi investimenti un guadagno di almeno 15 dollari su cento.
    “E' Diego Della Valle il Buffett italiano”, sentenzia l'americano Wwd, uno dei più autorevoli siti web nel mondo della moda, ricordando l'ampia platea dei suoi investimenti tra i quali spicca il 14,5 per cento di Saks, uno dei maggiori grandi magazzini Usa, Rcs, Piaggio, Bialetti, Cinecittà, la Fiorentina e le joint venture con Luca di Montezemolo nei treni ad alta velocità e in Poltrona Frau. Non tutti sono dei successi. La Ntv (Nuovo trasporto viaggiatori) deve ancora debuttare tra grandi incognite e ostacoli, il mobilio di lusso continua a perdere (1,4 milioni di euro nel primo semestre), la squadra di calcio è fonte di guai e delusioni. Comunque, il medagliere resta copioso e bisogna aggiungere la recente conversione verso il mecenatismo che sicuramente va in parallelo con la conversione filantropica di Buffett insieme a Bill e Melinda Gates.

    Ma gli emuli italiani giocano davvero all'Oracolo o piuttosto si dilettano nel più tradizionale Risiko? I quattro moschettieri di Ferragosto, si sono mossi non tanto per guadagnare quattrini, quanto per conquistare nuove caselle nel decennale scontro di potere che divide la finanza del nord. Generali ha perso molti colpi. Il suo valore di Borsa è sceso a 19 miliardi, il titolo a 12,5 euro, il 17 per cento in meno rispetto al primo luglio. Molte operazioni, ad esempio quella con la banca russa Vtb, sono state rinviate. Soci privati importanti come De Agostini registrano in bilancio perdite di 400 milioni. Eppure Caltagirone spende 6 milioni mentre Del Vecchio, uscito polemicamente dal consiglio di amministrazione durante lo scontro con Geronzi, ci ripensa e torna in campo. E' chiaro che tutti caricano i pezzi per la campagna d'autunno.

    Della Valle non commenta le ultime spesucce, tuttavia si sa quali sono i suoi obiettivi e non li ha mai nascosti: crescere nella banca d'affari e in Rizzoli Corriere della Sera, operazioni parallele e collegate visto che Mediobanca è l'azionista numero uno della società editoriale. Mr. Tod's ha già chiesto di salire in Rcs, ma è stato stoppato dal patto di sindacato, nel nome della stabilità che tiene fuori anche l'imprenditore della sanità Giuseppe Rotelli con un pacchetto dell'11 per cento. Gli accordi restano validi fino al marzo 2014, quindi al netto di scossoni improvvisi, ogni scalata al Corsera è destinata a fallire. In Mediobanca, invece, scade il 31 dicembre l'intesa barocca che blocca il 44 per cento del capitale e ne garantisce il controllo: da una parte le banche (gruppo A), dall'altra i privati divisi in due tranche, la prima composta da imprenditori italiani (gruppo B) come Benetton, Berlusconi, Pesenti, Ferrero, Della Valle; e l'altra (gruppo C) che fa capo alla cordata francese guidata da Vincent Bolloré nella quale milita anche Tarak Ben Ammar. La disdetta va data entro la fine di questo mese e il consiglio d'amministrazione deve essere nominato entro ottobre.

    “Diego è il benvenuto”, ha commentato Ben Ammar. Nella primavera scorsa aveva incrociato le armi con Mr. Tod's nello scontro dentro Generali che portò alle dimissioni di Cesare Geronzi, sostenuto dall'imprenditore tunisino e avversato dall'industriale marchigiano. Adesso cerca l'appeasement, con la voglia di mantenere la tripartizione sia pure con spostamenti interni agli equilibri di potere esistenti. Insomma, chi entra e chi esce, ma sempre lo stesso Grand Hotel.

    A Bolloré, invece, non è mai piaciuto lo status quo, nemmeno riverniciato. Il finanziere bretone non ha intenzione di stare alla finestra, anzi vuol essere protagonista, come rappresentante degli azionisti stranieri, ma anche come contraltare al potere dell'amministratore Alberto Nagel, artefice dello scossone anti Geronzi e desideroso di affrancarsi dai troppi e potenti azionisti. Il tutto si incrocia con la continua voglia di riposizionarsi per il dopo Berlusconi, quando verrà. Il rapporto d'amicizia e d'affari di Della Valle con Montezemolo eccita i soliti sospetti ora che il presidente della Ferrari sembra più vicino a scendere nell'arena. Mentre Bolloré e Ben Ammar diventano gli alfieri berlusconiani in cerca di rivincita dopo lo scacco subito con la defenestrazione di Geronzi. Déjà vu, déjà entendu, ma sempreverde. Mentre i frutti del desiderio perdono peso e valore. Riprendiamo le cifre di R & S: Generali valgono il 48 per cento in meno rispetto a prima della crisi; Mediobanca il 58; Rcs addirittura il 72 per cento. Per che cosa si battono, allora, i novelli campioni del Risiko: per qualche titolo sui giornali, per farsi pubblicità, per tessere la tela relazionale, per la politica? O, come Warren Buffett, per risanare e far crescere le imprese?

    La partita si fa più intricata perché Unicredit, primo azionista singolo di Mediobanca, oggi è più debole di un anno fa. Dopo l'uscita di Alessandro Profumo, il presidente, il tedesco Dieter Rampl, aveva manifestato segnali di malessere. Il nuovo amministratore delegato Federico Ghizzoni s'è trovato a gestire un crollo in Borsa che ha dimezzato il capitale tra il 2006 e il 2010, mentre il titolo è sceso ancora da 1,53 euro a 94 centesimi dal primo luglio. Tutto ciò proprio nel momento in cui c'è bisogno di rafforzare il patrimonio. A un primo semestre di conti magri, s'aggiunge la grande frittata libica. Che fine farà la quota del 7,5 per cento in mano alla Banca centrale (ne ha il 5) e al fondo sovrano Libyan Investment Authority? Il pacchetto vale un miliardo e mezzo di euro ed è stato congelato l'11 marzo scorso quando sono scattate le sanzioni europee. In consiglio di amministrazione è rimasto Farhat Omar Bengdara, già governatore della Banca centrale che ogni tanto si fa vivo da Beirut dove si è rifugiato. Ma ora che i beni del dittatore passeranno al governo degli insorti, molti ritengono improbabile che Tripoli resti ancora nella banca italiana. E forse dovrebbero farsi sentire anche le autorità di vigilanza. Una quota così grande in mani poco affidabili è un pericolo per chi investe e per chi deposita i propri risparmi in Unicredit. Ironia della storia, la caduta di Profumo era stata spiegata dai suoi avversari proprio con il rafforzamento della presenza libica deciso senza avvisare presidente e consiglieri.
    Se escono i successori del colonnello, chi prenderà il loro posto? La banca resta molto esposta ai rovesci dei mercati, anche perché nel passato si è avventurata più di altre nei sentieri tortuosi della finanza innovativa. La quota dei derivati sul totale dell'attivo era del 9,3 per cento nel 2010, calcola R&S, scesa di due punti rispetto all'annus horribilis 2008 in cui l'istituto di piazza Cordusio ha rischiato davvero grosso.

    Rafforzare l'assetto delle banche non è un problema aperto solo in Unicredit. Il Monte dei Paschi di Siena ha affidato alla fondazione che ne possiede la maggioranza il ruolo di finanziatore di ultima istanza. Molto più complicata si presenta la situazione alla Banca Popolare di Milano, guidata da Massimo Ponzellini, già assistente di Romano Prodi, passato da tempo nelle grazie di Giulio Tremonti. La struttura cooperativa si è rivelata debole, la Bpm deve aumentare il capitale per 1,2 miliardi e ha bisogno di iniezioni esterne. Si è detto disponibile a fornire 200 milioni il fondo Sator di Matteo Arpe, una soluzione che piace alla Banca d'Italia, ma non a Ponzellini il quale aveva in serbo qualche carta straniera. Il crollo del titolo ad agosto, le difficoltà economiche italiane, i turbolenti mercati dell'Eurolandia, tutto ciò restringe i margini di manovra del presidente.

    Le banche italiane, che pure hanno evitato salvataggi pubblici e una vera e propria crisi (lo ha sottolineato con sollievo Mario Draghi nelle sue ultime considerazioni finali), sono sottocapitalizzate rispetto alle principali concorrenti. E non solo. Sono poco internazionalizzate e poco efficienti, la loro capacità di generare reddito “rimane debole e incide sulla possibilità di accantonare utili e patrimonio”. Nel 2010 la redditività è ulteriormente peggiorata, e gli utili si sono ridotti del 4,5 per cento, soprattutto a causa della caduta del margine d'interesse non compensata dagli altri ricavi tra i quali le commissioni che pure sono cresciute del 7,8 per cento. Dunque, l'assenza di crolli drammatici o la limitata esposizione verso i paesi a rischio debito sovrano (solo tre miliardi per la Grecia, altrettanti per il Portogallo e dieci per l'Irlanda) non mette al sicuro nessuno.

    Il rafforzamento è cominciato e Bankitalia calcola che nei primi mesi di quest'anno sono stati effettuati aumenti di capitale per oltre 11 miliardi a fronte di 4 miliardi del 2010. Ma ci sarebbe bisogno ancora di tre volte tanto. Come dire che ci vogliono sei operazioni Warren Buffett – Bank of America per raddrizzare la situazione. A portare denaro liquido in Italia finora sono state soprattutto le fondazioni. Insomma, vuoi vedere che il vero deus ex machina è sempre Giuseppe Guzzetti, già dirigente politico democristiano, diventato banchiere e oggi mente strategica e braccio armato dell'intero sistema imperniato sulle fondazioni?

    Così, dopo un lungo e tortuoso percorso, il gioco dell'Oracolo torna alla casella di partenza. Partito alla ricerca di qualcuno pronto a scommettere sul futuro delle grandi imprese e delle banche, le nervature portanti del corpaccione economico, si chiude ritrovando i soliti ircocervi, con la testa privata e il corpo pubblico. Le fondazioni restano le uniche casseforti piene di denaro contante le cui chiavi sono in mano a consigli di amministrazione nominati dai partiti su base locale. L'intreccio con la politica ha segnato per mezzo secolo il sistema creditizio; poi è stato sciolto in alto e riproposto dal basso. Niente contrappesi veri, nessun fondo di investimento autonomo, con una Borsa che viaggia ancora a un livello del 40 per cento inferiore a quello ante crisi, e aziende private che stentano a riprendersi. Altro che debito pubblico, le difficoltà italiane risiedono non solo in uno stato che spende e spande, ma anche in un capitalismo che si consuma nelle trame di palazzo. Senza più Enrico Cuccia e senza nemmeno Warren Buffett.