Penati e indignati
Lo sapevano già i latini: “Oportet ut scandala eveniant”, ma oggi negli scandali l'Italia addirittura sguazza. L'omicidio, la rapina, ingenerano nella società rabbia o paura. Si prova rabbia per l'efferatezza dell'assassino, ci stringe l'animo e ci terrorizza la spregiudicatezza del rapinatore che in pieno giorno, in una via centrale della città, entra nella tabaccheria o nell'appartamento e asporta la cassa o il cofanetto dei gioielli. Ci sono stati i tempi in cui la riflessione morale si esercitava sul tema del delitto e castigo.
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Lo sapevano già i latini: “Oportet ut scandala eveniant”, ma oggi negli scandali l'Italia addirittura sguazza. L'omicidio, la rapina, ingenerano nella società rabbia o paura. Si prova rabbia per l'efferatezza dell'assassino, ci stringe l'animo e ci terrorizza la spregiudicatezza del rapinatore che in pieno giorno, in una via centrale della città, entra nella tabaccheria o nell'appartamento e asporta la cassa o il cofanetto dei gioielli. Ci sono stati i tempi in cui la riflessione morale si esercitava sul tema del delitto e castigo.
Oggi il tema caro a Dostojevskij non interessa più, e naturalmente c'è chi sostiene che ciò accade per uno scadimento generale dell'etica. Ci si appassiona, invece, sul tema dello scandalo. Lo scandalo suscita indignazione. Scandalo, indignazione: è una sequenza ripetitiva, persino scontata. Lo scandalo è un evento sociale, l'indignazione è una reazione eminentemente sociale, chiama il consenso, si compiace della condivisione: sollecita la gogna, una sorta di “fustigazione” in pubblico. C'è naturalmente anche una indignazione che nasce dal profondo dell'io che si sente offeso, ma si tratta di un sentimento nobile ed esemplare, e per questo raro. Per lo più l'indignazione è un superficiale sentimento collettivo. Superficiale, e a volte scandalosamente superficiale. Ma, curiosamente, incute paura nel potere, che fa di tutto, ma proprio di tutto, per placarla. Quasi sempre, calpestando esigenze delicate, ma serie, e per le quali dovremmo sempre avere un occhio di riguardo.
Prendiamo il caso dell'esponente del Pd Filippo Penati, irretito da accuse pesantissime di corruzione, concussione e finanziamento illecito ai partiti. Se ne è parlato e se ne parlerà per un bel po', e anche facendo la tara sullo sfruttamento politico della vicenda da parte di avversari suoi o del suo partito, lo scandalo c'è, la stampa ci si è gettata sopra e ha profuso informazione, commenti e foto. Questo interessamento dovrebbe testimoniare della forza dell'indignazione civica, che respinge da sé il malcapitato e per lui chiede punizione immediata e adeguata. Sarà compito della giustizia soddisfare questa richiesta; però, nell'attesa del processo e del verdetto si è trovato un modo per già esprimere una condanna: anzi, appunto, una messa alla gogna, una fustigazione.
Penati si è “autosospeso” dal partito in cui milita, e il suo segretario, Pier Luigi Bersani, ha applaudito il gesto di “responsabilità”. Ha anzi informato che lui stesso “e il presidente della commissione nazionale di Garanzia del Pd, Luigi Berlinguer, hanno ritenuto opportuno che si avvii un'azione di immediata verifica a tutela dell'onorabilità del partito”. Altri autorevoli esponenti del quale sostengono che se i fatti sono veri il partito dovrebbe “emarginare” il reo: “Non dovrebbe essergli consentito di restare”. Siamo alle solite, mi pare, cioè a una ennesima prova della distorsione dell'idea di partito, ancora una volta individuato come una chiesa, o una setta, che giudica della moralità dei suoi componenti, e li accetta o li espelle in base a inquietanti e oscuri criteri. Ho fatto una certa esperienza politica nel Partito radicale, e so che nel suo statuto non solo non esistono le figure dei probiviri o una qualche commissione “di garanzia”, ma si dichiara espressamente che per essere radicale è necessario – ma anche sufficiente – aver pagato la tessera per l'anno in corso.
Quando lo statuto venne stilato, quell'articolo ci parve forse il più innovativo: intendeva affermare che un partito è solo una associazione di persone che intendono lavorare attorno a un progetto comune. Un progetto politico, non etico. Una posizione non fideistica ma, all'opposto, assolutamente laica. Quel tale è reo, o sospetto reo di un qualche delitto? La faccenda riguarda la giustizia. Finché paga la tessera, lui è nel partito, nessuno può scacciarlo. Quell'articolo statutario scrollava alle basi un secolare tabù ideologico.
Più o meno negli stessi giorni, si è anche parlato della questione delle esenzioni fiscali della chiesa e dell'abnorme regolamentazione della legge sull'otto per mille. Non riprendo gli argomenti pro o contro sulle questioni in ballo, sono sufficientemente noti. Mi ha stupito la scomposta reazione in certi ambienti cattolici, ma un po' li capisco. La chiesa una qualche giustificazione l'ha, a prescindere dalla validità delle argomentazioni addotte per dar conto delle esenzioni e della regolamentazione dell'otto per mille. Da sempre, quando ha voluto colpire un suo membro ritenuto colpevole di un grave reato o di una qualche indegnità irrecuperabile, la chiesa lo ha espulso. Lo ha scomunicato, vale a dire lo ha allontanato dalla comunione, dalla comunità dei credenti. Il reato si trasforma in colpa, e la comunità, compatta, ne risente e reagisce in conseguenza. Non è difficile constatare come i partiti, più o meno tutti, abbiano assunto per sé una definizione e un comportamento analogo: si considerano società perfette, i cui membri devono sottostare ad un controllo di tipo morale o moralistico. Hanno – ci mancherebbe – persino una “onorabilità” da difendere. Ma di laico hanno ormai poco o nulla.
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