Poca credibilità
Perché si continuano a declinare al futuro riforme urgenti?
Lo ammettiamo, questo diario è perplesso, nel senso che lo sono i suoi autori. Esso ha la missione, a volte rispettata altre volte no, di commentare fatti e opinioni emerse nel corso della settimana. I suoi autori, come tutti, o quasi, gli economisti, sanno bene che i modelli di interpretazione del mondo suggeriti dalla teoria economica hanno da lungo tempo inglobato la “quasi razionalità”, e persino l'idea che le scelte economiche degli individui devino dai calcoli di ottimizzazione dell'“homo oeconomicus”.
Lo ammettiamo, questo diario è perplesso, nel senso che lo sono i suoi autori. Esso ha la missione, a volte rispettata altre volte no, di commentare fatti e opinioni emerse nel corso della settimana. I suoi autori, come tutti, o quasi, gli economisti, sanno bene che i modelli di interpretazione del mondo suggeriti dalla teoria economica hanno da lungo tempo inglobato la “quasi razionalità”, e persino l'idea che le scelte economiche degli individui devino dai calcoli di ottimizzazione dell'“homo oeconomicus”. Le scelte economiche sono guidate da emozioni, sentimenti vari, ma anche dal calcolo, anch'esso razionale, del costo di imbarcarsi in analisi troppo sofisticate delle possibili conseguenze delle proprie azioni. La neuro-economia e le scienze comportamentali hanno dato contributi interessanti alla comprensione dei comportamenti, di cui dovrebbero tenere conto i modelli che descrivono le scelte dei policy makers.
Eppure, siamo perplessi, benché laici, tolleranti e aperti al nuovo (almeno nelle intenzioni). E anche cercando di abbandonare gli schemi interpretativi tradizionali e adottando quelli suggeriti dai progressi nei campi scientifici citati, non siamo in grado di seguire i percorsi mentali ed emozionali, prepolitici, che stanno determinando la “produzione di manovre a mezzo di manovre” in cui, forse per l'effetto di un perdurante retaggio di Sraffa (i cui seguaci sono particolarmente agguerriti qui da noi), l'Italia si è imbarcata.
Cerchiamo quindi di orientarci non sui mutevoli provvedimenti in discussione, ma ripartendo dall'inizio, cioè dagli obiettivi. L'Italia deve ridurre il debito ed aumentare il tasso di crescita. Lo sappiamo da decenni, e, per non andare troppo lontano, lo sappiamo dall'inizio del millennio, anche se la questione si è fatta più urgente oggi. Sappiamo anche che i due obiettivi sono strettamente connessi, e non solo perché determinano congiuntamente il rapporto debito / pil. Lo sono perché le stesse riforme servono all'uno e all'altro obiettivo. Ad esempio, l'eliminazione delle pensioni di anzianità e il posticipo di quelle di vecchiaia, servono non solo a ridurre la spesa pensionistica ma a superare l'anomalia per cui la quota di persone che lavorano tra la popolazione di età superiore ai 56 anni è tra le più basse d'Europa, soprattutto tra le donne. Questo significa minore pil, il famoso denominatore del rapporto incriminato. La riforma fiscale serve a spostare il peso fiscale da imposte che ostacolano il lavoro, l'investimento, la produzione e quindi la crescita a imposte (sui consumi) il cui impatto è meno distorsivo. E se ciò porta a un aumento del tasso di crescita è bene utilizzare il maggior gettito per ridurre anche il peso fiscale e contributivo complessivo, non per la riduzione del deficit che invece deve provenire dalla riduzione della spesa. E per ridurre la spesa è necessario completare le riforme della PA per renderla più efficiente e meno costosa. Per questo servono non solo tagli ma anche investimenti, come per tutte le aziende. A questo fine è necessario adottare procedure immediate di spending review, previste ma non attuate.
E' inutile continuare ricordando fatti noti. Ma perché non si è ancora agito? Il ministro Tremonti è contrario all'uso dell'Iva per ridurre il deficit, perché, si dice, la sua intenzione è di utilizzare il suo aumento nell'ambito della riforma fiscale, assieme al riordino delle agevolazioni fiscali. D'accordo, ma allora perché la riforma è sempre declinata al futuro? Perché la manovra di emergenza invece di escogitare provvedimenti parziali, temporanei e fantasiosi, non anticipa le riforme complessive (o almeno una loro parte), che da tempo sono in lista d'attesa, offrendo così ai mercati, che non sono poi tanto irrazionali, la possibilità di capire dove si andrà a parare? D'altra parte l'emergenza viene dalla speculazione sui titoli italiani e dalle richieste della Banca centrale europea che su tali titoli sta massicciamente intervenendo. Ma cosa chiedono la Bce e l'Unione europea?
Più interventi diretti alla crescita, che non sono ovviamente provvedimenti di deficit spending, perché si chiede anche l'anticipo al 2013 dell'azzeramento del deficit. Ma ci dobbiamo anche chiedere perché c'è questa richiesta di anticipo, che dal punto di vista economico non ha alcun significato. La richiesta viene perché non c'è credibilità sull'obiettivo fissato al 2014, e questa credibilità non c'è perché la manovra di luglio non contiene decisioni chiare sulle riforme e quindi sulle prospettive di crescita, ma solo una promessa di salvaguardia di azione fiscale di tipo lineare sulle deduzioni Irpef, cioè prelievo aggiuntivo, come garanzia del rispetto dell'obiettivo. Ma se il problema fosse solo quello di azzerare il deficit con un anno di anticipo, e la Bce ci ricorda che non è così, anche al prezzo di una manovra con effetti deflattivi nel breve periodo e senza effetti positivi sulla crescita neppure nel medio periodo, allora sarebbe bastato prendere la manovra di Luglio, anticipare tutti provvedimenti di un anno e il gioco era fatto.
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