Zenga zenga in Padania
Zenga zenga, strada per strada, dar dar, casa per casa. Il beffardo rap dei ribelli libici con le minacce di Gheddafi suona perfetto anche nello slang delle tribù padane. Divise in almeno due fronti. La cavalleria del cerchio magico guidato dalla moglie di Bossi, apparentemente più debole e formata da uno sparuto gruppo di dirigenti, alcuni parlamentari, pochi sindaci, decine di militi ignoti e una corte che si muove scomposta in cerca di favori e privilegi, ha iniziato la sua guerra per stanare “zenga zenga” i ribelli: sindaci che si battono contro la mannaia della manovra economica, simpatizzanti di Bobo Maroni, rottamatori.
Zenga zenga, strada per strada, dar dar, casa per casa. Il beffardo rap dei ribelli libici con le minacce di Gheddafi suona perfetto anche nello slang delle tribù padane. Divise in almeno due fronti. La cavalleria del cerchio magico guidato dalla moglie di Bossi, apparentemente più debole e formata da uno sparuto gruppo di dirigenti, alcuni parlamentari, pochi sindaci, decine di militi ignoti e una corte che si muove scomposta in cerca di favori e privilegi, ha iniziato la sua guerra per stanare “zenga zenga” i ribelli: sindaci che si battono contro la mannaia della manovra economica (che infatti tra Roma e Arcore si è impantanata a furia di sabotaggi padani), simpatizzanti di Bobo Maroni, rottamatori che chiedono il rinnovamento generazionale, semplici militanti piuttosto sull'incazzato che compongono la maggioranza della base del partito. Compresi quelli che fino a qualche mese fa si dichiaravano pretoriani di Bossi e si ostinavano nel vedere dietro i suoi contorti giri di parole chissà quale strategia concordata con i suoi colonnelli. Compresi quelli che hanno avuto un sussulto d'orgoglio quando qualche mese fa il Senatùr disse, per poi contraddirsi ancora una volta, “non vogliamo affondare con Berlusconi” e ora invece non vogliono rassegnarsi ad assistere all'autunno del loro patriarca. Pensano, credono o sperano di poter salvare il Carroccio dal suo minaccioso declino. E sanno che il tempo corre, corre, bisogna impugnare i fucili, affondare i coltelli, affrontare il nemico. Ovviamente interno. Prima che sia troppo tardi, e si debba arrendere, senza neanche l'onore delle armi. Sono questi gli umori che si respirano tra la gente padana, ormai divisa come lo sono state le tribù di Tripoli e di Bengasi, anche se bisogna usare il radar per vedere le loro battaglie, che si svolgono dietro una coltre di nebbia.
Fra i soldati e i luogotenenti del Carroccio il linguaggio è cambiato. Quando parlano fanno ricorso più che altro alle categorie militari e alle metafore di gran visione epocale. “E' come se fossimo all'anarchia alla fine dell'Impero romano”, dicono in molti, “ognuno mena fendenti senza sapere bene chi sta colpendo, senza sapere che in realtà sta uccidendo il partito”. E anche i più spavaldi chiedono anonimato, come non capitava prima, come guerriglieri sul campo. Tante volte, nella storia del movimento padano, gli osservatori esterni hanno ritenuto che la Lega avesse esaurito la spinta propulsiva, fosse arrivata alla fine della sua storia; poi sorprendentemente questa strana tribù ha rialzato la testa, ricominciando a crescere, a consolidarsi, trovando linfa nel segreto delle urne. Ora però qualcosa è cambiato. Per la prima volta a decretare il momento del declino (irreversibile? momentaneo?) del movimento padano sono loro stessi: i soldati, le truppe dei due eserciti che rivendicano ognuno il patrimonio ideale del Carroccio e da mesi attendono, invano, l'inno di guerra dei loro comandanti. Ed è la prima volta che fra Varese e Verona, passando per Brescia e Bergamo, nelle retroguardie “maroniane” si usano frasi drastiche sul partito: “Rischia di diventare un cadavere putrefatto”.
Tutto è (ri)cominciato quando i due luogotenenti del ministro Maroni hanno alzato i toni contro le scelte di politica economica del governo. E se il sindaco di Verona Flavio Tosi dice di essere tranquillo, o almeno lo diceva prima di essere zittito dal ministro Roberto Calderoli e criticato dal sottosegretario alla Salute Francesca Martini, e prima che durante l'ultima segreteria politica Federico Bricolo, capogruppo al Senato e luogotentente veneto del cerchio magico, chiedesse la sua espulsione, a Varese invece il sindaco Attilio Fontana, in cima alla lista di proscrizione dei ribelli da epurare, è preoccupato. Fontana sa di essere diventato il nemico numero uno della famiglia, perché sta guidando la rivolta dei comuni contro la manovra, che sia a tendenza Tremonti o Berlusconi poco gli importa. E mentre Maroni tace in disparte, la cosa ha suscitato le ire anche di Roberto Calderoli, che davanti alla protesta dei sindaci ha dovuto rinegoziare e poi rimangiarsi tutto e alla fine fare promesse per salvare almeno i comuni virtuosi. Così, con lo spirito beffardo di chi cala gli ultimi assi, sabato scorso Fontana ha portato in piazza a Varese un tir senza motore, trainato a mano dai sindaci, a simboleggiare il giogo dello stato centralista. A chi gli chiede cosa farà se verrà espulso, ricorda beffardamente un thriller appena letto, in cui l'assassino uccideva solo gli inquilini che abitavano ai numeri dispari della stessa strada. Lui abita al numero 5. Ecco perché mentre continua a battersi contro la manovra, ha ripreso a fare anche l'avvocato: teme che, nonostante abbia slavato la faccia alla Lega alle ultime amministrative, verrà assassinato (politicamente, ovvio).
Il problema è che il Capo, il vecchio Capo, stavolta non c'è più, o quasi. C'è, ma appare sempre più stanco. Assente dalla scena politica e anche dalle rituali sagre padane, che ogni anno servono a rinserrare le file dei militanti, a sedare incendi, a dare prospettive. Anche i pretoriani esterni al cerchio magico, si sono arresi all'evidenza e hanno cominciato a dire che “il Capo deve farsi da parte, fare il padre nobile della Lega, tanto non è più capace di decidere nulla”. E non tanto per le sue pernacchie e il dito medio alzato. Non tanto perché è scivolato, inciampato, nessuno sa cosa sia veramente successo, rompendosi il braccio, ma perché la sua malattia e la sua stanchezza accelerano una guerra che non può più essere scongiurata né rimandata. Ora infatti non c'è più la fila dei cortigiani, che per anni lo hanno aspettato al gelataio di Gemonio per sussurrargli qualcosa all'orecchio, attendere un ordine, una parola che suonava sempre come un'assioma cui attenersi con disciplina e assoluto rigore. A seguirlo oggi sono pochi, i soliti noti, che sanno che lui dice di sì all'ultimo venuto, anche se per ora Bossi ha mantenuto la necessaria lucidità politica per non ordinare nessuna purga di ribelli, che spaccherebbe la Lega. Ma tutti sanno che il cosiddetto cerchio magico creato dalla consorte, Manuela Marrone, che ha investito Marco Reguzzoni e Rosi Mauro del compito di difendere la famiglia, soprattutto dopo l'elezione del “Trota” (che ha “aperto gli occhi” a molti militanti, che ora lanciano accuse di nepotismo), sta raccogliendo nuovi soldati per attaccare le linee maroniane.
Chi sa, chi è stanco di aspettare, chi vede il consenso della Lega assottigliarsi velocemente (due e più punti percentuali persi, dicono i sondaggi), spiega al Foglio come interpretare i codici del clan padano. Spiega che sul palco a Pontida, a giugno, quando il Senatùr dalla cima del suo declino non riusciva a concludere il ragionamento, con Calderoli che faceva il voltapagine del discorso scritto come si fa ai concerti coi pianisti, allora il coro “secessione, secessione” che si faceva più insistente dalle prime file altro non era che era che un surrogato del fischio: era quella contestazione e delegittimazione di Bossi che tutti i cronisti erano lì ad aspettare e non hanno saputo riconoscere. Per fargli capire che il suo tempo era scaduto. Ed ecco perché poi, quando i bergamaschi urlavano “Maroni premier” e il pratone si riempiva di striscioni che inneggiavano a Bobo, Rosi Mauro aveva avuto una reazione scomposta e, sconvolgendo la scaletta degli interventi, organizzata con cura per dare un'idea di compattezza del movimento, aveva preso il microfono per urlare furiosa qualche slogan. Come dire: siamo ancora vivi, ve la faremo pagare. Da quel momento, il cerchio magico che risponde alla moglie di Bossi ma arriva fino al tesoriere del partito, alimentato a sua volta da un semicerchio guidato dal senatore Fabio Rizzi, sindaco del comune varesino di Besozzo, è sempre più debole e perciò più aggressivo.
In mezzo a questo trambusto ci sono i militanti che, come una diga che ha rotto gli argini, sono riusciti a obbligare la Padania a dare voce al loro dissenso sulla parziale retromarcia sulla difesa delle pensioni. Per la prima volta la “Pravda” padana, che fino a ora con spregiudicato cerchiobottismo aveva dato spazio alle due anime del partito, ha dovuto arrendersi al terzo incomodo: la rabbia della base. E a far finta di condividerla.
Il Capo, tutti hanno visto che ha perso la sua verve da condottiero quando a Calalzo di Cadore è fuggito come un ladro nella notte per non affrontare le proteste interne. Era successo che Gianpaolo Bottacin, presidente della provincia di Belluno, si era presentato all'Hotel Ferrovia in compagnia del segretario della Lega bellunese, per evitare di finire nella lista di proscrizione (“con le spalle coperte”, ha detto lui), per sfidare Bossi sul taglio della sua provincia decisa dal ministro dell'Economia. Il Capo non c'è, tutti sanno che l'autunno del patriarca si sta trasformando in un manto di neve ghiacciata, perché quando il Senatùr si è presentato pochi giorni dopo a Schio i pretoriani, seppur poco convinti ormai, hanno tentato di evitare nuove contestazioni con un tam tam via sms a tutti i militanti, pregandoli di stare calmi. A confessarlo al Foglio non è un “nemico” maroniano, ma un quadro medio del partito di Vicenza, che è stato per anni nelle file dei bossiani e ora si è stancato, anche lui vede che è una corsa contro il tempo, forse una battaglia persa, provare a fermare il declino del movimento. Questo ci ha detto. Così, da sotto il palco di Schio, allo slogan flebile del vecchio Capo, “Padania libera”, i militanti hanno risposto “Veneto libero”. Non tanto perché credano ancora nell'indipendentismo, ma per far capire la loro diffidenza e la necessità di dare un giro di volta, almeno generazionale. E a denti stretti al vecchio Capo, hanno riservato, anche se in modo sommesso, commenti molto grevi.
La lotta intestina al Carroccio va vista attraverso uno specchio, che rimanda un'immagine rovesciata. Così i ribelli, secondo il cerchio magico, sono tutti e nessuno. Da Roberto Maroni fino all'ultimo sindaco sceso in piazza per difendere il suo bilancio stracciato e il suo consenso sul territorio. Chiunque è un possibile traditore. Tranne quelli che vegliano sul corpo del Capo e del figlio Renzo (che porterà a Brescia a un'altra guerra, per l'elezione del segretario provinciale). Ma è a Varese che più si comprende l'aria di una resa dei conti non ancora arrivata. Qui, chi ha cercato un chiarimento con Manuela Marrone, si è sentito dire che “chiunque è contro la famiglia non vuole bene a Bossi, perciò ha tradito la causa, i nostri ideali”. E' accaduto un anno fa, molto prima della sua recente sfuriata in cui ha intimato al marito di sbattere fuori tutti i “traditori”: da Maroni a Fontana, da Tosi a Giancarlo Giorgetti. Al punto che il cerchio magico ha creato un giornale on line, Velina Verde, dove poter scrivere che spezzerà il patto d'acciaio dei maroniani. O meglio quello che unisce Maroni, definito “un uomo che viene dalla sinistra, dichiaratamente laico e ateo” all'avvocato Andrea Mascetti, il leader carismatico dell'associazione culturale Terra Insubre per creare un cosca di affari e distruggere gli ideali della Lega nord. Un attacco violento, di cui sono a conoscenza solo i membri della tribù di Varese, che sul sito web si conclude con un'inconsapevole ammissione di impotenza: “Bossi, con il suo proverbiale fiuto, per ora sta a guardare”.
Sta a guardare o non vede più? Tace per salvaguardare l'unità del Carroccio o è diventato il Kagemusha di se stesso, l'ombra del guerriero raccontato nel film di Akira Kurosawa, che continua a incutere paura anche dopo che il signore della guerra Takeda è morto? Queste sono le domande che si fanno militanti e luogotenenti dei ribelli, che concordano su una cosa: Bossi non decide più nulla. Serve solo a salvaguardare una parte del gruppo dirigente, che altrimenti verrebbe stralciato dal partito come un emendamento della manovra.
“Il cerchio magico agisce così”, spiega un sindaco che si dichiara “di fede maronita”, come se fosse a Beirut e non in Lombardia. “Nonostante la maggioranza dei sindaci – quasi tutti esponenti della nuova generazione di trentenni e quarantenni – rispondano a Maroni, loro assoldano militanti di bassa caratura politica, che si infilano nelle giunte comunali per spaccare, dividere, e poi andare alla corte di Gemonio a raccontare che quei piccoli governi locali e le loro sezioni di partito devono essere commissariati. Ma la loro vera meta è portare il capogruppo di Montecitorio Marco Reguzzoni a prendere il posto di Giancarlo Giorgetti, nella veste di segretario nazionale della Lega in Lombardia”.
Zenga zenga, casa per casa. E' la metafora giusta per capire la febbre militare che cresce dietro un appuntamento politico che per la Lega lombarda ha il valore della battaglia di Austerlitz, o forse di Waterloo, ancora non si sa. Ossia il congresso provinciale di Varese che si terrà il 25 settembre. Per ora la segreteria è guidata da un maroniano, Stefano Candiani, anche lui finito sulla lista nera. A quel congresso si sfideranno candidati affiliati al cerchio magico e maroniani, che dicono: “Siamo qui, non c'è bisogno che vengano a prenderci casa per casa, noi ci consegniamo. Nudi e disarmati”. Nella speranza che un corpo a corpo con una minoranza, che però possiede l'arma segreta della vicinanza al corpo del Capo, possa salvare il movimento. “Se vincono loro, inizieranno a spaccare giunte e sezioni. Basta una frase sussurrata nell'orecchio di Bossi, che non si sa mai cosa e come possa rispondere, e perdiamo tutto”, dicono.
In Veneto invece, dove si trova l'altro fronte di guerra, determinante da un punto di vista quantitativo per il consenso elettorale della Lega, si respira un'aria diversa perché è chiaro a tutti, governatore Luca Zaia compreso, che la chiave della campagna militare ce l'ha in mano un altro ribelle finito sulla lista di proscrizione della famiglia da molti anni: Flavio Tosi. Qui in Veneto, il tempo non corre, si ferma. I giorni si dilatano, si fiuta il vento, “ad aspettare le correnti che possano disincagliare la nave finita nelle secche, che non è fatta per le acque basse, ma solo per navigare in mare aperto”, dicono i leghisti di entrambi i fronti.
Gian Paolo Gobbo, il segretario della Liga veneta, ha sempre vinto la lotta per il potere con pratiche orientali: stando fermo, aspettando che il cadavere passasse sulla sua riva del fiume. Ora, incitato dai suoi soldati, ha deciso di agire. Prima della pausa estiva ha espulso e sospeso dal partito diversi uomini legati a Tosi. Alcuni senza motivo, altri perché sulle loro teste pendeva una delicata questione morale. Flavio Tosi conta ormai, tranne che a Treviso, se non sulla maggioranza almeno sulla metà dei militanti veneti. Sia nel partito, che nel gruppo del Consiglio regionale e nella giunta di Zaia, con cui litiga, pare, perché il furbo governatore si è sfilato dal duello. Tosi, a differenza dei varesini, non può consegnarsi al nemico perché l'anno prossimo si ricandiderà per le elezioni comunali. E confida di vincere grazie alla sua popolarità e alle divisioni interne al Pdl di cui vorrebbe approfittare. In Veneto, più che combattere, stanno tutti fermi a vedere come va a finire. Nonostante le truppe che scalpitano, per ora si limitano a leggere thriller che narrano i doppi e i tripli giochi. Qualche capo si affida a Dino Buzzati, per spiegare ai suoi il “Deserto dei Tartari”, perché il nemico non si espone mai.
In mezzo a questo trambusto si trova il ministro per la Semplificazione, Roberto Calderoli che, dopo mesi sottocoperta, quando Maroni sembrava a un passo dalla vittoria, è riuscito a essere delegato dal Capo per negoziare sulla manovra. Grazie al fatto di aver ricucito gli strappi più evidenti con Tremonti, fino a quando nessuno lo sa. Su Calderoli però le truppe di entrambi gli eserciti concordano: “Lui ha una doppia casacca: sta un po' di qua e un po' di là, vede come va a finire”. E in mezzo alla febbre militare ci sta Bobo Maroni, che i suoi partigiani iniziano però a sospettare di uno strano karma, quello di fermarsi sempre a un passo dalla vittoria. Anche se ovunque vada, Bergamo compreso, viene accolto come il salvatore della patria padana. Acclamato come potenziale premier a Pontida, è stato a un passo dal ricevere il battesimo del Capo come successore e perciò ha osato l'azzardo contro Marco Reguzzoni per chiederne la sostituzione da capogruppo in Parlamento con Giacomo Stucchi, bergamasco che spegne gli incendi a parole, ma lavora per Maroni e piace alla maggioranza dei parlamentari. Ma è stato respinto con perdite. Ed è rimasto a un passo dalla vittoria anche quando ha guidato le sue truppe parlamentari, prima dell'estate, a votare per l'arresto di Alfonso Papa. Ma poi, come ha fatto quasi sempre nella sua carriera politica, è rientrato nel cono d'ombra ed è rimasto ancora una volta con il cerino in mano, ai margini per ora di una danza guidata da Roberto Calderoli. E non è riuscito, come avrebbe voluto, a difendere i sindaci. Ecco perché a Varese i maroniani temono di finire catturati. Perché Maroni preferisce ricorrere a una strategia di lungo termine, che porti a una vittoria naturale. Anche se camminare mano per mano con il segretario del Pdl, Angelino Alfano, nella speranza di sostituire la diarchia di B & B, Bossi e Berlusconi, non ha portato per ora da nessuna parte. E a Varese molti scuotono la testa e dicono: “Bobo non accoltellerà nessuno, né sfiderà mai direttamente Bossi. Non è nella sua indole e gli vuole troppo bene”. E mostrano i loro sms mandati al ministro dell'Interno: “Bobo, il tempo corre, corre, troppo veloce, deciditi. La vuoi fare o no questa guerra?”. Messaggi per ora rimasti senza risposta, che demoralizzano chi è disposto a morire per salvare il movimento, ma non senza aver prima combattuto. Strada per strada, casa per casa.
Il Foglio sportivo - in corpore sano