Ci vorrebbe un Obama

Stefano Cingolani

Mentre l'Europa s'arrabatta tra tagli ai bilanci pubblici e stretta fiscale, l'America rilancia. Su questa sponda dell'Atlantico si discute di stabilità, sull'altra di sviluppo. Qui si aumentano le tasse là si riducono.

    Mentre l'Europa s'arrabatta tra tagli ai bilanci pubblici e stretta fiscale, l'America rilancia. Su questa sponda dell'Atlantico si discute di stabilità, sull'altra di sviluppo. Qui si aumentano le tasse là si riducono. Debito nel Vecchio continente, posti di lavoro nel Nuovo. Il dualismo che separa i due più grandi blocchi economici mondiali, si ripropone in pieno davanti al rischio di una nuova recessione. Barack Obama oggi annuncerà nuovi provvedimenti con l'obiettivo di “mettere più soldi nelle tasche della gente”. Le anticipazioni sui giornali hanno già sollevato le critiche dei repubblicani e di molti economisti neoclassici i quali, però, replicano sullo stesso terreno pro crescita. Mezzi diversi per un identico obiettivo.

    Il presidente, sempre meno popolare (i sondaggi sono pessimi e il rischio di chiudere l'anno prossimo la sua esperienza con un solo mandato, è altissimo allo stato attuale), vuole confermare il taglio di due punti alla quota di contributi per la sicurezza sociale a carico dei salariati, deciso lo scorso dicembre per un solo anno. In sostanza, si tratta di pagare il 4,2 anziché il 6,2 per cento; ciò significa 200 miliardi di dollari nelle tasche dei lavoratori in modo da aumentare i consumi, spiega il New York Times. E' probabile che il beneficio a favore dei dipendenti venga esteso ai datori di lavoro i quali sborsano la stessa quota. Ciò annacquerebbe molte proteste dei repubblicani che non hanno una sola ricetta, ma il cui comune denominatore è meno tasse senza deficit spending. La loro tentazione è di giocare al rilancio: non negare l'impatto positivo dei tagli fiscali, ma renderli permanenti.

    La Social Security è in attivo ancora per qualche anno, quindi in teoria ci sarebbe copertura. Il rischio, però, è di spingerla lungo la china del deficit, preoccupazione espressa da autorevoli esponenti della Camera dei Rappresentanti. Mitt Romney, ex governatore del Massachusetts, ha pubblicato martedì il suo ambizioso piano in 59 punti, dieci dei quali sono quelli che contano davvero, le dieci promesse per i primi dieci giorni alla Casa Bianca: tra gli altri, portare l'imposizione sulle imprese dal 35 al 25 per cento, libero scambio, riduzione del 5 per cento delle spese discrezionali che non riguardano la sicurezza,  marcia indietro sulla riforma sanitaria. Rick Perry, candidato dei Tea Party, va ancora più in là sulla stessa linea liberista: l'ex governatore del Texas ha svelato il proprio progetto pro crescita, ieri notte, alla Ronald Reagan Presidential Library in California, poche prima dell'intervento di Obama davanti al Congresso. Il presidente conferma la linea keynesiana: l'economia americana crea poca occupazione e questo sta diventando il cruccio principale degli elettori.

    Alan Krueger, il nuovo consigliere economico, del resto, è un esperto di mercato del lavoro e distribuzione dei redditi. Meno contributi da un lato, più lavori pubblici dall'altro, perché oggi Obama presenterà anche un pacchetto di spesa per ricostruire strade, ferrovie, aeroporti che invece si stima peserà circa 100 miliardi di dollari. Una proposta già lanciata nel 2009 con pochi risultati e non solo per la forte opposizione repubblicana. L'economista John Taylor, già sottosegretario al Tesoro negli anni di George W. Bush, sottolinea sul New York Times che le agenzie federali e gli stati hanno preferito mettere da parte i denari pubblici anziché spenderli in infrastrutture. Un atteggiamento precauzionale, conseguenza dell'incertezza, molto simile alla cautela delle banche salvate con denari pubblici, ma restie nel prestare denaro. Anche Taylor, l'autore della famosa regola per guidare la politica monetaria, il grande accusatore di Alan Greenspan e poi dei salvataggi pubblici, vuole riforme pro crescita che a suo avviso si basano su consistenti tagli fiscali “per chi crea ricchezza”, non tanto per chi la consuma.

    In un'intervista al Corriere della Sera da Cernobbio, José María Aznar sottolinea che “l'Europa ha due uscite dalla crisi: o alla giapponese, con deflazione e crescita bassa, o all'americana con inflazione e crescita. Ma alla fine la Bce dovrà scegliere una di queste due vie, di miracoli non ce ne sono”.  Una sintesi efficace da parte dell'ex primo ministro spagnolo. Allo stato attuale, la Bce e il suo azionista di maggioranza, la Bundesbank, non hanno intenzione di rischiare nemmeno mezzo punto d'inflazione. Nonostante l'euro sia sopravvalutato. Gli Stati Uniti, invece, fanno scivolare in basso il dollaro per sostenere le esportazioni e riequilibrare la bilancia dei pagamenti. Se la cura americana funziona, sarà lei a far ripartire un nuovo ciclo, non l'Europa e nemmeno la Cina che oggi funziona da ammortizzatore contro i rischi di una ricaduta nella recessione, non da locomotiva mondiale.