Cose turche
Dicono che ci siano in serbo cose turche. Conversazioni scabrose, “davvero compromettenti da un punto di vista morale”, lo scoperchiamento di altre fissazioni, mercificazioni, specializzazioni. Tutti in attesa (soprattutto i nervosi mariti di alcune signore baresi) di nuove frontiere del porno, da leggere col cappuccino in mano uno dei prossimi giorni. Ma la nostra fantasia è stata già annientata, l'immaginazione è colma.
Dicono che ci siano in serbo cose turche. Conversazioni scabrose, “davvero compromettenti da un punto di vista morale”, lo scoperchiamento di altre fissazioni, mercificazioni, specializzazioni. Tutti in attesa (soprattutto i nervosi mariti di alcune signore baresi) di nuove frontiere del porno, da leggere col cappuccino in mano uno dei prossimi giorni. Ma la nostra fantasia è stata già annientata, l'immaginazione è colma. Questo non è un thriller di Stephen King, non c'è attesa per un colpo di scena, un particolare inatteso, un'arma del delitto, un assassino, non c'è un branco di ratti che risale dal pozzo. E' la storia, oramai ripetitiva, di un'ossessione (un film molto applaudito a Venezia, “Shame”, racconta qualcosa del genere).
Ci sono ragazze vestite da poliziotte, già viste, già chiacchierate (e ogni conversazione basata sulle foto o sulle intercettazioni, poi, si è sempre alimentata con altri pettegolezzi, riportati inventati o dedotti, altri particolari sulle dinamiche, sulle capacità, sui dispositivi medici, su qualunque cosa di pessimo gusto ci capitasse a tiro e riuscisse ancora a stupirci in peggio). Ci sono ragazze a cui viene consigliato al telefono di comprarsi una divisa da infermiera, ci sono prostitute che si sentono qualcos'altro e qualcos'altro che viene trattato da prostituta, c'è una penosa ammucchiata di disadattati che fanno la cresta sui soldi, che si credono importanti, si scannano fra loro e intanto selezionano donne sempre più desiderose di precipitarsi a incontrare il presidente del Consiglio, forse anche per poterlo raccontare, forse perfino per vedere se è tutto vero (non sembra possibile che sia tutto così mostruosamente vero).
Cosa ci può essere di ancora più sconvolgente di questo scivolare nella nostalgia de la boue, il rimpianto del fango, il continuo arretrare di un uomo che non ha più felicità da desiderare e ha bisogno di nuovo degrado, di dare confidenza a gente borderline, di affidare le proprie notti a un ragazzotto come Giampi Tarantini, che più di “cazzo” al telefono non riesce a dire. La fantasia è già stata riempita, non c'è altro da sapere, nessun nuovo porno che possa solleticare la nostra personale nostalgia del fango o il nostro morboso bisogno di prenderne le distanze. Quando era una succursale di “Grand Hotel” in tinte pastello, con i corteggiamenti e il linguaggio da Dopoguerra, c'era sempre qualcosa in più che si voleva scoprire, per riderne, per scandalizzarsi, per scuotere la testa: quanta decadenza, signora mia. Adesso non è rimasto niente da scoperchiare, nessuna privacy da invadere, niente di cui sparlare, se non la maliziosa notazione del complesso di Edipo che deve avere colpito Italo Bocchino, irrimediabilmente e contro ogni logica attratto dalle orme del suo peggior nemico. Bocchino però, negli sms che quella signora detta Ape Regina ha carinamente offerto a Vanity Fair (ricordarsi di usare, d'ora in poi, solo segnali di fumo nelle comunicazioni erotiche), mostra una sintassi e un immaginario da fotoromanzo, segno del suo essere ancora un principiante.
La nostalgia de la boue ha provocato, negli spettatori, una nostalgia contraria e opposta: rimpianto dell'età dell'oro, di quando al massimo si spettegolava su un'amante mantenuta, su un coinvolgimento sentimentale, su una moglie gelosa, e allora sì era bello immaginare scenari. Adesso, al bar col giornale e il cappuccino, si potrebbe solo ordinare un velo pietoso.
Il Foglio sportivo - in corpore sano