La grandeur di Ankara

Carlo Panella

La sconfitta politica dei generali turchi quali garanti della laicità dello stato kemalista e la rottura delle relazioni diplomatiche tra Turchia e Israele sono avvenute contemporaneamente. Non è un caso. Sono due passaggi chiave della strategia del gruppo dirigente dell'Akp, il partito di governo turco, guidato dal premier Recep Tayyip Erdogan, dal presidente Abdullah Gül e dal ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu.

    La sconfitta politica dei generali turchi quali garanti della laicità dello stato kemalista e la rottura delle relazioni diplomatiche tra Turchia e Israele sono avvenute contemporaneamente. Non è un caso. Sono due passaggi chiave della strategia del gruppo dirigente dell'Akp, il partito di governo turco, guidato dal premier Recep Tayyip Erdogan, dal presidente Abdullah Gül e dal ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu. Gli obiettivi del piano dell'Akp sono ricollocare la Turchia sulla scena internazionale, distruggere i pilastri che garantivano la laicità dello stato e mettersi alla testa non soltanto della regione, ma dell'intero mondo islamico. Il tutto, s'intende, nell'assoluto rispetto delle regole formali e sostanziali della democrazia, contemperate (per la prima volta nella storia) in una visione islamista e shariatica della società.

    Quella dei leader dell'Akp è una strategia complessa, originale e spregiudicata. L'aspetto più interessante di questo progetto è la base sociale del partito di governo turco. Il triplice successo elettorale dell'Akp, che gli permette di controllare la maggioranza assoluta del Parlamento dal 2002, è un caso unico che non si basa soltanto sul voto di milioni di contadini di recente urbanizzazione, ma anche e soprattutto sulle cosiddette “tigri dell'Anatolia”. Oggi, infatti, l'islamismo democratico turco gode di una forza propulsiva che gli è stata garantita dal massiccio voto dei nuovi e moderni imprenditori. Sono spesso ex immigrati in Europa e garantiscono alla Turchia livelli altissimi di crescita del pil nei settori industriali più moderni, competitivi e integrati al mercato europeo e proiettati nell'industrializzazione dei paesi confinanti (in primis nel Kurdistan iracheno).

    Si tratta di un fenomeno inedito di rappresentanza politica dei ceti a vocazione islamica più moderni, favorito dal fallimento dei partiti laici. La loro incapacità di proposta politica, infatti, è all'origine del tracollo elettorale che ha tolto ai generali quell'indispensabile sponda parlamentare che gli avrebbe permesso di resistere agli attacchi dell'Akp. Questi partiti laici, sotto le leadership di Bülent Ecevit (Cumhuriyet Halk Partisi, Partito repubblicano del popolo, abbreviato Chp, di orientamento socialdemocratico) e di Süleyman Demirel (Adalet Partisi, Partito della giustizia, conservatore) e dei loro successori, hanno rappresentato complessivamente oltre l'80 per cento degli elettori, fino al 2002. Ora, se si sommano i loro voti, si andrà a stento oltre il 20 per cento.

    Incrinare la laicità dello stato turco, rompere le relazioni diplomatiche con Israele, corteggiare Hamas – Erdogan ha di nuovo annunciato trionfante la sua imminente visita alla Striscia di Gaz –, dare spazio al regime degli ayatollah iraniani sono tutti passaggi di una strategia complessa che non ci si può limitare a definire “neo ottomana”, come molti fanno. La dottrina diplomatica dell'Akp non punta volgarmente a ripristinare un'egemonia materiale nella regione. Ankara vuole raggiungere un obiettivo più ambizioso: conquistare alla Turchia e all'Akp la leadership di tutto il mondo islamico, nella tormentata fase di crisi e fallimento di tutti i regimi consolidatisi con la Guerra fredda, da tutti gli “stan” dell'ex Urss, sino ai paesi arabi oggi sconvolti dalla “primavera araba”, in una prospettiva più ampia, che la dottrina elaborata da Davutoglu definisce di “profondità strategica”. Erdogan, Gül e Davutoglu sanno di avere forza sufficiente per proporre un “modello turco”: una società dalle forti caratterizzazioni islamiste, pienamente democratica e con un'energia economica eccellente (anche se non più al suo punto più alto), in grado di determinare, guidare o comunque condizionare la clamorosa “crisi di crescita” di tutti i paesi islamici nei prossimi decenni.

    E' da queste basi che nasce la volontà di costruire un “partito turco” ovunque la crisi della leadership egiziana, incrociata alla debolezza di quella saudita, lascino aperti degli spazi (a cominciare, come s'è visto, dalla Palestina, centro della crisi regionale). E' in questa chiave che Ankara ha scelto una politica di confronto politico frontale con Israele.

    A livello interno, la linea aggressiva nei confronti del governo di Gerusalemme ha reso necessaria l'eliminazione progressiva del potere politico e costituzionale dei generali kemalisti, fedeli all'ideale di una leadership regionale congiunta con Israele, unica altra democrazia laica della sponda sud del Mediterraneo. Erano stati infatti proprio i generali turchi che fanno parte del quadro di comando Nato a spingere, dopo la guerra del Golfo del 1991, verso un'alleanza vera e propria tra Ankara e Gerusalemme, formalizzata nel '94 con la firma, da parte del premier Tansu Çiller, di un accordo militare turco-israeliano e di un Security and secrecy agreement (Ssa). Per tutti i paesi islamici, ovviamente, si era trattato di uno scandalo. In occasione del patto era stata rivelata l'esistenza di un accordo segreto, siglato negli anni Cinquanta da Turchia e Israele: il “Peripheral Pact”. Sottoscrivendo l'intesa, i due paesi alla periferia del confine sovietico, si univano in un patto di difesa comune dall'Urss e dai suoi alleati sovietici in terra araba (la Siria, l'Iraq baathista e l'Egitto nasseriano). L'alleanza era stata focale per il Mediterraneo durante tutta la Guerra fredda, iniziata di fatto nel 1952, quando Ankara – unico paese islamico sino al 1993 – capovolse il suo voto contrario alla risoluzione 181 delle Nazioni Unite (con cui, il 29 novembre 1947 si legittimò la nascita dello stato di Israele) e iniziò ad allacciare relazioni diplomatiche con Gerusalemme.

    Dal Ssa del 1994 era discesa la stretta collaborazione con il Mossad, volta a controllare i movimenti dei terroristi curdi e ad arginare Saddam Hussein in Iraq e Hafez el Assad in Siria. Era stata poi la volta dei contratti da svariati miliardi di dollari per la vendita dei carri armati M60 israeliani, di elicotteri anti guerriglia e di attrezzature per i caccia F-4 e F-5. Si era arrivati a reiterate manovre militari combinate e, nella primavera del 2003, alla dislocazione della flotta turca davanti alle coste israeliane per difendere lo stato ebraico da eventuali missili lanciati da Saddam Hussein.

    L'ottica, l'alveo e le prospettive dell'alleanza turco-israeliana si collocavano tutte dentro il contesto Nato e quindi dentro il presupposto di un'egemonia americana nella regione, peraltro non più bilanciata dal contrappeso sovietico. Ma la Turchia di Erdogan, con la sua forza economica, la sua disponibilità di ingenti capitali da investire all'estero, il suo know how, la sua forza militare e la sua crescente ideologia islamista ha ora deciso di avere la forza sufficiente a svincolarsi, dopo sessant'anni, dalla subordinazione agli interessi americani.

    Ecco allora, che proprio nel momento in cui Washington ha avuto più bisogno dell'appoggio politico-militare di Ankara, quando il Parlamento turco doveva autorizzare 62 mila militari americani ad attaccare l'Iraq di Saddam Hussein passando per il suolo turco, Erdogan e Gül hanno lasciato libertà di coscienza ai parlamentari dell'Akp. Risultato: novanta parlamentari dell'Akp votarono contro – nonostante i dieci miliardi di dollari offerti in dono da Washington – e le armate americane dovettero definire in fretta una nuova strategia di aggressione all'Iraq, tutta da sud.

    Era il primo marzo 2003, il giorno che sarà ricordato come l'inizio del processo di torsione della politica estera turca. In una prima fase, Erdogan sembrò addirittura consolidare i rapporti con Israele, grazie a nuovi contratti di forniture militari e alla firma nel 2004 di un contratto per la vendita a Gerusalemme di cinquanta milioni di metri cubi d'acqua trasportati via mare. Ma, dalla guerra con il Libano nel 2006, Erdogan si convinse che Israele, in realtà, aveva perso il suo smalto politico-militare e ormai non sapeva andare oltre a una difesa, spesso inefficiente, dello status quo. Il premier turco comprese anche che il declino del regime egiziano, di quello saudita e di quello siriano, la crisi interna a quello iraniano e le dinamiche interne a Hezbollah e Hamas gli aprivano spazi per fondare informali “partiti turchi” in aree di crisi fondamentali. E' a questo punto che nasce l'idea di un'alleanza cinica e spregiudicata con Ismail Hanye, premier di Hamas a Gaza, intrapresa anche in funzione anti siriana e frondista nei confronti di Khaleed Meshaal, leader di Hamas esule a Damasco. E' in questa chiave che, l'anno scorso, Ankara ha sponsorizzato la Freedom Flotilla guidata dall'Ihh, una Ong turca dalle palesi infiltrazioni terroristiche. Si spiegano così l'intransigenza verso Israele dopo i nove morti della Mavi Marmara e, nei giorni scorsi, la denuncia del rapporto Onu sull'incidente, che inchioda personalmente Erdogan, indirettamente accusato di avere favorito il tentativo di violazione dell'embargo israeliano a Gaza, che il rapporto Palmer considera del tutto legittimo e in linea con le leggi internazionali.

    Il pericoloso oltranzismo della nuova politica turca – favorito, va detto, da una miope gestione delle trattative da parte di Avigdor Lieberman, il ministro degli Esteri di Gerusalemme che tiene in ostaggio un Benjamin Netanyahu ben più malleabile e conscio del ruolo strategico del rapporto con Ankara – sta facendo precipitare l'area in un'ulteriore fase convulsa. E' una politica scabrosa e dagli sviluppi incerti, che peraltro segnala l'incapacità americana (e di Barack Obama in particolare) di esercitare un'influenza in medio oriente. Obama ha chiesto più e più volte a Erdogan di ricucire con Israele, ma ha dovuto constatare che il peso delle sue pressioni è considerato ormai vicino allo zero.

    L'ultima rottura con Israele è avvenuta all'indomani della definitiva eliminazione di ogni potere politico rimasto ai generali turchi. Il 2 agosto, infatti, le dimissioni in massa del capo di stato maggiore Isik Kosaner, dei comandanti delle forze di terra, della marina militare e dell'aeronautica, in aperta polemica con Erdogan, hanno sancito la fine di quel ruolo di garanti della democrazia e della laicità che i generali turchi avevano svolto dal 1920 in poi. Quelle dimissioni, infatti, sono state la risposta (perdente) alla decisione provocatoria di Erdogan e di Gül, che avevano negato la promozione ai 14 generali e ufficiali attualmente incarcerati – ma ancora in attesa di giudizio – per Ergenekon, un tentativo di golpe la cui esistenza è del tutto dubbia. Quelle dimissioni hanno permesso a Erdogan di nominare un nuovo quartier generale composto soltanto da generali a lui fedeli, a partire dal nuovo comandante delle Forze armate Necdet Ozel e dal nuovo comandante dell'Esercito Hayri Kivrikoglu, dichiaratamente collocati in una posizione totalmente subordinata all'esecutivo, senza più aspirare alla difesa della laicità dello stato o all'indirizzo della politica di sicurezza o della politica estera.

    E' interessante notare come questo tracollo del ruolo laicista e filo occidentale dei generali kemalisti sia stato favorito da un apporto incosciente dell'Unione europea, che ha preteso la distruzione del ruolo dei generali turchi, difensori quasi secolari della laicità dello stato. A fronte di una domanda di adesione all'Ue che la Turchia ha presentato da decenni, Bruxelles ha infatti preteso che il Parlamento di Ankara modificasse le istituzioni e la stessa Costituzione kemalista turca per avvicinarla ai “parametri di Copenaghen”. Ma quei parametri erano stati definiti dall'Ue nel 1993 per accompagnare la democratizzazione degli stati del Patto di Varsavia, paesi a economia socialista e a partito unico. Non tenevano minimamente in conto il problema specifico dell'intreccio inestricabile tra religione e stato, tra norma civile e sharia, tipici dell'islam contemporaneo. Lo ignoravano bellamente, così come non tenevano conto del ruolo positivo svolto dai generali turchi nella difesa sia della democrazia sia della laicità dello stato. Una funzione costituzionale non priva di elementi di “democrazia autoritaria” (ossimoro non raro in contesto islamico, come si vedrà nel prosieguo della “primavera araba”), soprattutto nei confronti della questione curda o del contrasto al terrorismo negli anni 70 e 80, che si è esplicata in ben tre “golpe democratici” (1960, 1980 e 1997) che hanno sempre visto i generali rientrare nelle caserme dopo pochi mesi, riconsegnando tutto il potere alle istituzioni rappresentative. E' stato l'esercito a fare della Turchia l'unico paese islamico al mondo con una democrazia matura e consolidata.

    Gli stessi Recep Tayyip Erdogan e Abdullah Gül, erano stati sostanzialmente costretti ad abbandonare le posizioni islamiste (dei Fratelli Musulmani) proprio da un “golpe silenzioso” dei generali turchi. Nel 1997, infatti, il Consiglio di difesa controllato – secondo Costituzione – dai generali turchi aveva deposto con l'accusa di sovversione della laicità dello stato il premier fondamentalista Necmettin Erbakan, leader del Refah Partisi (Rp, Partito della prosperità), di cui Tayyip Erdogan (allora sindaco di Istanbul) e Abdullah Gül erano esponenti di primissimo piano. Preso atto dell'esistenza di quell'insuperabile argine all'islamismo, Erdogan e Gül si erano staccati (non senza polemiche) da Erbakan per fondare un partito più moderato e moderno: l'Akp (Adalet ve Kalkinma Partisi, Partito per la giustizia e lo sviluppo), con una base sociale molto più larga, soprattutto tra i nuovi ceti imprenditoriali dell'Anatolia, che ha garantito a Erdogan la vittoria alle elezioni nel 2002, nel 2007 e nel 2011.

    Nel 2010, Erdogan – ben lieto di impiegare la pressione europea contro le Forze armate turche – è riuscito a varare una riforma della Costituzione che ha tolto tutto, assolutamente tutto il potere politico ai generali. La Costituzione kemalista, infatti, attribuiva ai generali un potere politico sovraordinato a Parlamento, governo e presidente, permettendogli di fatto di controllare il Consiglio supremo militare (Yafl). Le direttive di questo Consiglio interessavano infatti la difesa nazionale in senso lato, sconfinando regolarmente nella gestione di ogni ministero. Si era addirittura consolidata una prassi per cui erano i generali dello stato maggiore a nominare il ministro della Difesa e non viceversa. Ma il ruolo più rilevante che questo Consiglio ha sempre svolto, e per cui è stato fondato nel 1950, era – il passato è d'obbligo – la rigida difesa della laicità dello stato. Una legge della Costituzione kemalista varata a suo tempo dallo Yafl imponeva la proibizione del velo (il semplice foulard sui capelli) nelle università e negli uffici pubblici. Un simbolo decisivo, tanto che leader storici come Demirel tuonavano, dopo la prima elezione di Erdogan – nel 2002 non aveva potuto presentarsi per aver pronunciato la frase: “I minareti saranno le nostre baionette” –, contro l'ipotesi di una sua elezione (per via parlamentare) a presidente della Repubblica, soltanto a causa del fatto che sua moglie Emine era solita portare il velo. Lo stesso potente generale Aslan Güner, che era candidato a diventare comandante delle forze di terra, prima delle dimissioni in massa del 2 agosto 2011 (ha dovuto accontentarsi dell'Accademia militare) si è sempre clamorosamente rifiutato di stringere la mano in pubblico ad Hayrunissa Gül, moglie del presidente, proprio a causa del suo velo.

    Grazie a un'Europa ignava, convinta a torto della universalità del “modello Montesquieu”, incapace di comprendere la sua inadeguatezza in contesto islamico, Erdogan ha dunque portato a termine la sistematica eliminazione del potere politico dei generali turchi, confermato poi da un più che confortante 58 per cento dei suffragi a favore del referendum confermativo del 2 febbraio scorso.

    Ma Erdogan e l'Akp non si sono limitati a lavorare in sede istituzionale per erodere il potere politico e la difesa della laicità dello stato dei generali. Da alcuni anni, su stimolo del governo islamista e dei media da esso controllati, il settore della magistratura organico al governo ha infatti incarcerato alcuni generali e decine di ufficiali, accusati di essere membri delle associazioni segrete Ergenekon e Macbeth e di avere complottato per abbattere con la forza il governo dell'Akp. Le prove sono più che inconsistenti e la persecuzione politica è più che evidente, come testimoniano anche osservatori turchi neutrali. Ma la lotta è precipitata infine nella vera e propria crisi istituzionale del 2 agosto scorso.

    Non è un caso se l'ultimo episodio del braccio di ferro tra Akp e generali kemalisti si è svolto proprio a proposito dei militari incarcerati per il tentato golpe Ergenekon. Non è un caso se, subito dopo la loro formalizzazione della sconfitta dei generali, Erdogan ha deciso di rompere le relazioni diplomatiche con Israele.