Un Draghi a tre teste

Stefano Cingolani

Pensiamo l'impensabile: ci sarà ancora la Banca centrale europea quando Mario Draghi il primo novembre entrerà nell'Eurotower da presidente? Con le dimissioni di Jürgen Stark, il rappresentante tedesco, per protesta contro l'acquisto di titoli di stato italiani e spagnoli, comincia la secessione germanica? Domande oscene per ogni eurofilo, ma sono quelle che si fanno tutti, a cominciare da chi ieri ha venduto in Borsa come se piovesse. Il fulmine a ciel sereno (anche se nubi tempestose si erano già addensate da tempo) ha colto il futuro signore dell'euro a Marsiglia, dove si svolge il G7, il vertice finanziario dei sette paesi più industrializzati.

    “Le riforme compiute a tempo, invece di indebolire l'autorità la rafforzano” (Camillo Benso di Cavour citato da Draghi il 31 maggio 2011).

    Pensiamo l'impensabile: ci sarà ancora la Banca centrale europea quando Mario Draghi il primo novembre entrerà nell'Eurotower da presidente? Con le dimissioni di Jürgen Stark, il rappresentante tedesco, per protesta contro l'acquisto di titoli di stato italiani e spagnoli, comincia la secessione germanica? Domande oscene per ogni eurofilo, ma sono quelle che si fanno tutti, a cominciare da chi ieri ha venduto in Borsa come se piovesse. Il fulmine a ciel sereno (anche se nubi tempestose si erano già addensate da tempo) ha colto il futuro signore dell'euro a Marsiglia, dove si svolge il G7, il vertice finanziario dei sette paesi più industrializzati. Draghi si è coperto con il classico no comment, ma chi gli era vicino giura di averlo visto sudare. Sì, anche lui traspira e questa volta colavano goccioline fredde. Quest'uomo atermico come i palazzi del potere percorsi con abilità e distaccato piacere, che non indossa mai il cappotto e si nutre di barrette energetiche, giovanile nei suoi 64 anni, sempre in tiro (Coco Chanel una volta disse: “Non si è mai troppo magri né troppo ricchi”), inappuntabile nei completi scuri con cravatte Hermès tono su tono, nonostante ami mostrarsi ironico e distaccato, trema, soffre, si deprime, s'arrabbia. Umano troppo umano. Del resto, il meno curiale tra i banchieri centrali (insieme al professor Bernanke), è salito su una giostra che farebbe perdere la trebisonda a chiunque. Il messaggio è chiaro, anzi è un vero e proprio diktat: o Roma o Francoforte.

    Stark (nomen omen, in tedesco vuol dire forte, robusto),
    gli ha dato un fantastico benvenuto. Ufficialmente la scelta è per le solite “ragioni personali” e la poltrona verrà presa dal viceministro delle Finanze Jörg Asmussen, tuttavia un gesto tanto drammatico non esprime solo il dissenso su una scelta concreta che può essere revocata da un giorno all'altro. Nasconde, piuttosto, un giudizio (e pregiudizio) di fondo, se non proprio un contrasto strategico. Dopo la sentenza pilatesca della Corte costituzionale di Karlsruhe a proposito del salvataggio greco (il passato è passato, per il futuro si deve passare attraverso le forche caudine del Bundestag), Angela Merkel ha giurato che dall'euro non si torna indietro. I suoi elettori, il mondo degli affari, le banche, vogliono una moneta sempre più simile al marco per sostenere un Modell Deutschland che ormai guarda all'Asia, all'Africa, al mondo e non più solo all'Europa.

    Non è facile mettersi nei panni di Draghi,
    grand commis per scelta e per vocazione, costretto a indossare tre cappelli, l'uno sull'altro come il personaggio di Alice, o l'uno accanto all'altro quasi avesse tre teste costrette a muoversi in piena sincronia. E' ancora governatore della Banca d'Italia, di conseguenza garante della stabilità finanziaria e degli interessi del suo paese. Ma è già stato nominato presidente del consiglio della Bce, a giugno ha passato con successo il vaglio dei governi e dell'Europarlamento, quindi deve preoccuparsi della moneta unica. Finché le cose vanno ragionevolmente bene, non c'è contrasto di fondo tra interessi nazionali e interessi europei. Se invece Roma fosse in marcia verso la bancarotta? Il Financial Times lo paventa e si chiede se l'italiano alla presidenza saprà essere abbastanza fermo con l'Italia la cui crisi è il primo grande test del suo mandato di otto anni.

    Draghi ha svolto un ruolo determinante nella stretta che ha prodotto l'escalation di manovre economiche fino al decreto approvato mercoledì. Ha messo la firma sotto la lettera inviata il 5 agosto a Silvio Berlusconi da Jean-Claude Trichet, con la quale venivano indicate le linee da seguire per ottenere l'aiuto della Bce. “Hanno messo sotto tutela il governo italiano”, secondo i giornali. E chi se non Draghi è il commissario, del popolo, della tecnocrazia o del grande capitale, a seconda dei punti di vista. Poi, lunedì 5 settembre ha lanciato l'avvertimento, secco e diretto come nel suo stile, per mettere fine al tira e molla sull'ultima variante della stangata: “Attenti, l'acquisto di titoli di stato non è affatto scontato”. Sono 55 miliardi in quattro settimane (tra italiani, spagnoli, portoghesi, irlandesi). Per il futuro? “Vedrete”, s'è limitato a dire Trichet giovedì alla conferenza stampa dopo il direttivo della Banca centrale europea. In serata, a Palazzo Chigi, il governatore della Banca d'Italia ha spiegato a Berlusconi che l'emergenza non è finita, nonostante gli apprezzamenti che l'ultima manovra ha ottenuto a Bruxelles e Francoforte. La clamorosa rottura di ieri ha confermato le sue preoccupazioni.
    Dal 2007, quando è scoppiata la crisi dei subprime, il bilancio della Bce è aumentato di 77 volte. E' vero che altre hanno fatto peggio (la Federal Reserve di 226 e la Banca d'Inghilterra di 200), ma il sostegno diretto ai debiti dei governi può minacciare l'indipendenza della Banca centrale e i tedeschi sono sul piede di guerra. In questo, Draghi non si discosta dalla ortodossia: “La risposta sta innanzitutto nelle politiche nazionali. Non esistono scorciatoie”, proclama. Nemmeno gli Eurobond? “Solo con importanti cambiamenti istituzionali oggi improbabili, perché introducono una sussidiarietà tra stati con solidità diverse”, risponde. La proposta lanciata da Giulio Tremonti e fatta propria da Jean-Claude Juncker, è avversata dalla Bundesbank e da Berlino che vi legge un limite alla sovranità nella politica fiscale e soprattutto il sospetto di essere “infettati” dai debiti dei paesi deboli a cominciare dall'enorme virus italiano (tra gli 800 e i 900 miliardi di euro sono collocati all'estero).

    Draghi insiste sul paragone
    con il collasso della lira nel 1992: “L'Italia seppe uscire dalla crisi senza aiuti esterni, grazie a un ambizioso piano di consolidamento fiscale, a riforme strutturali importanti e all'attuazione di un programma di privatizzazioni per circa il 10 per cento del pil”. Vuol dire che il piano odierno non è abbastanza ambizioso o efficace? Per rispondere a questa domanda, dovremmo mischiare i tre cappelli. Ci conviene, invece, prenderli uno per uno. Cominciando dalla lobbia del governatore.
    C'è una bella grana ancora tutta da risolvere: niente meno che la successione alla Banca d'Italia. Con il passare dei mesi ha preso quota il direttore generale Fabrizio Saccomanni, la soluzione interna preferita da Draghi, rispetto a Vittorio Grilli, direttore generale del Tesoro, spinto da Giulio Tremonti fino al punto da tentare di inserirlo nel decretone sulla manovra economica il 12 agosto. Un blitz stoppato direttamente dal presidente della Repubblica al quale spetta l'ultima parola. Sullo sfondo resta Lorenzo Bini Smaghi, il quale ha promesso di dimettersi di fronte al diktat di Nicolas Sarkozy che vuole a tutti i costi un francese tra i sei membri del comitato esecutivo della Bce. Berlusconi ne ha parlato con Draghi. Ma dovrà convincere Tremonti prima di inviare un nome al consiglio superiore di Palazzo Koch e poi al Colle. Via Nazionale è uno snodo troppo importante. Lo dimostra in questi giorni il conflitto aperto con la Banca Popolare di Milano.
    La vigilanza, dopo attente analisi, ha decretato che l'istituto di credito deve aumentare il capitale per evitare una crisi. Il presidente, Massimo Ponzellini, legatissimo a Tremonti una volta terminato il sodalizio con Romano Prodi, resiste e cerca di pilotare l'operazione a modo suo. Ma di questi tempi non trova molti cavalieri bianchi. Si fa avanti Matteo Arpe disposto a investire 200 milioni (un sesto di quanto ci sarebbe bisogno secondo Bankitalia) pur di esercitare un ruolo diretto nella governance. Insomma, vuol fare l'amministratore delegato. L'ipotesi è ben vista in Via Nazionale e si è espresso a favore, sia pure in un dibattito non ufficiale, anche Saccomanni. La poltrona di Palazzo Koch, dunque, non è puro prestigio. La Banca d'Italia ha perso il potere di battere moneta, ceduto alla Bce, ma è ancora la banca delle banche.

    Il tourbillon sulla manovra economica
    si è risolto con un accordo, per stato di necessità, tra i quattro maggiori protagonisti: Berlusconi, Tremonti, Draghi e Napolitano. Il Cavaliere, il superministro, il governatore e il presidente. Le scintille tra i primi due che avevano incendiato i mesi di luglio e agosto, si sono spente. Forse il fuoco cova ancora, ma per adesso è coperto di cenere. Non solo. E' stato Berlusconi a imprimere una svolta compiendo una scelta netta: “Dobbiamo fare come dicono Draghi e Napolitano”, ha ammesso. Il presidente e il governatore si conoscono da tempo. Negli anni 90 dalla direzione generale del Tesoro, Draghi ha gestito l'operazione più ambiziosa condotta dai governi di centrosinistra: smontare il sistema di potere democristiano basato sull'economia e l'industria pubblica. L'ironia della storia ha voluto che toccasse a un ex democristiano come Romano Prodi, per di più a lungo presidente dell'Iri. Ma le privatizzazioni sono state sposate e appoggiate fino in fondo dagli eredi del Partito comunista convertiti al mercato, convinti soprattutto che lo statalismo fosse stato sepolto dalle macerie del Muro di Berlino. Napolitano è un esponente di questa scuola e non dell'ultim'ora. Quanto a Berlusconi, Draghi gli deve la nomina in Via Nazionale e il sostegno per la Bce nonostante Tremonti e i molti nemici dentro il Pdl, tutti coloro i quali evocano a ogni piè sospinto il passaggio a Goldman Sachs o lo spettro del Britannia, lo yacht della Corona inglese dove il 2 giugno 1992 si svolse un vertice con le grandi banche d'affari per discutere le sorti ormai segnate della lira, il salvataggio dell'Italia guidata da Giuliano Amato e le privatizzazioni.

    In tutti questi anni, il Cavaliere
    ha delegato la politica economica al superministro che non ha mai nascosto i suoi dissensi di fondo con il governatore. Ma nelle fasi più acute della crisi, Berlusconi ha sentito spesso il capo della Banca d'Italia del quale apprezza la concretezza e il senso comune. Si sono visti l'11 agosto alla vigilia del Consiglio dei ministri e Draghi ha ripetuto il punto chiave: “Ridurre la spesa corrente primaria (al netto degli interessi sul debito e degli investimenti, ndr) di oltre 5 punti di prodotto lordo reale nel triennio, senza sacrificare la spesa in conto capitale oltre quanto già previsto, e senza aumentare le entrate”. Se, come scrive il Sole 24 Ore, due terzi dei risparmi arriveranno dal fisco, l'indicazione non viene rispettata. Il decreto del 7 settembre, a differenza di quello del 15 luglio, anziché ricorrere ai tagli lineari, entra in quell'esame voce per voce raccomandato da Draghi. Tuttavia, manca ancora “la riduzione significativa delle aliquote sui redditi da lavoro”, rinviata alla delega per la riforma fiscale. L'ultimo suggerimento è di anticiparla.

    Dalla missiva della Bce, il governo italiano ha accolto l'indicazione sul mercato del lavoro: meno rigidità sui licenziamenti nei contratti a tempo indeterminato. Tutto da scrivere, invece, il capitolo privatizzazioni. Certo, ci sono degli impegni, ma la lettera proponeva di procedere con decreto e mettere sul mercato quote significative dei grandi gruppi pubblici (si intende Enel, Eni, Finmeccanica) oltre che le reti e le aziende municipalizzate. Manca, poi, lo stimolo alla congiuntura con una politica dell'offerta. Su questo ha insistito Draghi nella conversazione di giovedì sera.

    “Tornare alla crescita”, aveva detto il 31 maggio 2006 nelle sue prime considerazioni all'assemblea. “La crescita economica del nostro paese è stata il mio punto fisso”, ha ripetuto il 31 maggio scorso. Crescita, ha ripetuto ieri Napolitano. E' il mantra sulla bocca di tutti. Facendo ricorso alle simulazioni del centro studi Bankitalia, con un tasso di sviluppo del due per cento l'anno in termini reali, è possibile pareggiare il bilancio senza gravi conseguenze sociali e senza intaccare il livello di copertura del welfare state, un punto al quale il governatore tiene: nella sua analisi della grande crisi finanziaria e delle risposte di politica economica, non manca di sottolineare che “la rete di protezione sociale ha tenuto e questo è essenziale”.

    Il secondo cappello, quello di gran suggeritore
    della politica economica, dunque, potrebbe essere una feluca. E cosa metterà Mario Draghi sulla sua terza testa? Non c'è bisogno della sfera di cristallo per capire che da Francoforte si troverà a gestire una vera crisi di fondo: l'intero impianto sul quale è stato costruito l'euro è in discussione, a cominciare dal paradosso principale, quello di una moneta senza sovrano. Gli eredi del federalismo europeo, come Giuliano Amato o Romano Prodi, sostengono che è arrivato il momento di compiere un passo determinante nella costruzione di un governo comune, passando attraverso un'unica politica fiscale e un vero bilancio dell'Unione. “Meno sovranità fiscale è il prezzo da pagare”, ha scritto Amato sul Sole 24 Ore, sfidando apertamente la Germania, a cominciare dalle raccomandazioni dell'Alta corte secondo la quale, al contrario, non si può cedere sul patto fondamentale tra elettori ed eletti: insomma, taxation and representation.

    In Europa non spira certo un'aria federalista. Il premier olandese Mark Rutte ha chiesto la nomina di uno zar del bilancio, ma intende un guardiano tecnico delle regole non un ministro, insomma l'arbitro per espellere gli indisciplinati. Tra due anni dovrebbe nascere il meccanismo europeo di stabilità, grazie al quale anche per un governo nazionale si può prevedere quel “fallimento ordinato” che Draghi, in quanto presidente del Financial stability board, propone per le istituzioni finanziarie che hanno importanza sistemica. A quel punto, se la Grecia non ce la fa può alzare bandiera bianca senza per questo travolgere l'intera Europa. Chi rompe paga e l'Unione aiuta a riparare i cocci. Tuttavia, le resistenze sono molte, lo si è visto con il gesto di Stark, e di qui al 2013 tant'acqua deve passare sotto i ponti del Reno.

    Draghi spera che di qui a novembre lo strappo con la Germania venga ricucito. E una parte del lavoro toccherà proprio a lui, visto che con Trichet tutti i ponti sono saltati. Uomo pragmatico e non visionario, il neo presidente ha dimostrato di essere un timoniere che sceglie una rotta e la segue determinato, ma pronto a virare per scartare gli scogli o aggirare una tempesta. Dunque, gli si addice il berretto da nostromo, a meno che le circostanze non lo costringano a indossare l'elmo chiodato di guglielmina memoria. Draghi non ama gli oscuri vaticini come Alan Greenspan, né digressioni letterarie alla Trichet, amante dei poeti simbolisti, tanto meno applica teorie economiche al pari di Ben Bernanke che getta moneta dall'elicottero per spegnere l'incendio. “E' un power broker”, scrive il Ft e dovrà far appello a tutte le sue capacità di mediazione non solo con francesi e tedeschi, ma anche con gli americani. La sua comprensione del mondo anglo-sassone, maggiore forse rispetto ai suoi predecessori, potrebbe segnare una novità. La Fed prepara altri interventi eterodossi pur di spingere un nuovo ciclo di sviluppo. Giovedì la Bce ha detto che la domanda di moneta è fiacca perché l'economia reale non tira; non esiste un pericolo inflazione, mentre diventa serio il rischio stagnazione. L'uscita dal circolo vizioso richiede davvero un solido nocchiero.