Viaggio ad alta strategia

Erdogan il turco si offre alla piazza come leader arabo

Daniele Raineri

Quasi schiacciato dalla pressione della folla, circondato da guardie del corpo che un po' respingono e un po' lasciano che il primo ministro turco avverta fisicamente il calore degli egiziani, Recep Tayyip Erdogan ha ricevuto un'accoglienza trionfale quando ieri a mezzanotte è arrivato al Cairo. Dietro, ancor più schiacciato perché è un piccoletto, c'era anche il suo topigno ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, considerato dagli analisti una mente strategica del nuovo medio oriente.

    Il Cairo, dal nostro inviato. Quasi schiacciato dalla pressione della folla, circondato da guardie del corpo che un po' respingono e un po' lasciano che il primo ministro turco avverta fisicamente il calore degli egiziani, Recep Tayyip Erdogan ha ricevuto un'accoglienza trionfale quando ieri a mezzanotte è arrivato al Cairo. Dietro, ancor più schiacciato perché è un piccoletto, c'era anche il suo topigno ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, considerato dagli analisti una mente strategica del nuovo medio oriente. Non bastassero i cartelloni sei metri per tre che nel centro della capitale incombono dall'ultimo piano dei palazzi e ritraggono il premier straniero in camicia e disinvolto su uno sfondo di bandiere turche ed egiziane, il canto della folla è chiaro: “Erdogan e gli egiziani, una sola mano”, ovvero lo slogan che celebra la benevolenza assoluta del popolo e la completa identità di vedute. Ci fu un momento, durante gli scontri di febbraio, quando anche l'esercito egiziano che rifiutava di intervenire contro i manifestanti e di sparare nelle strade per difendere Hosni Mubarak fu graziato con lo stesso canto, “L'esercito e gli egiziani, una sola mano” (ma la luna di miele in piazza è ormai finita).

    Quale sia questa identità di vedute
    è stato detto esplicitamente da Erdogan poche ore dopo nel suo discorso alla Lega araba, nella sala grande le cui vetrate affacciano sulla piazza della Rivoluzione. Ankara e il Cairo scoprono assieme di avere un avversario comune, Israele, contro cui bisogna fare un fronte unico. “Il caso della nave Mavi Marmara e quello dei sei soldati egiziani uccisi sono la stessa cosa”, dice il premier turco insistendo su questa linea dell'unione contro Gerusalemme (senza però specificare che di questo nuovo fronte si sente il leader, come se lasciasse al futuro la semplicità della dimostrazione).

    Erdogan si riferisce al blitz
    della marina israeliana per fermare una nave decisa a forzare il blocco navale sulla Striscia di Gaza – il blitz costò la vita a nove attivisti turchi nel 2010, ma l'Onu ha appena dichiarato il blocco perfettamente legittimo con un rapporto favorevole a Israele che ha fatto ulteriormente infuriare la Turchia – e a uno scontro di frontiera del mese scorso durante il quale furono uccisi sei soldati egiziani – erano le ore appena successive all'attacco dei terroristi all'autostrada 12 che porta a Eilat, i sei furono investiti per errore dalla reazione militare israeliana. “Chi si considera al di sopra della legge e commette atti di terrore deve pagare”, ha detto Erdogan, insistendo con questa sua nuova strategia che vuole isolare Israele, nel momento in cui alle Nazioni Unite sta per iniziare il processo che porterà a riconoscere – seppure per via simbolica e indiretta – uno stato palestinese con il voto dell'Assemblea generale. Nella retorica di Erdogan c'è anche un mistero. Era stata annunciata una presa di posizione definitiva sulla Siria, che reprime con feroci offensive militari le proteste disarmate dei cittadini (e i rifugiati premono sul confine con la Turchia). E invece il premier di Ankara non ha detto nulla, come se il discorso fosse stato cambiato all'ultimo momento. L'effetto finale è stato piuttosto goffo: male gli israeliani per i fatti del 2010, silenzio sul vicino siriano.

    Il premier di Ankara, prima di volare al Cairo, è andato alla televisione di casa a dire di volere un Egitto “secolare”, somigliante al modello turco – un modello che affascina le masse arabe dalla Mauritania allo Yemen, forse per la prosperità economica di cui gode la Turchia. Nei prossimi giorni Erdogan volerà in Tunisia e a Bengasi in Libia, paesi alle prese con il post rivoluzione, dove è probabile che batterà ancora sul tema – la nascita “necessaria dello stato palestinese” a settembre – che sta rendendo questo tour diplomatico un trionfo personale tra gli arabi.

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)