The right candidate

Stefano Pistolini

Un'estate inconcludente aveva fatto capire alla Right America che il candidato presidenziale Mitt Romney era… default! Le alternative non offrivano scappatoie: la dama d'occasione Michele Bachmann, il vetusto Ron Paul, il cerebrale Jon Huntsman. Figurine buone per le prime fasi d'una campagna, destinate a sbriciolarsi, causa mancanza di fondi, energia o credibilità.

    Un'estate inconcludente aveva fatto capire alla Right America che il candidato presidenziale Mitt Romney era… default! Le alternative non offrivano scappatoie: la dama d'occasione Michele Bachmann, il vetusto Ron Paul, il cerebrale Jon Huntsman. Figurine buone per le prime fasi d'una campagna, destinate a sbriciolarsi, causa mancanza di fondi, energia o credibilità. Restava Romney, sbaragliato da un avversario decotto come John McCain quattro anni fa – le speranze di mandare a casa Barack Obama erano tutt'altro che rosee. Doveva succedere qualcosa. Premessa necessaria per capire come e perché la candidatura-avvento di Rick Perry abbia avuto l'effetto del risveglio nell'America conservatrice e tutto d'improvviso si sia rimesso entusiasticamente in moto. Finalmente il candidato c'è. E' particolare, ma possiede l'insostituibile dono d'attrarre l'attenzione, far parlare i media, scuotere le emozioni. In sostanza Rick Perry “è” il candidato: Romney istantaneamente si riduce a sparring partner. Lo scontro fatale a cui l'America ora si prepara è quello tra due visioni del mondo opposte, con Obama e Perry degnamente agli antipodi. Che lo spettacolo cominci e si consumi fino in fondo. Che il presidente uscente lucidi i suoi argomenti e che lo scalpitante, testosteronico aspirante in stivali da cowboy faccia ingresso nell'arena. Signori, entra Rick Perry.

    Candidato perforabile, attaccabile. Pieno di incongruenze, contraddizioni, inciampi: da mal di testa per le teste d'uovo che credono nella possibilità d'assemblare il tipo-alpha per la Casa Bianca. Ma anche colui che rende superflui simili esperimenti. Lunedì sera s'è visto sullo sfondo della nuovissima America che è Tampa, Florida, posto perfetto per ospitare il primo dibattito presidenziale organizzato dal Tea Party Express (sono bastati due anni e mezzo per istituzionalizzare lo scombinato movimento nato dai dopolavoristi della politica) con la partnership niente meno che di Cnn e la conduzione di Wolf Blitzer. Sul palco, al centro, con le luci migliori e tutte le attenzioni delle telecamere, loro: il perennemente imbarazzato Romney e lo strabordante Perry che, a dispetto delle cose che diceva, sapeva che sarebbe stato “come” le avrebbe dette a contare di più. Perché questo è il suo momento, è quel segmento di magia che periodicamente s'impossessa della politica americana e permette a un personaggio – spesso emerso dall'anonimato nazionale: Clinton, Obama, lo stesso governatore del Texas… – di prendersi la scena e soprattutto d'entrare in risonanza con le aspirazioni, le ansie, le aspettative di un congruo numero di elettori. E' così che nasce un candidato forte, ben prima dei suoi argomenti e dello screening della sua biografia. E' così che si conquista il mandato per il tentativo dei tentativi – prendere in mano il destino della nazione. Seguiranno gli esami, arriveranno i capi d'accusa, sarà necessario spalmare la credibilità su una piattaforma reale: ma è in quel momento, tutto emotivo, consumato nel giro di pochi giorni, come ogni colpo di fulmine che si rispetti, è lì che scocca la scintilla tra il cuore-pensiero di metà nazione e il suo improvviso beniamino. Il resto saranno aggiustamenti: ma c'è da scommettere che milioni di quei voti – se arriverà in fondo – Perry li ha già conquistati e difficilmente li perderà. Perché l'alternativa è Mitt Romney e quella di Romney è un'America che interessa a una minoranza del paese.

    Dunque entri Rick Perry, a braccetto della sua caratterialità, del suo personaggio, quasi fosse un suo doppio, che gli ha garantito, una volta pronunciata la scommessa, questo diluvio di simpatie e questo istintivo mandato di rappresentatività. Non è difficile ricordare cosa accadde nell'anno 2008 allo sfavorito Barack Obama, nero e di middle name Hussein, con tanti coni d'ombra nella sua storia. Vinse il mandato emotivamente, pronunciando slogan e promesse, incarnando una positività presidenziale, che nel suo caso rasentò la mistica. Gli argomenti, arrivati a rimorchio nei mesi successivi, non avrebbero modificato quel formidabile atto d'amore. Se solo, poi, non fossero trascorsi quattro anni di sostanziali insuccessi, giocati tutti in difesa, a resistere, a mettere pezze, a tentare sortire riformistiche, dotate di senno, ma non di tempismo. L'Obama ai minimi storici di popolarità verso cui rivolge i suoi eserciti il candidato repubblicano del 2012 è un candidato battibile. A patto di rappresentarne l'antidoto, di porsi come incarnazione della ripartenza, l'alternativa secca, lo U-turn. Si cambia, a ritroso ma con forza, perché soltanto con forza l'America può tentare la risalita. Se non c'è convinzione, dalla base su, fino alle smunte rappresentanze dei partiti, si sprofonderà in una guerriglia politica senza fine. Serve un leader. Non è Romney. E, di nuovo, entra Perry.

    A Tampa ha rivinto lui. Non perché abbia detto cose più giuste degli altri. Ma perché il vento soffia in suo favore. E i tempi, a tre mesi dalle primarie, sono maturi perché la scelta sia fatta, la liturgia abbia inizio, confortando la liason tra metà del paese e il suo prescelto, mentre l'altra metà impara a odiarlo e si chiede se il reduce da un mandato di umiliazioni abbia la stamina, come dicono là, per riprovarci. Mentre Perry lo sovrasta d'una decina di punti nei sondaggi, Romney prova a mettere in discussione i punti di vista dell'avversario in territori critici come l'assistenza sociale e l'immigrazione. Gli arrivano risposte grondanti populismo, più che altro provocazioni col twang texano – eppure bastano. I critici sorvolano, sanno che adesso è la personalità a contare, in termini divistici, come fossimo alla prima d'un film di cassetta. E Perry conosce questa risonanza: lui è il figlio proprio di quella nazione, è il prodotto del posto nel mezzo del niente americano, degli sfondi senza bordi narrati da Larry McMurtry, dei personaggi dell'“Ultimo Spettacolo” di Bogdanovich, pare il sosia del Duane Jackson interpretato da Jeff Bridges, che nel Novanta riaffiorò nel sequel “Texasville”, tutto petrolio, pistole e Dio sempre in bocca.

    A Tampa la Bachmann ha accusato Perry d'aver sbagliato, prescrivendo alle giovani donne dello stato, in presenza di un virus sessualmente trasmettibile, l'utilizzo d'un vaccino rivelatosi non sicuro e prodotto dalla Merck, finanziatrice con cinquemila dollari della sua campagna. “Se stai dicendo che mi faccio comprare con cinquemila dollari, m'offendo!”, ha replicato Perry, incurante dell'accusa, ma attento a espandere il suo personaggio. Sarcasmo, sicumera, battute e la ricorrente allusione al fatto d'essere un volto nella folla, dotato del segno del comando, ma con la consapevolezza delle origini e dei bisogni della gente come lui, quella che vuole rappresentare. La sparata: “Ho messo su più nuovi posti di lavoro io nel mio Texas, che gli altri 49 stati messi insieme”. Romney ribatte: “Se ti danno quattro assi, non significa che sei un buon pokerista”, alludendo alla favorevole situazione dello stato. Arriva l'ammiccamento di Perry al popolo delle Grandi Pianure: “Mitt, non vai male finché non parli di poker!”. Bingo: l'entusiasmo per un dibattito tra candidati altrimenti trascurabile diventa palpabile dall'energia che risveglia. E' qualcosa di organico alla nazione: là è questo il senso della politica. Un colossale talent show alla ricerca della persona in possesso dell'unzione. Ma che questi sovradosaggi di “drama” non traggano in inganno: Perry non è un improvvisatore. E' un professionista della politica americana e un suo interprete originale, circondato da supporti eccellenti.

    Quando George W. Bush viene eletto presidente, Perry, che gli subentra in quanto luogotenente, viene etichettato “governatore per caso”, liquidato senza appello nelle possibilità di seguire le tracce del predecessore alla Casa Bianca. Ad accomunarli possono esserci fattori estetici, come il denso accento del sud e la sguaiatezza machista nelle movenze, roba che ti resta attaccata da quando hai i pannolini. Bush però ha un cognome pesante, un sacco di soldi e sul muro ha gli attestati di Harvard e Yale. Perry è puro spirito rurale, cresciuto in una fattoria, studi alla Texas A&M, l'università più popolare e meno selettiva dello stato. Nessun governatore prima di lui ha una formazione così dozzinale, per non parlare delle sue posizioni, troppo apertamente radicali. Puro miele, però, per i fautori del Tea Party che, allorché vengono alla ribalta, fanno conoscenza con un governatore che nel frattempo per due volte ha rivinto la poltrona, rivelandosi ottimo procacciatore di fondi (102 milioni di dollari dal 2000) e credibile rappresentante della volontà popolare. A lui fare campagna piace, e sa come farlo. Se Perry passa in città, lascia il segno e i simpatizzanti si moltiplicano. Risveglia gli umori, a costo di spararle grosse, a costo di dire che il Texas sta seriamente pensando alla secessione o che può giurare sui figli che tutte le condanne a morte che ha firmato, “al 100 per 100”, hanno mandato sulla forca dei colpevoli. Non importa se i fatti lo smentiscono: Perry fa punti, è infaticabile e appena vede lo spiraglio distrugge gli avversari con attacchi al vetriolo, condotti con lo stile feroce del capopopolo.

    Che cosa può fermarlo? Prima di tutto lo stesso motore del suo successo: il personaggio, il texano tutto decisionismo e smorfie, incapace di discorsi di passabile qualità. Lui è così, quella è la sua versione dell'America. Salutare un cronista con “adios, mofo” (crasi di motherfucker: potete immaginarvi la faccia di Peggy Noonan, se è nei paraggi). La tendenza al big talk, allo spararle grosse, che in Texas decrittano come stereotipi e retorica di contorno, ma che a Manhattan provoca spasmi nelle sopracciglia dei convenuti. I detrattori lo chiamano “Tabasco candidate” come la salsa, piccante ma inutile, che i texani spruzzano sulle bistecche. Ma gli avversari non s'illudano di vederlo salire sulla massima ribalta con lo stesso stile con cui manipola la gente delle sue parti. Perry ha l'umiltà di circondarsi di tutti i conforti possibili, come deve fare un serio candidato. E, a dispetto dell'esteriorità, lui è il serio candidato per una nazione che andrà al voto preoccupata: non fare la scelta sbagliata. Votare per lui significherà dare credito all'anti intellettualismo, dopo che le elucubrazioni di Obama non hanno fatto il miracolo.

    Il saggio istantaneo “Rick Perry and his Eggheads: Inside the Brainiest Political Operation in America” di Sasha Issenberg, cronista del Boston Globe, contiene un peana a Dave Carney, il capo-stratega delle campagne di Perry, che coordina attraverso complicate analisi matematiche e test su campioni rappresentativi. La sua ossessione è ottimizzare le risorse e la sensazione è che David Axelrod, il cervello dietro Obama, abbia trovato pane per i suoi denti nella battaglia per polarizzare l'attenzione degli americani. Un passo più indietro, dopo una consulenza di successo nell'elezione 2006, a consigliare Perry c'è Karl Rove, mente di George W. Bush. In questo periodo i rapporti tra i due sono effervescenti, ma tutto lascia supporre che al momento decisivo Rove verrà imbarcato, vista la rete di connessioni e l'acume tattico. Nell'etere dattorno, nel frattempo, si sono posizionati personaggi di primo piano: Rush Limbaugh ha già chiarito di sentirsi il cheerleader di Perry, al quale dedicò una supplica “on air” lunga venti minuti, implorandolo di candidarsi per salvare la nazione. Stesso dicasi, presso la platea dei suoi adoratori, per Glenn Beck, dal neonato canale tv che porta il suo nome: “Rick, credo che io te ci si debba baciare in bocca” è stato il suo modo d'indicare la propria preferenza elettorale. Un metro alle spalle di Glenn e Rush, a dare man forte alle ambizioni elettorali di Perry c'è un altro veterano delle campagne americane: Dio. Il governatore presenta il Supremo come costantemente in servizio nelle sue legislature. Lo scorso aprile, quando il Texas è stato vittima della siccità, Perry ha proclamato una tre-giorni di preghiera per la venuta delle piogge, sostenuto operativamente da una denominazione sconosciuta fuori dallo stato: la New Apostolic Reformation, i cui membri si fanno chiamare Dominionisti e si definiscono moderni profeti, istruiti direttamente da Dio per ciò che concerne l'attivismo politico. Forrest Wilder del Texas Observer la spiega così: “Credono nella necessità di assumere il ‘dominio' – da cui il nome – non soltanto del governo della nazione, ma anche delle Sette Montagne della Società, di cui fanno parte i media, le arti e lo spettacolo”. Facezie da parrocchia? Souvenir di Mike Huckabee? Nell'America progressista c'è chi s'intestardisce a chiamarle così (“Rick Perry è scemo?”, titola un articolo di successo pubblicato da “Politico”).

    Ma questo spirito da congregazione va sparato in prime time, come reazione al quadriennato di frustrata compostezza obamiana. Oggetti di scena sono le pistole fumanti (“Mi diverto con Ruger 380 con proiettili a punta mozza”, puntualizza Perry, “per sparare a un coyote sono l'ideale”), brandelli di creazionismo e le sparate anti Washington: “Non sono una figura del sistema e non voglio esserlo. Non mi piace Washington: credo sia un posto sporco” scrive Perry in “Fed Up! Our Fight to Save America from Washington”, il suo nuovo saggio programmatico, in cui si lascia andare a esternazioni come: “Da noi c'è poca gente infelice: li chiamiamo ‘liberal'”.

    Prendere o lasciare: è il repertorio di Governor Good Hair, come lo chiamano canzonando la sua messa in piega (che ha surclassato perfino quella di Romney, sfigato com'è). David Brooks, sul New York Times gli accredita buone possibilità: “Il governo è troppo invadente. Questo giocherà in favore di Perry”. Poi scrive che c'è un'America che non crede al riscaldamento globale e che ora ha il suo campione. L'altra America, quella “vino, formaggio e Jonathan Franzen”, ha smesso di dire che Perry è l'avversario augurabile, in quanto battibile. Il texano potrebbe diventare il loro incubo. Tra l'altro ha anche una bella moglie, bionda, intelligente e con una versione più chic dell'accento texanese: si chiama Anita, somiglia a Cybill Shepherd e pare giusto giusto il negativo di Michelle.