Giù le mani dagli anni Novanta

Se è vero che i banditi che stanno lavorando al remake di "Point Break" vogliono consegnare al mondo la versione per “i giovani del ventunesimo secolo”, chi ci metteranno al posto di Anthony kiedis e Flea a fare le risse sulla spiaggia, gli Arcade Fire? Damien Rice? E chi se prende la responsabilità di far rivoltare nella tomba Patrick Swayze, quello che in “Ghost” era bello e bravo, ma nei panni del surfista-filosofo “Bodhi” era un assaggio di paradiso?

    Se è vero che i banditi che stanno lavorando al remake di "Point Break" vogliono consegnare al mondo la versione per “i giovani del ventunesimo secolo”, chi ci metteranno al posto di Anthony kiedis e Flea a fare le risse sulla spiaggia, gli Arcade Fire? Damien Rice? E chi se prende la responsabilità di far rivoltare nella tomba Patrick Swayze, quello che in “Ghost” era bello e bravo, ma nei panni del surfista-filosofo “Bodhi” era un assaggio di paradiso?

    Pur di deturpare la natura degli anni Novanta quelli della Warner Bros qualcosa inventeranno, alla faccia di chi si era asciugato la fronte quando il millantato progetto di un sequel era fallito apparentemente senza appello. Ma le pessime idee hanno sempre una seconda chance. A breve giro di produzione arriverà quindi il rifacimento del capolavoro di Kathryn Bigelow, la regista che pur avendo regalato scorci immensi (e immensamente riconosciuti) con “The Hurt Locker” forse non è mai arrivata a racchiudere l'essenza di un'epoca in una pellicola come quella volta, nel lontano 1991, in cui ha raccontato la storia dell'agente Jonnhy Utah che s'infiltra nella banda degli ex presidenti e ne rimane irresistibilmente attratto. Per la piccola e fedele comunità che trova offensiva l'etichetta di “action movie” applicata a "Point Break", quel film è una summa storica e psicologica, una storia basata sul surf che non parla di surf, un inseguimento morale nello stile dei “Miserabili”, un ritratto di quegli anni di sazietà e dissipazione, di ricerca intensa e disillusa, dove i motti di una filosofia orientale da spiaggia cercano di farsi largo nel vuoto della cultura del testosterone. Quello per cui la banda di Body rapina banche è il mito della “endless summer”, luogo mistico (e illusorio) della liberazione dalla schiavitù della civiltà, altro che surfisti bamboccioni; è lì che su intuizione dello sgangherato sergente Pappas s'infila Johnny Utah, “centromediano di merda” a cui si è piegato il ginocchio di novanta gradi dalla parte sbagliata. E' nello spazio della filosofia spicciola eppure intrigante del capo tribù che incontra gli occhi più azzurri della storia del cinema, innamorandosene alla prima onda, quando lei, surfista incazzosa, lo salva dal bullismo dei locals. “Mi chiamo Johnny”. “E chi se ne frega”.

    In nome del rifacimento e dell'aggiunta, idoli della post-post-modernità, si trama per sovrascrivere, per violare scene che non si dovrebbero più cambiare. La maschera di Reagan, l'estenuante inseguimento interiore prima di scaricare la pistola al cielo, i ragazzacci di Bodhi che saltano sulle Jeep al grido di “Ya-ha!”, la tavola da surf nei corridoi dell'Fbi di Los Angeles (“non mi si chiude la macchina”), il raid notturno sulle onde (“la vista è un senso sopravvalutato”) e quel bacio in cui i corpi e le tavole da distinti diventano uniti; non tutto è riproducibile, aggiornabile, nemmeno le massime di Bodhi (“per ottenere il massimo devi essere pronto a dare il massimo”, “la pace si ottiene con una potenza di fuoco superiore”) che pronunciate da altre labbra suonerebbero inevitabilmente fasulle. E infine l'irresistibile attrazione per la morte, grido tragico di liberazione dalle costrizioni della vita, naturalmente da accostare sulle onde della tempesta del cinquantennio, quella con cui la natura ricorda agli uomini quanto sono deboli.