Caro Wergin, ultimatum accolto. Ma qualche condizione la poniamo anche noi

Alessandro Giuli

Gentile Wergin, accogliamo con piacere la sua proposta di un patto fra cittadini dei nostri paesi che sopravanzi l'insipienza dei rispettivi ceti politici, perché è animata da nobili intenzioni almeno quanto gratuita e irrealizzabile. Comprendiamo anche l'irritazione di cui lei si fa portavoce presso noialtri scialacquatori del Mediterraneo, figli legittimi di un sistema sociale e corporativo novecentesco non più sostenibile nel mondo degli scambi globali e del capitalismo bancocentrico.

    Gentile Wergin, accogliamo con piacere la sua proposta di un patto fra cittadini dei nostri paesi che sopravanzi l'insipienza dei rispettivi ceti politici, perché è animata da nobili intenzioni almeno quanto gratuita e irrealizzabile. Comprendiamo anche l'irritazione di cui lei si fa portavoce presso noialtri scialacquatori del Mediterraneo, figli legittimi di un sistema sociale e corporativo novecentesco non più sostenibile nel mondo degli scambi globali e del capitalismo bancocentrico. Avete qualche ragione, voi del nord, quando ci richiamate a uno stile di vita più sobrio e trasparente come precondizione per convincere i virtuosi d'Europa a farsi carico dei nostri debiti stratificati e soffocanti. Vi sentite presi per i fondelli dalle innumerevoli scappatoie attraverso le quali i nostri politici cercano di eludere gli impegni rigoristi assunti in sede comunitaria. Sicché ora ci dite: prima dimostrate di sapervi aiutare da soli, autoriformatevi, tagliate, vendete, liberalizzate, fatevi dare gli scontrini fiscali e smettetela di lamentarvi salvo poi barare al gioco appena voltiamo lo sguardo; dopodiché forse avrete da noi altre garanzie per salvarvi dalla bancarotta. Sta bene, ultimatum accettato.

    Ciò detto c'è da chiedersi se davvero
    possiamo illuderci che questo testacoda pauperista e a tinte fosche – che voi chiamate rigore e a noi eredi del Rinascimento sembra il soggetto di un dipinto tardo cinquecentesco rabbuiato dalle guerre di religione – possa bastare a restituirci prosperità e sicurezza. Qui al Foglio coltiviamo una certezza e qualche dubbio. La certezza è che non si debba lasciare inascoltata la polemica rivolta dai liberal americani come Paul Krugman, o dai banchieri di establishment britannici come Adam Posen (New York Times di ieri), contro il feticcio dell'austerity. Che non sempre coincide con il risanamento e più spesso si svela come testardaggine monetaria (la paura matta dell'inflazione dalla quale vengono paralizzati gli Istituti centrali europei, a cominciare dalla casa madre francofortese, così lenta e contraddittoria nel prendere le misure ai debiti sovrani) e come cieco moralismo. E' lo stesso moralismo – ma qui entriamo nel campo dei dubbi – che affiora di tanto in tanto anche nella sua lettera, caro e gentile Wergin, quando alla rappresentazione romantica del popolo italiano e di quello greco tiene dietro una pedagogia sommaria e didascalica.

    Quasi a dire: fratelli meridionali,
    terroni del Continente, il carnevale è finito, adesso meno colore e più braccia sottratte all'ozio. Queste braccia, le nostre braccia, hanno fin dapprincipio accompagnato la nascita di una Eurolandia germanocentrica, costruita secondo le misure (e i costi comuni) di una capitale riunificata (Berlino), e amministrata da un condominio litigioso (Commissione, Bce, Consiglio degli stati) nel quale si è deciso di unificare le direttive politico-finanziarie senza prima concepire gli strumenti per socializzare una quota delle perdite. Abbandonare adesso gli insolventi, o anche soltanto minacciare di farlo, invece di addomesticare i debiti insanabili e porsi unitariamente il problema della crescita futura, significa comportarsi come i leghisti italiani (italianissimi) con gli abitanti del sud Italia. Noi non siamo leghisti, e voi?