Gran sinologo spiega perché il Cielo cinese può salvare l'Europa
“Cosa farebbe in questa crisi Wen Jiabao se fosse un leader europeo? Il contrario di quello che fanno i nostri dirigenti, non parteciperebbe alla frenetica agitazione quotidiana che ci sta uccidendo. Agirebbe in silenzio, per piccoli tocchi, spingerebbe con discrezione verso evoluzioni favorevoli. La democrazia vive di teatro, quindi ha bisogno di demagogia, di toni drammatici, di annunci a sensazione. La cultura cinese invece è al di fuori del teatro, a parte l'opera importata tardi e che comunque ha un'importanza marginale.
“Cosa farebbe in questa crisi Wen Jiabao se fosse un leader europeo? Il contrario di quello che fanno i nostri dirigenti, non parteciperebbe alla frenetica agitazione quotidiana che ci sta uccidendo. Agirebbe in silenzio, per piccoli tocchi, spingerebbe con discrezione verso evoluzioni favorevoli. La democrazia vive di teatro, quindi ha bisogno di demagogia, di toni drammatici, di annunci a sensazione. La cultura cinese invece è al di fuori del teatro, a parte l'opera importata tardi e che comunque ha un'importanza marginale. E poi in Cina non ci sono sondaggi”.
François Jullien, francese, sessanta anni, filosofo e sinologo, autore di una ventina di saggi di cui l'ultimo “L'invenzione dell'ideale e il destino dell'Europa” (Medusa editore) è da poco in libreria, studia la Cina da quando aveva venti anni e stava a Normal Sup. Se la ride: “Crisi è un concetto teatrale e clinico, stato transitorio di particolare difficoltà, ma quando le crisi si succedono l'una dopo l'altra si deve parlare di cronicità. Wen Jiabao prenderebbe subito atto di questo, non parlerebbe di tunnel perché dirlo a un popolo che ci sta dentro lascia intendere che un giorno potrà uscirne, ma se poi l'atto salvifico non si vede o si protrae nel tempo saranno guai ben più gravi. L'efficacia cinese sta nella discrezione, nell'arte dell'agricoltore che semina e aspetta con pazienza che la pianta cresca e dia i suoi frutti”. Che mi pare siano arrivati. Il nostro ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, mente fina, tempo fa scrisse un pamphlet di successo contro il mercato globale e l'idolatria dei mercati in generale. Spronava l'Europa a difendersi dal “pericolo che viene dall'est”.
Oggi stiamo a mani tese, sperando che la Cina arrivi in soccorso, e siamo pure pronti a vendere loro i gioielli di famiglia. Il paese del “grande balzo in avanti” che in cinquanta anni diventa la seconda superpotenza mondiale, tra non molto la prima, che razza di miracolo è? “Non è un miracolo. E' la conseguenza logica di un modo di pensare l'azione l'efficacia e l'armonia delle cose, diciamo del cosmo, che è esattamente l'altro e l'altrove dalla cultura giudeo-cristiana e prima ancora greca. E' una differenza millenaria, la sola rimasta su terra”.
La molla che spinse Jullien a passare anni a Pechino, Shanghai, a Hong Kong e a Tokyo non viene da giovanile ed esotica passione. Viene dal cuore dalla filosofia occidentale, se è andato a est è per meglio capire l'ovest, se ha cominciato a studiare il cinese è, dice, per approfondire Platone. “Dopo le rotture epistemologiche e filosofiche del secolo scorso, cercavo qualcosa al di fuori di noi che servisse a capire il nostro dentro. Mi aveva colpito la riflessione di Pascal in margine ai ‘Pensieri', ‘Chi è più credibile Mosè o la Cina?', per il suo essere asimmetrica, da una parte un uomo, simbolo dell'avventura europea attraverso il monoteismo; dall'altro non un altro padre fondatore, non Confucio, non Lao Tze ma uno spazio, un'opportunità incredibile per una riflessione fuori quadro. L'islam è dentro la storia europea, la Cina no. La sua lingua è la sola, col giapponese che però deriva dal cinese, a non venire dal sanscrito, dal ceppo delle lingue indoeuropee. E mostra di poter sopravvivere anche all'era dell'informatica, alle tastiere dei computer”.
Bisogna ripartire da Platone per capire come un paese senza democrazia formale e con libertà individuali limitate sia diventato chiave di volta del mondo? “Sì. E la digressione non sembri peregrina. La filosofia greca il pensiero ebraico e poi cristiano ruotano attorno all'esistenza dell'idea, del dovere essere, del fine ultimo della vita e dell'azione. Telòs dicevano i greci. Da qui l'esistenza di un piano, di un modello che entra nella realtà dall'esterno e del necessario adeguamento dei mezzi ai fini. L'occidente coltiva il fantasma del rigore della mente, la matematica pura come linguaggio formale. Non fu Galileo a dire che Dio aveva creato il mondo con un sistema d'equazioni? Ma il cerchio perfetto non esiste. L'uomo saggio cinese è permanentemente calato nella sua realtà, osserva, indaga, scruta il minimo appiglio su cui fare leva. L'efficacia diventa un processo su cui non si interviene mai prima del tempo. Pochi sforzi per un massimo di risultati. La guerra la si fa solo quando hai già vinto”.
In occidente si gioca a scacchi, simulazione di guerra e di morte con eserciti contrapposti disposti ai due lati della scacchiera. “Appunto. I cinesi, e i giapponesi che hanno assorbito questa cultura secoli fa, giocano a ‘go': la scacchiera è vuota e sono i giocatori che posano pedine per occupare lo spazio, disegnare linee di tendenza, creare zone di influenza. Due visioni del mondo insomma. Ero in Cina dopo la morte di Mao nel 1976, quando Deng Xiaoping venne riabilitato. Andò così. La linea ‘della critica di Deng' rimaneva ma cambiavano le formule ammesse. Fino al giorno in cui sul quotidiano del partito apparve l'espressione ‘gli errori di Deng'. Allora tutti capirono che era stato riabilitato anzi che era già tornato al potere. Insomma, non servono grida, strepiti, dichiarazioni roboanti, si può raggiungere lo stesso scopo, con un cenno, con un accenno. Chi ha capito per tempo che un partito di quadri fanatici e imbevuti d'ideologia stava diventando una rete di amministratori e manager? E' quanto accade nell'immigrazione: si estende da un quartiere all'altro, ogni nuovo arrivato fa arrivare i propri cugini e capisci che ci sono e sono tanti solo quando scoppiano i fuochi per le celebrazioni del nuovo anno”. Lei scrive che il Cielo è in alto e la Terra è in basso e al saggio non resta che guardare in alto o in basso. Allora perché per comporre l'armonia serve ancora la mano di ferro del partito unico? “L'armonia ha bisogno di una politica che ‘regoli'. La cultura della libertà, dei diritti dell'uomo, comporta rotture e si occupa dell'uomo in quanto individuo, separato dalla famiglia, dalla società, dall'ambiente. La Cina invece integra e contempla il singolo come parte di un tutto.
L'imperatore era detto il Figlio del Cielo perché il Cielo è il moto degli astri, lo scorrere del tempo e delle stagioni, la più alta regolazione naturale. Siamo arrivati noi europei, una prima volta in missione, qualche secolo dopo con la forza. Abbiamo esportato scienze e una dottrina politica come il bolscevismo. Se ne sono liberati, ma il partito rimane a fare da regolatore tra regioni, tra generazioni, tra città e campagne. Tra redditi, con la classe media che cresce a una velocità impressionante. La Cina poteva essere strangolata dalla demografia, il rischio che le classi di età potessero essere distribuite secondo lo schema della piramide rovesciata che pure era altissimo è stato evitato. La Cina fu umiliata all'inizio del secolo dall'Europa e prese coscienza del ritardo: da allora, tanto più dopo la morte del socialismo, coltiva voglia di ricchezza e spirito nazionalistico di rivincita”.
Un imperialismo diversamente aggressivo? “A differenza dell'Impero romano, di quello inglese e degli stessi Stati Uniti sanno che lo spazio è sempre difficile da difendere. Puntano sui soldi e sul prestigio. C'è chi parla di ‘coming collapse'. Arriverà forse, ma non ora e non per questioni economiche. Magari sui diritti e sulla religione, vocabolo introdotto alla fine dell'Ottocento e tradotta con insegnamento ancestrale. Per ora si permette di dare lezioni di buona economia capitalistica agli Stati Uniti. E non c'è al mondo questione che abbia una qualche rilevanza su cui non ci si chieda cosa pensa Pechino, cosa farà Pechino”.
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