Gli sbobinati del Cav., spionaggio e mobbing al sapore di golpe

Umberto Silva

"Dimissioni, dimissioni!". Ma dimettiti tu, mascalzone! C'è in atto un'evidente persecuzione e invece di fermare i torturatori dai addosso alla vittima! Una vittima che anche sul palo della tortura non smette di far pernacchie. Se i santi mettono la pazienza del mondo alla prova con la loro insostenibile virtù, il Cavaliere mette alla prova la nostra fede con il suo inarrestabile casotto. “Siete disposti a battervi per me nonostante tutto? Siete pronti, sulla mia scia, a farvi ricoprire di merda pur di difendere la libertà?”. Una sfida iperisterica lanciata ai propri sostenitori per vedere quanto amano lui e soprattutto la libertà che incarna – carne lussuriosa, corpo sovrano assai perturbante.

    "Dimissioni, dimissioni!". Ma dimettiti tu, mascalzone! C'è in atto un'evidente persecuzione e invece di fermare i torturatori dai addosso alla vittima! Una vittima che anche sul palo della tortura non smette di far pernacchie. Se i santi mettono la pazienza del mondo alla prova con la loro insostenibile virtù, il Cavaliere mette alla prova la nostra fede con il suo inarrestabile casotto. “Siete disposti a battervi per me nonostante tutto? Siete pronti, sulla mia scia, a farvi ricoprire di merda pur di difendere la libertà?”. Una sfida iperisterica lanciata ai propri sostenitori per vedere quanto amano lui e soprattutto la libertà che incarna – carne lussuriosa, corpo sovrano assai perturbante. Una sfida istericissima il cui guanto cala anche sul campo avverso: “Se io sono una primadonna, c'è tra di voi un vero uomo che possa prendere il mio posto? Voi che non fate che rinfacciarvi d'essere puttane e froci?”.

    Ma partiamo dall'inizio,
    da una telefonata in una notte di primavera. “Vedi Marysthell, io faccio il primo ministro a tempo perso”. L'elegante battuta degna del premier Gladstone, che con le signorine di strada amava nottetempo chiacchierare nelle brume londinesi, è da solerti giudici tramutata in materiale di reato. Il Cavaliere ha confidato a un amico di essersene fatto sette in una notte? Lo impiccheremo a testa in giù, vivo, sicché possa gustare i nostri sputi. Ma siamo diventati tutti matti? Chi di noi, al telefono – strumento che al contempo consente confidenza e lontananza – non si è vantato delle più sciocche imprese, sovente in realtà mai commesse e quand'anche chissenefrega? Il telefono è la sputacchiera dei desideri, vi si dice di tutto e tutto quel che vi si dice è per suo statuto avulso dalla verità, anche quando le fa il verso. Verità e telefono sono agli antipodi, viaggiano su binari che mai s'incontrano, l'una modellata sul pensiero che si confronta col mondo, sfrenato l'altro in una logorrea autoreferenziale. “A tempo perso faccio il primo ministro”: il Cavaliere ha detto queste cose? Sì, al telefono, certe cose si dicono proprio e solo al telefono, a quell'affarino di plastica che di mestiere, per portarsi a casa un po' di soldini, fa il silente interlocutore che si beve tutto quel che al momento ci salta in testa, un momento che spesso ha il solo fine di colmare un vuoto, una noia. Spesso si butta lì qualsiasi “non parola” tanto per liberarsi dell'interlocutore. Si può anche insultare questo o quella, lodarne il culo o vilipenderne il naso, e magari sono gli amici più cari con i quali due ore dopo ci si abbraccerà prima di andare a cena. E' ipocrisia, doppiogiochismo, non si fa! Si fa, si fa, siamo umani e facciamo.

    Assai peggiore ipocrisia è il coprirsi dietro un'ottima causa, la guerra alla mafia, per legittimare, a latere, l'uso criminale del gossip. Così si riduce a burletta anche la lotta alla mafia. A parte il fatto che i mafiosi, più furbi del Cavaliere e dei giudici, al telefono ormai dicono solo quel che vogliono sia intercettato; per le cose serie usano i pizzini.

    “Onorevole Berlusconi, lei ha detto
    che a tempo perso fa anche il primo ministro”. “No, signor giudice io non ho detto questo. L'ha appena detto lei, ora, qui, in questo ufficio, davanti a me”. La telefonata ha uno statuto tutto suo ed è una truffa spacciarla per pubblica e come tale incriminarla. Se il Cav. al telefono insulta qualcuno, non lui commette reato ma chi esibisce il suo insulto, dandolo in pasto ai cittadini e in faccia all'offeso. Freud ricorda ai sostenitori dell'irresponsabilizzante motto “ambasciator non porta pena”, come l'occhiuto codice austriaco sancisse la galera per chi ricorreva al trucchetto d'insultare pubblicamente l'imperatore Francesco Giuseppe citando un insulto letto su un muro o da altri pronunciato. Non è il Cav. ad avere offeso la Merkel. La dicitura è omissa, per ora, così la gente può sbizzarrirsi a immaginare di tutto e chissà quante gliene dicono alla cancelliera tedesca. E' un danno al Cavaliere e all'Italia, che viene esposta a rappresaglie e a inimicizie; un danno gravissimo: ci fu chi scatenò guerre sanguinose per un pettegolezzo o per un telegramma aggiustato.

    L'attuale uso delle intercettazioni non tutela la libertà ma il crimine. Centomila intercettazioni solo per le dieci ragazze baresi! Siamo in presenza del più grande delirio erotomanico di ogni tempo. Non è un delirio del Cavaliere, l'erotomania è dei suoi inquisitori; non si era mai visto a memoria d'uomo un simile interesse per il pene di qualcuno, quel pene che a tutti i costi si vuole evirare tramutandolo in una femminea “pena”. Trasparenza, trasparenza! E' la nuova parola d'ordine. Detesto le barzellette, ma sul finire degli anni Cinquanta ne sentii una che mi rimase impressa per sempre, come tutto quello che si detesta. Faceva, e fa, così: “Sapete perché in Unione sovietica i cessi sono trasparenti? Per vedere lo sforzo dei cittadini nel momento del bisogno”. E davvero erano trasparenti i cessi o meglio, come testimoniano i libri dei sopravvissuti ai gulag, nemmeno esistevano le pareti. Si puntava al panopticon come mezzo di umiliazione. Ieri la barzelletta mitigava una miserabile realtà, ora abbiamo superato l'Urss e la barzelletta è divenuta una realtà applaudita, con un cambio di personaggi. Non più sono spiati i comunisti ma il porco capitalista, sicché il “bisogno” non è quello sano e necessario dell'evacuazione ma il plusvalore della dissennata copula. L'inquisitore non tollera il piacere dell'altro, deve imporre il proprio, fondato su un sadico voyeurismo. Gode nel mettere l'altro al rogo, nel bruciarlo insieme con i suoi desideri, opere, frizzi e lazzi. Detesta il riso, preferisce il ghigno. Con il Cavaliere l'inquisitore si erotizza al massimo grado perché grazie alle intercettazioni si procura la visione di un godimento senza limiti. Un godimento angosciante che dà modo all'inquisitore di travestirsi da terapeuta e d'investirsi della missione di mettere un limite all'onnipotenza infantile del Cav. Ma resta un travestimento, poiché all'inquisitore sta a cuore il proprio godimento che può ergersi solo sulla gogna. Quella gogna che il Cavaliere con la sua temerarietà sembra ambire come il luogo prediletto da cui esibirsi e fino all'ultimo, inesausto, rilanciare la sfida.

    Quel che sta avvenendo oggi in Italia è il primo golpe democratico e legalitario – in apparenza, perché in realtà sono ben visibili reati come lo spionaggio, il mobbing e lo stalking. Di più: le centomila intercettazioni baresi e napoletane vanno esposte al museo del crimine non solo per lo sperpero, non solo per l'attacco alle istituzioni, ma per l'assalto al buon nome dell'Italia, consegnata inerme agli avidi mercati. E' alto tradimento. Semmai si avevano dubbi sul fatto che il Cav. fosse perseguitato – ne avevo anch'io, e molti – ora il diluvio delle intercettazioni e il loro uso totalmente li dissipano. Siamo in presenza di un colpo di stato effettuato da quegli stessi che dovrebbero tutelarlo. Si consiglia da più parti al Cavaliere di lasciare in tempo la scena, prima della catastrofe. Si parla di salvacondotto ma è una trappola. Anche se non lo fosse lo è; abbandonare la scena sotto la gragnuola delle intercettazioni segnerebbe non solo la disfatta del Cav. ma una disfatta della libertà. Sarebbe cedere al sopruso travestito da legge, sancendo la perenne possibilità dei giudici di torturare i loro imputati.