Non chiamateli Oscar
Come ogni anno tra la fine di agosto e l'inizio di settembre l'Academy of Television Arts & Sciences assegna gli Emmy Awards, ovvero i premi dedicati alla programmazione televisiva d'intrattenimento della prima serata statunitense. Un evento – segnatevi questa parola – appena conclusosi dalle parti di Los Angeles che serve a capire la trasformazione fondamentale del nostro rapporto con i mass media.
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Come ogni anno tra la fine di agosto e l'inizio di settembre l'Academy of Television Arts & Sciences assegna gli Emmy Awards, ovvero i premi dedicati alla programmazione televisiva d'intrattenimento della prima serata statunitense. Un evento – segnatevi questa parola – appena conclusosi dalle parti di Los Angeles che serve a capire la trasformazione fondamentale del nostro rapporto con i mass media.
Dalla fotografia a Internet una strana diffidenza ha sempre accompagnato alcuni mezzi di comunicazione più “commerciali”. Sono i grandi protagonisti della storia mondiale, almeno a partire dalla fine del diciannovesimo secolo, ma le forme d'espressione legate ad alcuni dispositivi, ogni volta più sorprendenti, hanno dovuto spesso scontare gli strali e le maledizioni della classe dei colti. Il motivo per cui scrivere un racconto sia costituzionalmente più nobile rispetto a un prodotto pensato e realizzato con la macchina da presa è a tutt'oggi di difficile comprensione. Ancor più bizzarra è l'abitudine di annoverare un romanzo nelle file dell'umanistica e un serial tv in quelle del prodotto commerciale. Forse un giorno qualcuno saprà spiegarci il perché.
Eppure quel sistema un tempo definito “industria culturale” sembra non aver poi così patito le accuse della critica, che per uno scherzo del destino è piombata essa stessa nei sistemi di produzione dell'odiato “nemico” partecipando in qualità di attore al suo grande show. Il filosofo Edgar Morin capì con netto anticipo che cinema, radio e tv già negli anni Sessanta si stavano disponendo come territorio deputato all'espressione della cultura. Di livello o meno, non aveva importanza: per avere luogo, per esistere, i racconti e le storie con cui l'essere umano si è misurato dovevano precipitare nel grande carrozzone dei media di massa, sposandone il destino e la vocazione.
La serata appena trascorsa al Nokia Theatre è l'atto celebrativo di una cultura planetaria, che la stragrande maggioranza degli uomini sentono come propria: quella televisiva. Per cultura s'intende, a scanso d'equivoci, un grande insieme fatto di sentimenti eccezionali come quelli che governano il rapporto parentale, e allo stesso tempo della leggerezza di una risata; da donne e uomini straordinari e bellissimi, e da nani e storpi di ogni tipo; di stili di vita e modi di fare, costumi e ideologie, conflitti, miserie e tesori di qualsiasi sorta.
Tutte queste cose le abbiamo viste nella serata degli Emmy, e non è un caso che i premi siano andati proprio a quelle serie e a quegli attori che più di altri hanno manifestato la capacità di intercettare gli aspetti significativi del nostro presente.
A confermare questa tendenza, per evidenze senz'altro logiche, sono stati appunto i riconoscimenti che, oltre al fascino e alla bravura di attori e registi, hanno premiato delle storie di stretta attualità. A ruggire nell'arena sono stati Mildred Pearce e il suo racconto – guarda un po' – di una famiglia americana ai tempi della grande depressione, Modern Family con il suo intricarsi di dinamiche famigliari fino a qualche anno fa nascoste nel segreto del focolare, e il solito Mad Men ormai di fatto fuori categoria. Se dunque cercate risposte agli aspetti trascendentali del vivere ci sono i luoghi di culto con le loro cerimonie, per tutto il resto ci sono gli Emmy, e vi prego non chiamiamoli più gli “Oscar della tv”.
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