La Grecia è finita
Perché il fallimento che incombe su Atene è anche culturale e politico
Non è facile essere greci moderni. Non è mai stato facile. Con la crisi è ancora più difficile. Tutti si chiedono come ci si è ridotti così, cosa non è andato bene. E riappare un vecchio incubo squisitamente ellenico: l'inesistenza, la perdita di identità, la cancellazione dalla storia. L'incubo è ricorrente.
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Non è facile essere greci moderni. Non è mai stato facile. Con la crisi è ancora più difficile. Tutti si chiedono come ci si è ridotti così, cosa non è andato bene. E riappare un vecchio incubo squisitamente ellenico: l'inesistenza, la perdita di identità, la cancellazione dalla storia.
L'incubo è ricorrente. E riguarda un equilibrio molto fragile: quello della continuità tra l'ellenismo antico e quello moderno. Una continuità tanto gravosa da diventare spesso insostenibile. E' un problema che si pone fin dall'epoca del filosofo neoplatonico Giorgio Gemisto Pletone, attivo anche alla corte dei Medici, il primo che riconobbe la sottile ma solida linea di continuità tra il cristianesimo ortodosso dell'impero bizantino e la cultura (“paideia”) degli antichi. Il primo che si definì orgogliosamente “elleno” e non solo “romeo” (cioè suddito dell'imperatore d'oriente), senza rinnegare la tradizione cristiana. Fino a quel momento il nome degli “elleni” era attribuito solo ai pagani. Ma era passato quasi un millennio dalla chiusura delle scuole filosofiche di Atene. Il paganesimo era ormai solo un ricordo letterario. E' stato quindi Pletone, il filosofo di Mistrà, nel Peloponneso, a rifarsi con grande destrezza all'insegnamento di Gregorio Nazianzeno, vecchio di un millennio. Quel Gregorio che, in polemica con l'imperatore Giuliano, rivendicava a sé e agli altri padri della chiesa l'“ellenizein”, il pieno inserimento alla cultura degli antichi. Gregorio era orgoglioso della loro impresa: da buoni intellettuali greci, avevano trasformato un oscuro mito ebraico nella nuova religione antropocentrica. Un'operazione brillante e di valore universale, offuscata in seguito da mille scismi. Per Giorgio Gemisto Pletone era giunta l'ora di riportare in vita, con piena coscienza, questa anima ellenica nascosta nel cristianesimo ortodosso. Riconoscere che la pretesa universalità dell'Impero romano d'oriente affondava le radici nell'universalità del pensiero antico.
Un seme destinato a fiorire. Tre secoli più tardi, in piena rivoluzione francese, sarà Rigas Ferreos, l'apostolo dell'ellenismo moderno, a concimarlo: segretario dei vojvoda bizantini nei principati del Danubio (per conto del sultano), intellettuale irrequieto e cospiratore astuto, darà nuova voce ai greci, confusi e oppressi dal giogo ottomano: “Siamo gli eredi di una grande cultura – proclamò – che vive tuttora nella nostra chiesa: uniamoci e rovesciamo l'assolutismo asiatico”. Sarà arrestato dagli austriaci e impiccato nella torre di Belgrado. Ma il suo appello aveva colto nel segno: “Chi eravamo noi greci?”, si era domandato Rigas. In un impero multinazionale e multireligioso, non era facile rispondere: in ogni famiglia si parlavano tre o quattro lingue contemporaneamente e, tracciata la grande discriminante con l'islam, non era facile stabilire la propria identità. Tanto più che, per contrastare il movimento del filellenismo, lo storico bavarese Jakob Philipp Fallmerayer si era prodigato a dimostrare che i greci moderni non avevano nulla in comune con quelli antichi, perché erano di “un'altra razza”, forse slavi e illirici ellenizzati. Ma se la “razza” e il “sangue” avevano il loro (terribile) fascino presso i popoli nordici, dalle nostre parti vigeva sempre la definizione di Isocrate: può chiamarsi greco chiunque condivida la nostra “paideia”. In altre parole, si era quello che si era scelto di essere. L'identità greca era un'identità culturale. Si era greci per scelta.
Del messaggio di Rigas, fu utilizzata solo la prima parte: i greci in armi hanno capito ben presto che solo l'eredità antica era moneta spendibile in Europa. Il clero ortodosso combatteva con i ribelli e il patriarca Gregorio IV fu impiccato dai turchi, ma in Europa bisognava sollecitare il sostegno dei filelleni mostrando quelli che il poeta Nikos Gatsos ha, molto più tardi, chiamato “i nostri gioielli antichi”. Ci ha pensato Adamantios Korais, il segretario di Ugo Foscolo, inondando l'Europa di odi sperticate all'Ellade. Fu così che Lord Byron e Santorre di Santarosa corsero in Grecia sperando di incontrare Platone e Aristotele e si trovarono in mezzo a ex banditi semianalfabeti e a politicanti borghesi già in lotta per la spartizione del potere. Tutti superbi continuatori dello spirito antico nella lingua, nel costume e (detto un po' sottovoce) anche nel cristianesimo ortodosso. Al contrario dell'occidente, in cui lo stato faceva la nazione, qui c'era una nazione già pronta che rivendicava il suo stato.
No, non è facile essere greci oggi. Specialmente quando si ha a che fare con uno stato nato a dispetto di tutti e presto trasformatosi in una nave che fa acqua da tutte le parti. Anziché proteggere i greci, cercava protezioni a destra e a manca mentre conduceva i suoi cittadini da un disastro all'altro. Nel 1922 ha raddoppiato di colpo la sua popolazione: le – fino a quel momento – fiorenti comunità greche dell'Asia minore furono cacciate in malo modo da Kemal Atatürk. Erano quanto di meglio poteva produrre la grecità: ricche, colte, innovatrici. Di colpo deportati dalla Turchia repubblicana alle città greche, da padroni del commercio marittimo i greci dell'Asia minore si trasformarono in forza lavoro a basso prezzo. Da raffinati intellettuali europei divennero, per lo più, proletari arrabbiati e comunisti dottrinari. L'ellenismo si ridusse nel piccolo regno balcanico. Povero, sgangherato e inutile. Addio sogni di gloria, addio progresso, addio saggezza degli antichi. Come disse un altro poeta vivente, “qui nei Balcani c'è poco da scherzare”.
Ora, che il fallimento del sistema politico è diventato un luogo comune, molti si pongono il problema della cronica incapacità dei greci di costruire istituzioni efficaci e durevoli. Con l'esclusione di Bisanzio, ovviamente, che però aveva ereditato dai romani un solido impianto statale. Le risposte più interessanti sono state, non a caso, fornite da ex esponenti di un gruppo di pensatori che negli anni Ottanta furono definiti “neo ortodossi”. Il loro tentativo andava nella stessa direzione di Gemisto Pletone: coniugare gli elementi di continuità culturale, valorizzando in particolare l'eredità bizantina, considerata a ragione la vera fucina dell'identità greca moderna. Ci furono anche contrastati incontri con la scuola marxista, accusata di aver letto in maniera dogmatica la storia patria, specialmente quando parlava di “feudalesimo” sotto Bisanzio e gli ottomani. Lo storico Kostis Moskof, una delle migliori menti del gruppo, utilizzò invece la categoria di “dispotismo orientale” per aprire la strada a una serie di studiosi innovatori, anche rispetto all'antichità, come Thanasis Kalomalos che ha fatto scalpore con il suo saggio sulla piccola proprietà, vera spina dorsale della democrazia ateniese.
Moskof è morto negli anni Novanta, il gruppo dei “neo ortodossi” si è disciolto e le strade dei suoi esponenti si sono divise. Uno di loro, il filosofo Stelios Ramfos, ha voluto spiegare la crisi attuale scavando a fondo nelle fondamenta dello stato greco: “La crisi in cui ci troviamo oggi affonda le radici nel tentativo di creare uno stato moderno preservando la nostra vecchia mentalità. Fare finta di ammodernarsi, per rimanere gattopardescamente sempre gli stessi: le leggi che regolano i rapporti di famiglia, nella corporazione, nel luogo in cui viviamo, si sono dimostrate più forti delle leggi dello stato. Il mio affetto per mio figlio, per mio cugino, per il mio compare d'anello, travalica le disposizioni di legge. Ritengo quindi del tutto legittimo scavalcare o truccare il concorso per farlo assumere nell'amministrazione pubblica. Abbiamo creato uno stato che si dichiarava moderno per fare fessi i filoelleni europei. Dicevamo che da sudditi ottomani dovevamo diventare cittadini europei. Ma la verità era che ognuno voleva fare i propri comodi. Quelli che volevano lo stato moderno erano greci della diaspora, che avevano vissuto l'ordine della legalità e ne conoscevano i vantaggi. Ma alla fine sono prevalse le tradizionali gerarchie locali. Dalla proclamazione di indipendenza nel 1830 fino a oggi abbiamo vissuto in regime di anomia: le leggi ci sono ma nessuno le rispetta, per primi i politici e i funzionari”. Per Ramfos, c'è una dicotomia tra responsabilità personale e responsabilità collettiva, e una rottura con la civiltà della polis e del Commonwealth bizantino: “La Grecia di oggi soffoca sotto un surplus di sentimenti impantanati, di frustrazioni collettive, di fobie e di insicurezze. Per quasi duecento anni lo stato greco ha creato un ambito che scoraggiava fortemente ogni tipo di innovazione.
Ha instaurato un sistema educativo basato sull'apprendimento mnemonico, un sistema politico basato sul voto di scambio, una società senza regole che pretende continui compromessi e un conformismo assoluto. Chiunque abbia voluto portare innovazioni ha dovuto scontrarsi con la fortissima resistenza di quelli che, con mille sotterfugi, erano riusciti a ritagliarsi uno spazio nell'amministrazione pubblica. L'eterna cospirazione dei mediocri. L'unica scelta che rimaneva per chi voleva innovare era di scappare all'estero. Solo là poteva mostrare cosa valeva. Le idee nuove sulla nostra identità e sul valore del pensiero antico ci sono arrivate dall'estero, dall'Europa. Noi qui eravamo capaci solo di depredare qualche bey ottomano”.
Se un male storico affligge lo stato neo greco, la disastrosa guerra civile combattuta negli anni Quaranta gli ha dato il colpo di grazia. Paradossalmente, anche se furono i comunisti a uscirne pesantemente sconfitti, è stata la borghesia a pagare le conseguenze più dolorose. Doveva imparare a convivere con concorrenti agguerriti, borsari neri, saccheggiatori ed ex collaborazionisti armati che, legittimati dal loro impegno anticomunista, erano pronti a fare man bassa degli aiuti del piano Marshall e tenere le redini dell'economia greca. Un inferno. Ma c'erano ancora resistenze, c'era ancora una borghesia che puntava al mercato comune come fattore di ammodernamento e di democratizzazione. Erano armatori (Onassis, Niarchos), industriali, grandi importatori. Era la borghesia che trovava espressione in Panayotis Kanellopoulos, grande costituzionalista di scuola tedesca e ultimo capo di governo conservatore prima del golpe dei colonnelli del 21 aprile 1967; in Andreas Papandreou, brillante economista di scuola keynesiana; in Georgios-Alexandros Mangakis, illustre giurista e coraggioso combattente contro i colonnelli; in Christos Lambrakis, importante editore e mecenate; in Xenofon Zolotas, fine economista e banchiere di specchiata onestà. Era la borghesia che voleva farla finita con la vecchia lingua arcaizzante, imposta come lingua ufficiale, e dare voce alla lingua parlata, al demotico, che fece guadagnare il Nobel ai poeti Giorgos Seferis e Odysseus Elytis.
Una borghesia ormai estinta, spazzata via dai colonnelli, che hanno ampiamente finanziato e favorito non solo ideologi del nazismo, ma anche speculatori, riciclatori, rapinatori e ogni sorta di attività malavitosa. Li hanno resi improbabili imprenditori, specialmente nel campo del turismo e dell'edilizia. Le loro mostruosità sono ancora visibili a Rodi. E' questa la borghesia greca di oggi, che ha prosperato in dittatura e democrazia, con i governi di destra e di sinistra. Una massa di semianalfabeti, gretti, speculatori e consumisti, senza valori e senza identità. Con un'unica ragione di esistenza: depredare le casse pubbliche. Non è un caso che lo stato sia da trent'anni il principale cliente del settore privato greco.
“Negli anni Sessanta eravamo poveri ma siamo riusciti a creare una straordinaria cultura basata sulla povertà. Ora invece siamo sovrappeso, ubriacati di incultura. Allora la verità era evidente, magari schematica, ma la conoscevano tutti. Si sapeva chi era onesto e chi no, chi valeva e chi no. Si sapeva chi produceva cultura e chi paccottiglia. Ora la paccottiglia ha invaso ogni campo. Non c'è verità, valore. O almeno non è facile distinguere”, è la sintesi del giallista Petros Markaris, che punta il dito contro un nemico ben noto. E' la malattia che questa classe imprenditoriale della peggior specie ha portato con sé: il populismo, che ha invaso ogni angolo del paese, usando principalmente le tv private.
Oggi in Grecia sapere, riflettere, analizzare non fa audience. Gli intellettuali sono stati sistematicamente sbeffeggiati, apostrofati come “koultouriàris”, “aitherobàmon” (“che cammina tra le nuvole”), “noiosi”, “inutili”. Un esempio? Theodoros Angelopoulos, considerato in tutto il mondo un maestro del cinema, in Grecia viene sistematicamente ignorato. I suoi film oscurati, i suoi interventi snobbati: la riproposizione costante nelle sue opere del dramma della guerra civile, come incapacità della società greca di trovare motivi di coesione, lascia indifferente una cultura che si basa sulla distruzione dei legami sociali.
“Ha vinto la corruzione intellettuale, regnano coloro che cavalcano il populismo e le ricette facili pur di fare soldi. Hanno messo il freno a mano nel cervello, sia a destra che a sinistra. Ripropongono strumenti interpretativi accessibili a un pubblico di bocca buona e rinunciano a qualsiasi visione critica, a qualsiasi innovazione. Vince sempre la vecchia ricetta di sicuro successo”, si inalbera Yiorgos Skabardonis, un affermato scrittore di Salonicco: “La nostra borghesia non sente la cultura e non si interessa del futuro del paese. Alla prima scossa della Borsa, eccoli spostare i loro capitali in Svizzera e a Cipro. Nel 1940, la dinastia imprenditoriale dei Benakis mandò tutti i figli maschi a combattere in prima fila contro gli invasori”.
Il cancro del populismo si è propagato anche a sinistra. “Con la caduta dei colonnelli tutti i greci hanno dovuto affrontare una scomoda verità: che non avevano rovesciato loro il regime, ma era caduto per la sua stessa demenza, che ha dato ai turchi il pretesto per invadere Cipro. Pochissimi hanno voluto fare i conti con questa realtà, con la passività di massa durante il regime. Con la complicità dei partiti di sinistra si è giocato così uno psicodramma collettivo: tutti sono diventati di colpo progressisti, tutti combattenti per la società, tutti per i diritti dei lavoratori. Con l'ascesa dei socialisti al governo nel 1981, poi, è diventato “democratico” dare l'assalto allo stato, all'impiego pubblico, espugnare questa roccaforte esclusiva della destra. Ora, alla resa dei conti, nessuno vuole rinunciare ai propri privilegi: si grida all'attacco antipopolare, al sopruso. Lo fa, giustamente, il licenziato nel settore privato, ma lo dice anche il farmacista che pretende tassi di guadagno del quaranta per cento su ogni medicinale venduto, il tassista che vuole mantenere l'esclusiva della licenza, il medico ospedaliero che intasca milioni esentasse in bustarelle e tangenti. E tutti sono trattati allo stesso modo dalla sinistra, come popolo che protesta”, è l'analisi di Stavros Lygeros, scrittore ed editorialista dell'autorevole quotidiano Kathimerini di Atene.
Terreno privilegiato del populismo di sinistra sono le università. Confinate ormai agli ultimi posti in ogni classifica internazionale di valutazione, con un consolidato sistema di clientele che pervade il corpo docente, gli studenti, gli organi accademici. Il nepotismo regna incontrastato. A fine agosto il governo ha presentato in Parlamento un radicale progetto di riforma che impone trasparenza nelle carriere e pone a capo dei consigli di facoltà docenti esterni, magari provenienti dall'estero. La riforma prevede anche l'abolizione dell'asilo universitario, da tempo degenerato in luogo d'impunità per teppisti e spacciatori di droga. La reazione di rettori e sinistra è stata fulminea: tutte le facoltà occupate e cortei continui per le strade di Atene.
“C'è una parte consistente della sinistra che rimane ancorata a vecchi schemi da marxismo scolastico e non ha mai voluto fare i conti con la vera natura di questo paese, con la sua storia, le sue particolarità, il suo senso di identità. Si muove così in maniera provinciale, subalterna, ideologica. Questa sinistra ha promosso e controllato un corpo docente non solo inconsistente dal punto di vista scientifico e alienato ed estraneo alla cultura nazionale, antica e moderna, ma anche altezzoso e provocatorio. Professori che scopiazzano articoli da chissà quale fonte francese o americana, che pretendono di revisionare la storia patria, di combattere l'etnocentrismo e di promuovere il multiculturalismo. Il risultato sarebbe comico se non fosse tragico”, spiega Loukas Axelos, editore e intellettuale critico della sinistra. Si riferisce al caso della storica Maria Repoussi, un'oscura docente dell'Università di Atene, che qualche anno fa ebbe inspiegabilmente l'incarico di redigere il libro di testo (distribuito gratuitamente) per la prima media. Il risultato è stato un maldestro tentativo di riproporre il processo di acquisizione dell'identità nazionale greca secondo schemi europei occidentali (la nazione come prodotto delle monarchie nazionali) e di relativizzare il secolare antagonismo con l'islam ottomano. All'epoca il governo fu costretto a ritirare il libro, ma la sinistra ha difeso a spada tratta la storica pasticciona e tutte le baronie universitarie che la proteggevano.
Un'altra parte della sinistra ha ritenuto arbitrariamente di assimilare al partito della Repoussi anche il premier Yiorgos Papandreou, oggetto di molti sospetti: nato americano, dal greco incerto, protagonista di una politica di “addomesticamento” della temibile macchina bellica turca. E nell'occhio del ciclone da più di un anno.
A capo di questa fazione c'è il vecchio compositore Mikis Theodorakis, che l'anno scorso ha fondato un suo movimento civico, chiamato leninisticamente “Scintilla”. Per Theodorakis, la crisi è tout court un attentato alla sovranità del paese e la opposizione alle condizioni imposte dalla troika (Bce, Fmi e Commissione europea) è parte di una nuova lotta “di liberazione nazionale” contro il “dominio straniero”. A ottantasei anni, Theodorakis è tornato così alle sue radici nazional-comuniste, dopo aver attraversato nell'ultimo trentennio l'intero arco politico. Senza rinunciare a punte antisemite.
“Scintilla” ha avuto un certo successo, ma non tra gli intellettuali. I quali hanno classificato il nuovo Theodorakis tra i fenomeni da baraccone e i pazzi che delirano ogni ora nelle tv private, tra una telenovela turca e un grido di allarme per l'imminente espulsione della Grecia dall'Eurozona. Lo scrittore Vassilis Vassilikos, autore di “Z. L'orgia del potere”, è categorico nel respingere i facili attacchi contro Papandreou: “Fa quello che può. Forse può fare poco. Ma al punto in cui erano arrivate le cose, cosa altro si può fare? Paghiamo un conto salato perché abbiamo lasciato passare decenni senza fare nulla”.
Sulla deriva del celebre compositore, solo un'amara battuta: una volta c'era la “sindrome di Theodorakis” che colpiva tutta l'intellighenzia greca: non bastava l'impegno, bisognava assumere anche la leadership politica del popolo in lotta. Una versione di sinistra della Repubblica platonica. Ora questo mito è stato spazzato via dalla crisi. Insieme con tante certezze. Lasciando sospeso l'eterno interrogativo dei greci moderni: questa lingua e questa cultura potranno sopravvivere alla tempesta? Oppure saremo ancora una volta un popolo della diaspora, una nazione virtuale, un club di sopravvissuti?
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