La parola scusa esiste

Stefano Di Michele

"Excusatio non petita, ecc. ecc.” – però, diciamo, nel caso del Cav., excusatio necessita. Almeno a (tentativo di) salvamento dello scalpo politico, a motivo di generalizzato accerchiamento, a ragione del vorticoso rotolare delle eleganti serate annaffiate di sanbittèr in strabilianti tornei amorosi (otto, otto in una notte! nemmeno otto in un film di due ore di Rocco Siffredi!). Il terreno sul quale per anni il Cav. si è gagliardamente difeso e (seppur meno efficacemente) ha guidato il contrattacco si è fatto impraticabile.

    "Excusatio non petita, ecc. ecc.” – però, diciamo, nel caso del Cav., excusatio necessita. Almeno a (tentativo di) salvamento dello scalpo politico, a motivo di generalizzato accerchiamento, a ragione del vorticoso rotolare delle eleganti serate annaffiate di sanbittèr in strabilianti tornei amorosi (otto, otto in una notte! nemmeno otto in un film di due ore di Rocco Siffredi!). Il terreno sul quale per anni il Cav. si è gagliardamente difeso e (seppur meno efficacemente) ha guidato il contrattacco si è fatto impraticabile, sabbie mobili dove si affonda, la trincea amical-partitica comincia a cedere, la contabilità da Casanova brianzolo ormai quasi più incerta di quella del mozartiano punto di ideale approdo (“In Italia seicento e quaranta, in Allemagna duecento e trentuna, cento in Francia, in Turchia novantuna, ma in Espagna son già mille e tre!” – e romene e brasiliane e portoricane e napoletane e romane e pugliesi, ecc. ecc.), non consente né tenuta di conto né tenuta di logica. Si capisce che il passo è doloroso – e anzi, scuse il Cav. certo pensa di avere a pretendere, piuttosto che a dare – ma alternato il sanbittèr alla valeriana (che otto a notte non ne concede, ma al riposo del giusto spesso fa accedere), ragionando con calma, si vedrà che altra strada non c'è. Le scuse – ecco la mossa spiazzante, ecco il modo ideale per sgombrare il campo e riprendere la lotta da una posizione, se non di forza, almeno di non eccessiva debolezza. Altro che un milione o due milioni o tre milioni in piazza – onestamente a far che, a tenzonar cavourianamente intorno alla parola d'ordine: libera figa in libero stato?, che poi all'occorrenza, a riempir una decente piazzetta, un medio palasport, basterebbero tutte quelle che hanno avuto l'appuntamento fissato e le qualità amorose il giorno dopo richiamate. Davvero da qui non si scappa – se seriamente s'intende cercare ancora (trovarla è cosa diversa) una via d'uscita a una situazione mai vista prima in occidente, e perciò applaudono Putin (Russia) e Calderoli (Padania), insomma stati esteri.
    Sì, certo, le centomila intercettazioni – e vergogna! e disdoro! e sopraffazione! – l'immensa Comédie barisienne che giorno dopo giorno, capitolo dopo capitolo, si srotola davanti ai nostri occhi, e violazione della sacralità della privacy si può intendere, ma anche immenso insperato affresco umano. Di peccati e di vizi e di errori carico – e reati chissà. Le vite degli altri – appunto, e appunto ogni impigrito piediellino che va a far difesa del capo, e la difesa c'è ma la passione pare scarseggiare, sempre il celebre film cita, e sempre la Germania comunista mette di mezzo.

    Filmograficamente e culturalmente un'appropriata citazione, politicamente e mediaticamente una citazione che ormai non sposta niente – e anzi, a prestar attento orecchio, così la gente ragiona e intende: che dalle assicurazioni che niente di vero c'è si è giunti alle rivendicazioni che di fatti personali si tratta. Persino i maggiori prelati si mostrano turbati, e se si mostrano turbati i maggiori prelati, la cui saggezza clericale sempre impone un turbamento a rilascio lento, e che tanto bene dall'azione del Cav. hanno avuto e che tante beneficenze non hanno avuto remore a rivendicare, allora il momento di cambiare passo a un centimetro dall'abisso è giunto. La mossa del cavallo – quella che spiazza, quella che percorre in più direzioni la scacchiera e scavalca gli ostacoli, e può sovvertire il campo della lotta – tocca ora al Cav. E ci risiamo: la mossa delle sue scuse, da tutti inattese, da molti giudicate impossibili. Si dirà: ahi, la norma! ahi, i princìpi! ahi, tal codice tal articolo tal comma!, e pure bene si dirà: ma confinare l'intera italica nazione, tanto dei votanti quanto degli antipatizzanti, nel ruolo di praticanti del pregevolissimo studio Ghedini non è strategia che a lungo può reggere (ché dell'arioso particolare libidinoso c'è ormai in giro diffuso desiderio – volendo: osceno desiderio – non certo dell'arido codicillo avvocatesco: ché in aula è virtù, ma in piazza è noia infinita).

    Troppo oltre la faccenda è andata, troppe voci si sono ammucchiate, troppa gagliofferia s'è adunata intorno al desco presidenziale e troppa vispa gioventù dentro al capiente talamo padronale. I vizi e i piaceri non sono certo delitti – e infatti il posto di Casanova non erano i Piombi, quello di De Sade non era la Bastiglia, quello di Ovidio non doveva essere la desolazione delle rive del mar Nero, e anzi all'attuale condizione del Cav. l'uomo della “Ars amatoria” pare proprio parlare, quando a sua discolpa scriveva e alle future debolezze alludeva – e si può benissimo intendere il confessare come lo scusarsi: “Confesso, se confessare i peccati può in qualche modo giovare; ma ora, dopo la confessione, ricado come un insensato nelle mie colpe”. Ma se non sono delitti, se non nelle società oscenamente puritane che come niente in delitto mutano pure il diritto, possono essere un problema. E su questa riva, sul suo personale mar Morto, che oggi il Cav. rischia di far naufragio. Detto brutalmente: la sorprendente vastità del suo ciarlare e del suo scopare – così che nelle intercettazioni persino i gaglioffi ne provano giustificata ammirazione – alla pubblica avidità ora consegnate, e nelle cronache nazionali prima che in quelle giudiziarie per sempre incardinate, non permette più alcuna possibilità di contenimento, di sbarramento, di discernimento – nell'umana impossibilità di ricordare tante chiacchierate e tante nottate, il noto che nella mente si è venuto trasformando in ignoto sempre rischia di ripresentarsi. E' nei tribunali che il vizio e il piacere saranno rivendicati e il delitto e l'abuso verranno negati – lì il codice, lì il codicillo, lì il comma saranno necessità e coronamento di battaglia – ma nella piazza televisiva ciò ormai non è più appetibile. Ha ragione il Cav., pur se come sempre esagerando, quando dice che tutti gli italiani come lui avrebbero fatto – e napoleonico, come negli iniziali ardori governativi, pur ora che vogliono costringerlo alla condizione di un ultimo Romanov, di un ultimo Luigi, il sedicesimo, con il Bonaparte può ripetersi e consolarsi che “gli uomini vengono più facilmente governati attraverso i loro vizi che attraverso le loro virtù”. Ma tutti gli italiani – come lui non avendolo fatto, come lui non potendolo fare – a quelle sbobinature con innegabile voluttà s'attaccano, al triste erotismo che un po' sa di conquista (fosse pure la conquista determinata da una posizione di potere: ciò sempre avviene, pur tra giornalisti e intellettuali e professori, essendo il potere dell'intelletto, a voler abusare di tale parola, potere quanto il potere del denaro) e un po' purtroppo il sospetto di mesta compravendita insinua – e il dubbio s'avanza, e il disamore cresce, e la disistima s'allarga.

    Convinto di aver ben meritato quale governante e di non aver affatto demeritato quale uomo e quale tombeur, le scuse devono certo apparirgli un passo spropositato. Scuse di cosa?, certo ossessivamente si ripeterà. E non le faccia, allora, a consolazione dei moralizzatori o a soddisfazione dei magistrati che lo inseguono o a godimento dei giornali che lo detestano. Lo faccia per se stesso – così che la cosa possa risultare più facile. Lo “gnommero” gaddiano che ormai lo avvolge può essere reciso solo con un colpo secco: né giustificativo né avvocatesco – umano, piuttosto, palese, indiscutibile. Tutto il resto verrà, e probabilmente tutto il resto non gli sarà risparmiato, ma potrà almeno ritrovarsi a respirare più liberamente, non tanto per il filosofico o moralistico sollievo che lo scusarsi (in qualche modo il confessare) comporta, quanto perché, come certi personaggi dei fumetti (un Tiramolla, un Uomo Ragno) potrà esibirsi in un salto che dallo stagno fangoso dove adesso oggettivamente dà l'impressione di annaspare lo innalzi almeno su una collinetta, un montarozzo, una scaletta da imbianchino dove potrebbe tenere i piedi all'asciutto e la testa non perennemente voltata in alto nel tentativo di non affogare.
    Scuse per che cosa?, ancora si ripeterà. Per convenienza, Cav., per convenienza. Pare poco? In politica si fa – sempre con fatica, si capisce, spesso con buona ragione. Probabilmente non tanto ferrato in patristica quanto versato su altri fronti (dove le cose girano, anzi: devono girare), di sicuro lo stesso il Cav. con san Girolamo concorderà, “mentre credi di scusarti ti accusi”, ma messa in libertà almeno per una sera la corte vociante, chino sulla sorte (che molto gli sorrise, e che molto lui fece per farla sorridere), alla dura frontiera delle scuse dovrebbe presentarsi.

    Essendo, del resto, in più valida compagnia di certi procacciatori che dalla sua mano generosa beccavano – e satolli chiacchieravano. Umano, troppo umano – al contrario di ciò che finora di se stesso amava ascoltare, gli toccherà forse dar prova della quasi sovrumana virtù del buon senso e della modestia – che molto di grandioso richiede rispetto all'apparente babilonesca conduzione del suo privato, così che era una donna certo non da bunga bunga ma da posto nella storia, come Golda Meir, a ripetere ai suoi ministri: “Non siate umili, non siete grandi abbastanza”. Se il Cav. arriverà alla decisione di presentare le sue scuse a un paese che certo ama il vizio e che potendo il piacere con la sua assiduità cercherebbe, ma che appare stanco e incredulo, potrebbe ritrovarsi così umile da apparire ancora una volta, fosse l'ultima, grande.

    Non dovrà certo fare come Bill Clinton, che pure per il caso Lewinsky ben diciassette volte pubblicamente si scusò – anche perché, a voler solo tenere le apposite proporzioni, fossero diciassette volte per ogni volta, qui ci vorrebbero una ventina d'anni. Né assumere la retorica di Achille Occhetto, quando chiese scusa a nome del Pds quando esplose il caso Greganti: “Noi ci proponiamo di salire il Calvario di un'autocritica spietata… Chiedo scusa al popolo italiano per quella colpa, ma pretendo anche delle scuse da chi l'ha commessa”. Macché: sia sobrio e sia vero – niente barocchismi, dorature, imbandieramenti, busti romani e librerie poco frequentate alle spalle. Un luogo semplice, uno sguardo vero verso “il paese che amo” (do you remember, il paese che amo?) – e che, per troppo scombinato accatastamento di amore declinato in sbrigativo sesso, oggi osserva perplesso e incredulo – e l'invidia, al di là delle consolazioni di Putin, non è la stessa cosa dell'ammirazione: genera risentimento. Potrebbe dire semplicemente di aver sbagliato, di aver esagerato, di aver male valutato. E essere stato troppo leggero nelle amicizie, troppo accomodante nelle richieste, troppo indifferente ai buoni consigli. Di essersi piegato quaranta volte al giorno – ma non come il giusto, piuttosto come l'errante. Di non aver mai voluto fare del male – né alle persone né al paese, e se involontariamente l'ha fatto, alle persone ferite e al paese stranito chiede scusa. Anni fa uscì un manuale, una di quelle pensate americane che sembrano fatte apposta per essere prese per il culo, ma che pure in una simile contingenza potrebbe funzionare da base di partenza: “L'One Minute Apology. Ovvero l'arte di chiedere scusa in 01 minuto”: magari un minuto non basterà, ce ne vorranno almeno cinque, ma garantito che in meno di un quarto d'ora si può fare. E dopo tutto sarà diverso – o tutto almeno apparirà diverso, al Cav. per primo.

    E magari sorprenderà anche intellettuali che certo non lo amano, come Claudio Magris, che anni fa con un bell'articolo sul Corriere sfotteva la mania delle scuse che stava prendendo piede, “presto ci sentiremo in colpa per l'invasione della Gallia da parte di Giulio Cesare”, ma che iniziava con una felice rievocazione letteraria sulla quale il Cav. potrebbe saggiamente riflettere e che potrebbe convenientemente prendere a prestito. Dunque: “All'inizio dei ‘Tre moschettieri', D'Artagnan chiede scusa per una piccola goffaggine, aggiungendo che un guascone quando ha chiesto scusa ritiene di aver già fatto il doppio del necessario. L'intrepido spadaccino sa che la doverosa capacità di riconoscere i propri torti non è untuoso sentimento di inferiorità, bensì risoluta attitudine a chiudere i conti, pagando se necessario il proprio debito, per poi gettarselo alle spalle, pronto a reagire se qualcuno scambia quel gesto di giustizia per debolezza”. E allora si faccia il Cavaliere spadaccino, moschettiere, guascone. E possibilmente cambi anche i suoi colleghi di guasconate – quella sfilza di personaggi ripetutamente omaggiati come “amici”, e che il suo prestigio, con la loro presenza, sommata alla sua personale imperizia umana, hanno grandemente leso. Tenga a mente, oltre san Girolamo, anche il cardinale Mazzarino – che la fede poco praticava, ma di politica parecchio s'intendeva: “Se sei accaggionato d'un gruppo di accuse; non negar affatto ogni cosa, per non ti far perdere il credito, con quelle negative ostinate” – e infatti tale saggezza nel suo “Epilogo de' dogmi politici” si trova. Ha già chiesto scusa alcune volte, il Cav., e pubblicamente: con dolente riflessione a Veronica, persino a Gheddafi per il colonialismo, a certi convenuti a una riunione per essersi presentato incerottato e malandato. Si capisce, ha ora da dar conto e scuse ben più che per una goffaggine come nel caso di D'Artagnan – piuttosto di un'insensata perseveranza, un irragionevole abbandono, ma la mossa che da lui nessuno s'aspetta è la mossa – l'unica, verrebbe quasi da dire – che gli offra uno spiraglio di luce.

    Il Cav. ce la può fare – e può ancora una volta, fosse l'ultima, sorprendere positivamente chi l'ha politicamente (e persino umanamente) amato, così come chi l'ha politicamente (e persino umanamente) detestato. Non essere più ridotto a una “vita umbratilis”, quale appariva quella del cardinale Manning al suo biografo Lytton Strachey, dietro lo sfarfallìo quotidiano e serale che dalle intercettazioni emerge – così apparentemente allegro, così sostanzialmente deprimente, così politicamente devastante. Scusarsi e mutarsi – se non un teologico mutamento del cuore, almeno di vita terrena. “Non ti persuader mai di trovar fedeltà di segreto in colui, alla presenza del quale tu prorompi in qualche atto licenzioso, o parola scorretta”, dice ancora la saggezza (cinica e utile) di Mazzarino. Risollevare, come possibile e se mai possibile, le sorti del Cav. facendo balenare ancora una volta, fosse l'ultima volta, la faccia e l'espressione del Cav. che fu. Ritornare ad antichi amori – Erasmo (di cui stampò pregevole edizione, all'inizio di tutto) piuttosto che Gianpi, come quando proprio Cupido evocava, “così fa in modo che anche a ciascuno di voi sembri bello ciò che gli è toccato in sorte, che il vecchio ami la sua vecchia, e il ragazzo la sua ragazza”. C'era già tutto. Seguendo una buona follia, a volte si evitano molti disastrosi errori.