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Il lieto fine non c'entra. In un film la vita di Melazzini, medico e malato

Piero Vietti

“Non lo stupido e banale happy end, ma la strana fiamma che brucia sempre dentro ogni difficoltà, ogni contraddizione, ogni dolore”. Se c'è un modo per raccontare la speranza senza retorica, è quello descritto dalle parole di Emmanuel Exitu, regista italiano che da qualche anno si è messo in testa di battere questo sentiero alla faccia del sentimentalismo. Queste parole sulla fiamma che brucia dentro sono note di regia al suo ultimo film, intitolato “Io sono qui”-

    Non lo stupido e banale happy end, ma la strana fiamma che brucia sempre dentro ogni difficoltà, ogni contraddizione, ogni dolore”. Se c'è un modo per raccontare la speranza senza retorica, è quello descritto dalle parole di Emmanuel Exitu, regista italiano che da qualche anno si è messo in testa di battere questo sentiero alla faccia del sentimentalismo (e lo ha fatto bene, cominciando con un documentario sull'Aids in Uganda, premiato da Spike Lee). Queste parole sulla fiamma che brucia dentro sono note di regia al suo ultimo film, intitolato “Io sono qui”, appena uscito in libreria per le edizioni San Paolo. A dire “Io sono qui” è Mario Melazzini, medico di successo che qualche anno fa ha scoperto di essere ammalato di Sla. Dopo avere seriamente pensato al suicidio, ha messo in piedi all'ospedale Niguarda di Milano una delle opere più grandi al mondo per la cura di questa malattia che si scrive “sclerosi laterale amiotrofica” e si legge “muscoli che progressivamente si paralizzano e morte che mediamente avviene in cinque anni”.

    Dalla Sla non si guarisce. Ma si può curare. Exitu è andato a frugare con la telecamera nella vita e nel lavoro di Melazzini, lo ha convinto a farsi riprendere quando, svestito, soffre inserendo il sondino che lo nutre, lo ha guardato negli occhi facendosi accompagnare idealmente sulle montagne che Melazzini amava, e poi odiava quando ha saputo della malattia, e poi ha amato ancora quando ha capito che ci sono, e che sono bellissime. Nella prima scena c'è un signore anziano che va a farsi visitare accompagnato dalla moglie. La Sla gli sta già rubando la parola, che fa fatica a uscire dalla bocca: “Ho letto i suoi libri – biascica – e volevo chiederle…”. Lo interrompe la moglie, che essendo moglie crede di sapere lei che cosa vuole dire lui: “Voleva chiederle come fa a parlare così bene”. “No – dice lui –  Nei suoi libri lei dice di essere felice…”. La risposta “giusta” non arriva, Melazzini non è un guru, un eroe, né un prete, in quel caso svicola un po', ma una risposta arriva guardandolo al lavoro, nella settimana pazzesca raccontata da questo documentario (che esce insieme a un libro autobiografico di Melazzini): nel rapporto con i colleghi, gli infermieri, i malati, nelle visite a casa.

    C'è un episodio che dice tutto: un padre di famiglia disteso sul letto, che riesce a parlare soltanto con gli occhi, grazie a un macchinario elettronico che traduce in parole i movimenti delle pupille. Melazzini si informa sulle difficoltà della famiglia (la Asl non vuole cambiare il respiratore, un infermo a letto non merita tutte queste attenzioni, dicono), poi scherza e chiacchiera con lui. “Da quando sono malato ho sempre le stesse passioni – dice – anzi, di più. Forza Juve!”. Merito anche del modo con cui Melazzini lo tratta e lo guarda. Quando è il momento di uscire – immobile, disteso su una carrozzina – chiede sorridendo alla figlia di mettergli il profumo Dior e l'orologio elegante. E non di staccargli la spina.

    • Piero Vietti
    • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.