Ritratto immaginario (e soprattutto letterario) dell'intercettatore

Stefano Di Michele

Chi tese per primo l'orecchio – e cosa quell'orecchio intese? Dio nell'Eden, c'è chi azzarda (e chi azzarda è il filosofo e musicologo Peter Szendy), fu il primo intercettato, “il primo ascolto umano” – né si monti ora la testa il Cav. con inopportuni paragoni: da Adamo ed Eva, occultati al Suo sguardo, l'orecchio attento dopo il peccato di aver mangiato la mela. Così, nella Bibbia: “Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l'uomo con sua moglie si nascosero al Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino.

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    “Quest'anno il telefono si porta all'italiana, con la cimice!” (Giorgio Manganelli)

    Chi tese per primo l'orecchio – e cosa quell'orecchio intese? Dio nell'Eden, c'è chi azzarda (e chi azzarda è il filosofo e musicologo Peter Szendy), fu il primo intercettato, “il primo ascolto umano” – né si monti ora la testa il Cav. con inopportuni paragoni: da Adamo ed Eva, occultati al Suo sguardo, l'orecchio attento dopo il peccato di aver mangiato la mela. Così, nella Bibbia: “Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l'uomo con sua moglie si nascosero al Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. Ma il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: “Dove sei?” – quindi, non essendoci al momento né procure né giornali né talk show televisivi, se la sbrigarono tra di loro. E se l'Onnipotente fu inteso all'inizio di tutto, l'intercettare voci altrui (sono le voci che compongono o scompongono le altrui vite) è pratica molto umana che lo stesso un senso d'onnipotenza ancora lascia. Come un prete dal fondo di un confessionale, l'Intercettatore ascolta e ascolta e ascolta, e come il prete poco parla (solo a rammento del giudizio di Dio, dell'ignominia masturbatoria e dieci ave e dieci pater da snocciolare, vai e non peccare più, ma torna tanto nuovamente peccherai), l'Intercettatore sempre tace. Mestiere da fare a occhi chiusi – così da vedere ciò che solo s'immagina, così da costruire sostanza visiva intorno al flusso parolaio che gli travasa nella testa. E' un mestiere da cieco, omerico – quello dell'ascolto delle voci da ricondurre alle storie degli uomini. Ora che molte voci corrono, e molte orecchie ascoltano – e una sola bocca e due orecchie, come la saggezza liceale insegnava: parla meno di ciò che ascolti, ma a ben pensarci sono due le bocche che parlano, in una conversazione, e due le orecchie che ascoltano, così che la saggezza in abuso si è mutata – quello dell'Intercettatore è un mestiere che si è fatto di massa, perché poi di massa è diventato il consumo dell'intercettazione stessa, una volta a pochi (un potente, uno sbirro, un fantasma, un cardinale, un apposito ricattatore) destinato. E così da qualche anno, e con giustificata motivazione, un monumento all'ascolto è stato elevato – monumento di pietra, gigantesco e primitivo: una scultura di Henri de Miller, una testa enorme con un enorme mano vicino a un enorme orecchio, “écoute”, a meglio captare, adagiata a terra davanti alla chiesa di Saint-Eustache, a Paris.

    Dove prima dal confessore si andava – per essere appositamente intercettati dall'Altissimo – adesso basta accendere il telefonino, persino aprire la bocca, e il fantasma di Echelon, con quel nome da profeta biblico, forse ti ingoia come la balena di Giona, magari come la balena di Pinocchio, mentre le cronache raccontavano di Enigma, “l'Orecchio Elettronico più avanzato d'Italia (e d'Europa): un cervellone che in pochi metri quadrati di spazio spazza via mezzo secolo di storia delle intercettazioni”, nientemeno situato a Campobasso – che niente uno normalmente riesce a immaginare situato a Campobasso, e invece il ritrovato tecnico varcò Eboli dove Cristo finì i suoi passi. “Per la porta dell'orecchio” – così Amleto e il fantasma s'intendono – la vita ormai passa, e la vita altrui viene consumata, pasto ghiotto e unto e solenne. Ed è l'Intercettatore il gran cuoco che la pietanza apparecchia, di spezie spolvera – come chi colpisce prima due volte colpisce, così chi prima ascolta prima sa. E il sapere – dell'oscuro sapere, del peccaminoso sapere, delle altrui debolezze sapere – è merce da sempre preziosa, adesso preziosissima. Ha una solennità da Innominato, l'Intercettatore, da lago immobile e da acque che possono trascinarti a fondo – un orecchio nel buio che verso di te si tende, e saranno le tue parole gli artigli che ti afferreranno. Perché è pena sempre, e sempre è difficile, spiegare con parole pubbliche parole che dovevano restare private. E così lo spirito un po' goliardico del saluto al presunto Intercettatore nostro – buongiorno, marescia'! – è solo tentativo bambinesco di esorcizzare la paura di essere da altri intesi ma non compresi (escluso il crimine, si capisce: che poi, le frasi che meno hanno bisogno di essere decifrate sono quelle dei criminali, tra l'ordinare un delitto e organizzare un reato, essendo la banalità dei brigante specchio della banalità del loro linguaggio). Ben prima di Echelon, ben prima di ammassi su ammassi negli uffici dei procuratori, è nell'Orecchio di Dionigi che siamo intrappolati – grotta nel siracusano di cui Caravaggio ne prese visione e a orecchio umano paragonò, e racconta Peter Szendy nel suo “Intercettare. Estetica dello spionaggio” (Isbn Edizioni) che “nella sua ‘Musurgia Universalis' il gesuita Athanasius Kircher presenta la mitica grotta di Dionigi il Tiranno come il primo esempio di ciò che egli chiama ‘un'ecotettonica' (vale a dire un'architettura dell'eco), utilizzata con finalità di sorveglianza uditiva”. Sempre – nella storia e nel complotto, più raramente nella giustiza, più spesso nel ricatto – un Grande Orecchio verso le nostre bocche si è chinato. Ma una volta, nella grotta del tiranno bisogna cacciarsi, così che il tiranno non visto potesse ascoltarti; ora dappertutto giunge – nella tua veglia, nel tuo mentire, nel tuo ansimare in faticosi orgasmi. Osserva Marco Filoni nella postfazione al libro di Szendy: “Nella preghiera mi rivolgo a Dio, colui che non vedo ma che mi ascolta senza che io possa ascoltarlo. Dio è il grande orecchio, l'unico ente onnisciente e invisibile che l'uomo abbia mai immaginato. E' proprio per questo che l'idea di origliare, quella di sapere senza essere saputi, di conoscere rimanendo sconosciuti, ha così tanto fascino nell'essere umano. Perché rimanda a Dio: al suo conoscere e ascoltare il mondo, alla sua onniscienza”. E così, se con Dio comincia la storia delle intercettazioni, è Dio stesso a farsi supremo Intercettatore – o noi, più demoniacamente predisposti, a farlo intendere come tale.

    Se le immagini stesse possono ingannare, ancor di più possono fare parole cadute dal buio. Nelle cronache quotidiane è certo roba da questurini (e pure a giusta ragione, avendo il crimine da prevenire e il criminale da colpire) il quotidiano intercettare. Ma pure, il raccogliere voci e solo voci, da una distanza che è come fondo d'abisso, come la galleria che l'animale scava nella “Tana” di Kafka, ma solo se si è un po' santi o un po' pietrosi il nostro privato ci migliora rispetto al nostro pubblico – è cosa che genera apprensione e sorprese inattese. Non tanto nei voluminosi attruppamenti femminili o nelle deprecabili vanterie con personaggi ancor più deprecabili delle vanterie stesse – pur se su quel piatto quotidianamente servito è il nostro sbavare insieme comprensibile e ottuso. A ben altro una voce, una sola voce, può condurre l'Intercettatore stesso. E' faccenda, questa, persino borgesiana – di finzione, di costruzione nell'aria e nel sogno, e appunto in “Finzioni” di Borges c'è un racconto, “Il giardino dei sentieri che si biforcano”, dove una spia, il dottor Yu Tsun, sente al telefono una voce diversa da quella che si aspettava, “... e riappesi il ricevitore. Immediatamente dopo, riconobbi la voce che aveva risposto in tedesco”, e questo scambio porta molto lontano, lontanissimo, a un libro e a un labirinto – e libro e labirinto sono la stessa cosa, e una voce intercettata (per sbaglio ascoltata, per errore scambiata) non spiega come una descrizione e una realtà possono a volte divergere, farsi tutte appunto labirintiche, “pensai a un labirinto di labirinti, a un labirinto sinuoso e crescente che abbracciasse il passato e l'avvenire, e che implicasse in qualche modo anche gli astri”, labirinti di voci come le quotidiane pagine dei giornali – e i sentieri che si biforcano essere entrambi percorsi, e il tuo nemico farsi amico. “Omettere sempre una parola, ricorrere a metafore inette e a perifrasi evidenti, è forse il modo più enfatico di indicarla”. Ciò che è essenziale – a dire del periglio e delle sabbie dove l'Intercettatore può affondare – è ciò che non viene nominato: è l'ignoto il tutto.

    Quelle voci cavate fuori dai letti, dai cessi, dai tinelli – stupide battute, grevi battute, pericolose battute, vagano da un fondo all'altro, e poi alla luce del giorno nell'aria – e come il polline ingravida altri fiori, così quelle voci altre voci generano, voci su voci, groviglio di mezze parole che possono apparecchiare la testa mozza dell'intercettato sul tavolo dove la pubblica opinione è pronta al banchetto. E' nelle dittature che l'ascolto delle vite degli altri è vorace e l'ascolto altrui temuto (“Il nemico vi ascolta!”). Racconta Milan Kundera del suo “L'insostenibile leggerezza dell'essere” di cosa accadde a Jan Prochàzka, un romanziere molto critico con il regime comunista ceco. Questo accadde: “La radio allora (si era nel 1970) cominciò a trasmettere, a puntate, delle conversazioni private che due anni prima (siamo quindi nella primavera del 1968) Prochàzka aveva avuto con un professore universitario (...). Prochàzka divertiva sempre i suoi amici con iperboli ed enormità. Adesso quelle enormità venivano trasmesse a puntate alla radio. La polizia segreta, che aveva realizzato il programma, aveva sottolineato con cura i punti nei quali lo scrittore prendeva in giro i suoi amici, ad esempio Dubcek. La gente non perde occasione di sparlare dei propri amici, ma il loro beneamato Prochàzka li scandalizzò più che non l'odiata polizia segreta” – ché se hanno ombre lunghe i peccati, lunghissime sono quelle dell'Intercettatore: nuotano nei decenni, affiorano dai secoli.

    Non è solo la tecnologia che rovescia informazioni, brandelli indistinti nella testa dell'Intercettatore. Non è solo il tecnico che in una stanza segreta ascolta, non è la registrazione che conferma, non è solo un  processo che verifica. Il farsi d'ombra dell'Intercettatore – farsi spia, nei casi più abietti – è faccenda antica, antichissima. Persino l'esercito sumero di quattromila anni fa si finisce con l'evocare, le spie ben istruite nel manuale di Sun Tzu, Polonio che s'apparta per spiare Amleto, “io, con vostra licenza, mi collocherò in un punto da ascoltar bene il loro colloquio”. Nello scendere e nel precipitare è spia e Intercettatore pure la portinaia fascista che in “Una giornata particolare” tende l'orecchio mussoliniano e allunga l'occhio sospettoso verso l'omosessuale Marcello Mastroianni e la casalinga Sophia Loren – orecchio che ha già per altre vie operato, e al calar della sera gli sbirri arriveranno per dirottare l'innocente verso il confine. E in fondo, quando il regime crolla e quel che resta al guinzaglio hitleriano s'affida, un Intercettatore inconsapevole è anche “Il cuoco di Salò” che canta Francesco De Gregori – vede e registra il dissolvimento finale, “alla sera vedo donne bellissime / da Venezia arrivare fin qua / e salire le scale e frusciare / come mazzi di rose / (...) quante storie potrei raccontare stasera / quindicenni sbranati dalla primavera...”. E' nelle immense dittature – quella nazista, quella stalinista – che una risata finita all'orecchio dell'Intercettatore (là come un dio osceno, vero demone) poteva costare la vita. Non è la passione per le vite degli altri che allora anima l'Intercettatore, piuttosto il gusto per lo squarto, gusto anatomico, sezionatore di morale. Allo stesso modo di un fascismo cadente, le spie nella Repubblica Veneta che stava per consegnarsi a Napoleone – le loro delazioni raccolte e commentate negli stessi duceschi, e a ducesco scorno, da Giovanni Comisso – e uno straordinario Casanova Intercettatore e intercettato, ché sempre il gioco è stato ambiguo e duplice.

    Certo, non tutti i fronti sono uguali –  e l'Intercettatore può persino essere Intercettatore per caso. Come quello che s'incontra in un breve romanzo di Giulio Andreotti – che di intercettazioni deve averne viste e intercettatori deve averne conosciuti – prima che il Millennio cominciasse: “Operazione via Appia”. Un ex seminarista, figlio di poveri contadini, arruolato all'Ufficio censura del ministero della Guerra, e messo ad ascoltare conversazioni riservatissime: il duce, la Petacci, Badoglio, Hitler, prelati vaticani, i Savoia... Ci fu chi avanzò il sospetto che quell'ex seminarista potesse essere Andreotti in persona. Li smentì: “Era un mio vecchio compagno di scuola che trovò poi lavoro facendo l'ascoltatore presso il ministero dell'Interno che controllava le telefonate... La tecnica di allora consentiva un filtro maggiore perché l'ascolto era in cuffia e, con la stenografia, l'intercettazione veniva registrata e poi riscritta. Questo procedimento dava una certa discrezionalità al materiale raccolto”. E  la tecnica ancora rudimentale limitava le possibilità. Adesso un'ombra di Intercettatore, oltre che il sospetto di finire possibile intercettato, sempre ci tenta o ci affianca. I giornali raccontano che sono un centinaio le agenzie di intercettazioni in Italia – e i siti internet sono pieni di pubblicità per la vendita di materiale utile allo scopo: dal piccolo chimico, volendo, al piccolo intercettatore. E si può lavorare per la giustizia – molto i magistrati alle intercettazioni tengono, e spesso sensata la loro richiesta appare. Ma nel rovescio della medaglia – l'abuso, la valanga di parole inutili contro i reati ma bastevoli a sputtanare una persona, il sospetto di troppo materiale che può finire ricattatorio. E infine tutto può sommarsi, come già paventava  Oscar Wilde, che di simili trattamenti fece le spese: “Le spie non servono ai giorni nostri. La loro professione si è esaurita. I giornali fanno il loro lavoro”.

    Ma non si è esaurita, quella professione.
    Anzi, si è ampliata – di sempre più voci di altri siamo affamati. E quell'ammasso gigantesco di parole vaga come un continente alla deriva, un immenso ghiacciaio che pian piano si scioglie e pian piano filtra nelle altrui esistenze. In un bel racconto di John Cheever, “Una radio straordinaria”, una coppia americana, Jim e Irene Westcott, acquista questa radio per il loro salotto – lei “fu subito colpita dalla bruttezza di quella grossa cassa di radica”. L'accendono, sentono strani rumori, cantilene e balli e musiche e liti e parole oscene: la radio, la loro radio, sta trasmettendo intercettazioni delle vite dei vicini, “era la bambinaia degli Sweeney... questi devono essere i Fuller, all'11-E... vedi se riesci a trovare quella gente del 18-C... il signor Osborn sta picchiando sua moglie... la madre della signora Hutchinson sta morendo di cancro in Florida.... una donna che abita in questa casa ha una relazione con l'uomo tuttofare, con quell'orribile uomo... è una prostituta, sì una comune prostituta...”. Le vite degli altri, nelle voci degli altri, possono persino fare paura. “Ma noi non siamo mai stati come loro, vero tesoro?”. Certo che no, certo che sì. Si inizia a litigare. “Ci sentiranno... E chi mai ci può sentire? La radio... E anche se ci sentono chi se ne frega?...”.
    Tutto nell'aria resta – e tutto, prima o poi, a terra può arrivare. Persino all'Intercettatore può succedere di finire intercettato – specchio di se stesso e perso nel labirinto dove credeva di aver fatto smarrire gli altri, come aveva benissimo intuito Borges. E dunque, le splendide immagini finali del più bel film su un Intercettatore: Harry Caul, interpretato da uno strepitoso Gene Hackman in “La conversazione” di Francis Ford Coppola. E' il 1974, proprio mentre Nixon affonda tra i nastri delle sue intercettazioni all'interno della Casa Bianca – Harry è un professionista, uno che le voci degli altri ha sempre ascoltato di nascosto. Sta suonando il sassofono, improvvisamente squilla il telefono. “Noi vi ascolteremo” – e c'è sullo sfondo il suono del suo stesso sax. Da cacciatore a preda. Harry comincia a cercare sempre più freneticamente la microspia, smonta interamente la casa –  il pavimento, la carta da parati, i muri. Resta solo una desolazione di rovine – niente, forse niente c'è da scoprire. Intercettato, non sa come né perché né da chi. Passato dall'altra parte dello specchio. Riprende a suonare il sax, l'unico oggetto ancora non devastato nella sua casa ridotta a tana – e nella sua vita. E alla fine – da una voce  sempre più indecifrabile all'altra, magari sarà Dio stesso a ritrovarsi intercettato. Come nella Bibbia, come all'inizio di tutto – il Grande Intercettatore stanco oltrepassa rassegnato anche Lui lo specchio. E chissà se sa suonare il sax.