Le alternative dell'alternativa

Claudio Cerasa

In questi giorni è successo qualcosa di clamoroso nel Partito democratico. Qualcosa che fino a qualche mese fa, ai tempi dei successi elettorali e dei trionfi referendari, era semplicemente impossibile da prendere anche solo in considerazione. E' successo che il principale partito dell'opposizione, per la prima volta dall'elezione del suo segretario, si è posto ad alta voce una domanda che da tempo viveva sottotraccia nel mondo del Pd e che non era ancora stata esposta pubblicamente con così tanta chiarezza da un fronte così ampio di dirigenti del partito.

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    In questi giorni è successo qualcosa di clamoroso nel Partito democratico. Qualcosa che fino a qualche mese fa, ai tempi dei successi elettorali e dei trionfi referendari, era semplicemente impossibile da prendere anche solo in considerazione. E' successo che il principale partito dell'opposizione, per la prima volta dall'elezione del suo segretario, si è posto ad alta voce una domanda che da tempo viveva sottotraccia nel mondo del Pd e che non era ancora stata esposta pubblicamente con così tanta chiarezza da un fronte così ampio di dirigenti del partito. La domanda è questa ed è una domanda molto semplice: ma davvero Pier Luigi Bersani è l'uomo giusto per strappare al centrodestra la guida di questo paese? Fino a qualche tempo fa, per rispondere al quesito, molti dirigenti del Partito democratico erano soliti fare un ragionamento di questo tipo, utilizzando la famosa metafora del bob impazzito: “Le ultime amministrative – era il ragionamento – ci hanno dato una spinta così violenta verso il traguardo delle elezioni che il solo immaginare di alzare un ditino per analizzare lo stile di guida del nostro bob avrebbe avuto l'effetto di far rallentare la corsa, di farci sbilanciare pericolosamente o, peggio, di far precipitare il nostro slittino fuori dalla pista”. Oggi, invece, oggi che lo slittino del Pd ha raggiunto una velocità di crociera inferiore rispetto a quella che aveva guadagnato durante la scorsa primavera, succede che tra i componenti dell'equipaggio democratico c'è meno timidezza, e meno paura, ad alzare il famoso ditino interrogativo. E di ditino in ditino, alla fine il risultato è che in questo momento non è più scontato che alle prossime elezioni il candidato con cui il Pd proverà a tagliare il traguardo delle elezioni prima del centrodestra sia l'attuale segretario del partito.

    Tutto nasce la scorsa settimana da una timida richiesta arrivata da alcuni parlamentari veltroniani del partito che, sfidando l'agenda politica del momento densa di argomenti ben più importanti delle semplici primarie di un partito, hanno fatto un ragionamento elementare: hanno riconosciuto che per varie ragioni sarà difficile che nel 2012 si svolgeranno le elezioni (soprattutto, dicono dal Pd, perché è impensabile, nelle condizioni in cui si trova il nostro paese, lasciare per più di sessanta giorni l'Italia senza un governo capace di occuparsi non solo dell'ordinaria amministrazione) e hanno ammesso che in vista dell'appuntamento del 2013 è importante che il Pd si presenti alle urne con un segretario nuovamente legittimato dai propri elettori.

    Si dirà: e di strano che c'è? C'è che questa proposta, apparentemente innocua, qualora dovesse essere sposata dalla maggioranza del partito avrebbe l'effetto di mettere in discussione un articolo dello statuto del Pd, uno dei più importanti, il numero diciotto: “Qualora il Partito democratico aderisca a primarie di coalizione per la carica di presidente del Consiglio dei ministri è ammessa, tra gli iscritti del Partito democratico, la sola candidatura del segretario nazionale”. Detto in altre parole, dato che Pier Luigi Bersani è stato eletto nell'ottobre del 2009, dato che il suo mandato ha una durata di quattro anni e dato che le future elezioni (salvo sorprese) cadranno nella primavera 2013, Bersani avrebbe di fatto il diritto di considerarsi già da oggi il candidato naturale del Pd alle prossime politiche. Ebbene, la novità è proprio qui: da oggi questa sicurezza Bersani non ce l'ha più. Lo hanno ricordato i tre parlamentari veltroniani che hanno chiacchierato con il Foglio su questo tema la scorsa settimana (Stefano Ceccanti, Salvatore Vassallo, Giorgio Tonini), chiedendo al segretario di valutare con attenzione l'ipotesi di anticipare il congresso al 2012 per dare nuova linfa alla leadership del Pd (ipotesi però al momento non sostenuta dal leader della minoranza Walter Veltroni); e lo hanno poi chiesto nei giorni successivi anche ambienti vicini alla segreteria del Pd: prima l'Unità (con il direttore Claudio Sardo che ha affidato a Francesco Cundari un editoriale per appoggiare la richiesta “tanto ragionevole da apparire scontata” di nuove primarie per ri-legittimare la leadership del Pd prima delle elezioni del 2013” e di “una nuova, solenne investitura popolare, prima dell'appuntamento elettorale decisivo”) e poi persino Matteo Orfini (responsabile Cultura del Pd, braccio destro di D'Alema, tra i volti più in ascesa all'interno della segreteria di Bersani), che intervenendo nel corso di una trasmissione radiofonica ha ammesso che “se le elezioni dovessero essere nel 2013 a quel punto si potrebbe decidere davvero di fare un nuovo congresso”.

    “Era ragionevole che le cose alla fine prendessero questa piega – dice con un sorriso Stefano Ceccanti, senatore del Pd, il primo a suggerire lunedì scorso su Europa l'ipotesi di celebrare un congresso prima delle prossime elezioni – e ora sarà interessante vedere chi è che nel Pd sfrutterà l'occasione per giocarsi la sua partita, e provare a conquistare la guida del partito e della coalizione di governo. Perché, e Bersani questo lo sa, se davvero ci sarà un nuovo congresso saranno numerosi i volti del Pd che proveranno a sfidare il segretario”.

    Il dettaglio che però sembra essere sfuggito a molti osservatori di cose democratiche è che il tipo di primarie suggerito anche dagli ambienti non veltroniani del partito prevede uno scenario che rischia di creare il finimondo tra i possibili alleati del Pd. La proposta, che pur arrivando come detto da ambienti non veltroniani è più veltroniana della più veltroniana delle idee veltroniane, è stata sintetizzata sia dall'Unità, prima, e sia da Orfini, in un secondo momento, con un ragionamento di questo tipo, che solo apparentemente è una noiosa argomentazione giocata sul filo del diritto statuario: “Facciamo le primarie per rilegittimare la leadership del Pd ma una volta fatte quelle primarie sarebbe ridicolo fare anche delle primarie di coalizione, convocando magari per due volte milioni e milioni di elettori. Per questo, quando faremo le nostre primarie, il nostro segretario sarà anche il candidato leader della coalizione di centrosinistra. E i nostri alleati, come succede in tutti i paesi del mondo in cui vi sono le primarie, se vorranno allearsi con noi dovranno accettare che il candidato premier del centrosinistra è il candidato del partito più grande. Punto”.

    Ragionamento che nei delicatissimi equilibri interni del centrosinistra prevede due corollari importanti, e niente affatto scontati. Il primo corollario è che tutti coloro che come Matteo Renzi o come Sergio Chiamparino hanno già ammesso di voler partecipare alle primarie per la premiership non saranno costretti a uscire dal Pd per tentare l'avventura (come invece avevano suggerito sia Rosy Bindi, presidente del Pd, sia Nico Stumpo, responsabile organizzazione del Pd). Il secondo corollario è invece quello che rischia di far discutere di più gli alleati del Partito democratico e di far scolorire la famosa photo opportunity di Vasto (Vendola+Di Pietro+Bersani). Perché se fino a questo momento nessuno nel Pd aveva messo in discussione le primarie di coalizione oggi, invece, il Pd sta valutando l'ipotesi di fare a meno di quelle primarie; il che significa che se questa ipotesi dovesse andare in porto Antonio Di Pietro e Nichi Vendola per candidarsi alle prossime elezioni avrebbero tre possibilità: presentarsi con i propri partiti di riferimento, dar vita a una federazione delle sinistre con un proprio candidato premier (come d'altronde sta succedendo a Palermo in vista delle elezioni comunali del 2012, dove Idv, Sel e le federazione delle sinistre presenteranno un loro candidato che andrà a scontrarsi con il candidato del Pd) o realizzare il sogno dei più romantici degli apostoli della vocazione maggioritaria: sciogliere il proprio partito ed entrare nel Pd per contendersi la premiership.

    Solo fantapolitica? Stavolta pare di no. “E' così – dice con un sorriso Giorgio Tonini – ed è incredibile ma stavolta sono i dalemiani e i bersaniani che sembrano essere diventati improvvisamente veltroniani a loro insaputa! Certo, è vero, capisco che in questo momento vi sono in giro argomenti più importanti di cui parlare (e ovviamente per il Pd la priorità è quella di provare in tutti i modi ad accelerare la fine del berlusconismo). Ma se, come sembra, le elezioni verranno celebrate al termine della durata di questa legislatura, e se, come sembra, Berlusconi non farà quel passo indietro che ormai gli chiedono praticamente tutti in Italia, è importante per noi non sbagliare un colpo e impegnarci seriamente per non far ripiombare il nostro partito nello stesso incubo in cui si ritrovò quasi vent'anni fa la gioiosa macchina da guerra occhettiana. Perché è inutile girarci attorno: i rischi che tra due anni il nostro partito si ritrovi nelle stesse condizioni in cui si ritrovò Occhetto con il suo Pds nel 1994 esistono davvero”.

    Eh già, la macchina occhettiana. E' ormai da un po' di tempo che nel maggior partito d'opposizione capita di raccogliere spesso voci di dirigenti pronti a confermarti che più si va avanti con il tempo e più sembra di rivivere lo stesso clima vissuto dal centrosinistra a metà degli anni Novanta. La crisi economica. La speculazione finanziaria. Le Borse impazzite. Le banche in crisi. Le manovre criticate. Le ammonizioni dall'Europa. La disoccupazione giovanile. E poi il ritorno del Mattarellum, le pulsioni anti casta, il clima da occhio alle monetine, la particolarissima attenzione dei magistrati per il mondo della politica e soprattutto, poi, quella convinzione maturata nel mondo del centrosinistra di avere in tasca la combinazione giusta per aprire in un battibaleno la serratura di Palazzo Chigi. “E' evidente – dice Alessandro Maran, vicecapogruppo alla Camera del Pd, esponente della minoranza del Pd – oggi vi sono un numero incredibile di similitudini con il contesto politico degli anni Novanta. Ma la similitudine che più dovrebbe farci riflettere è che, così come allora, le elezioni politiche arrivano non molti mesi dopo un formidabile successo del centrosinistra alle elezioni amministrative. All'epoca, quando le sinistre ottennero un'importante affermazione alle comunali del 1993, la fase politica che ci condusse al disastro del 1994, quando a vincere le elezioni fu Silvio Berlusconi, venne gestita con molta sufficienza e molta miopia. E oggi sarebbe una bugia non ammettere che nel Pd più passa il tempo e più aumenta la paura che chi guida il nostro partito ripeta gli errori commessi in quell'occasione. E in questo senso discutere di primarie e di leadership è anche un modo per ridurre al massimo il margine di errore in vista della data delle urne. Perché discutere di primarie e di leadership significa anche discutere del programma del partito e oggi bisogna dire che ragionare su quest'argomento è diventato più necessario che mai. Sono convinto – conclude Maran – che alle prossime elezioni il centrosinistra può aprire davvero un ciclo e la sola idea che ci possa essere una persona alla guida della nostra coalizione che non gode della fiducia degli elettori dovrebbe farci tremare le gambe, a tutti noi”.

    In effetti, le richieste di anticipare il congresso (e quando leggete sui giornali l'espressione “anticipare il congresso” toglietevi dalla testa l'immagine di rocciose e interminabili riunioni di partito; perché fare il congresso nel Pd significa semplicemente fare le primarie) nascono anche dalla consapevolezza che la traiettoria imboccata dal partito, dopo i successi della scorsa primavera, potrebbe non essere più quella giusta. E per questo quando Rosy Bindi sostiene che “dietro la richiesta delle primarie in realtà vi è il tentativo di qualcuno di mettere in discussione la segreteria” (intervista all'Unità di lunedì scorso) è difficile dire che il presidente del Pd abbia tutti i torti. E così un po' per la poco apprezzata gestione del caso giudiziario che ha coinvolto Filippo Penati; un po' per i numeri poco incoraggianti registrati dagli ultimi sondaggi (il Pdl è in calo ma anche il Pd non riesce a sfondare come sarebbe lecito aspettarsi); un po' per il timore che il Nuovo Ulivo altro non sia che una versione riadattata della vecchia Unione; un po' per la richiesta continua di un segnale forte in materia di ricambio generazionale che arriva dalla base del Pd; e un po' per la sempre maggiore distanza percepita con quello che doveva essere il grande alleato con cui Bersani avrebbe dovuto costruire la sua grande alternativa al centrodestra (Pier Ferdinando Casini, “l'escort della politica” secondo la più recente definizione di uno degli alleati del Pd, Antonio Di Pietro); ecco, un po' per tutto questo non è difficile incontrare autorevoli esponenti del Pd pronti a confessarti di avere una paura matta di una cosa: ritrovarsi nelle stesse condizioni di quei dirigenti descritti vent'anni fa da Edmondo Berselli in uno dei suoi libri più fortunati, “PostItaliani”, quando “improvvisamente i candidati della sinistra, dopo Tangentopoli dopo le manette e dopo tutto, raccontavano sconsolati che visitando i supermercati per fare la campagna elettorale ‘fra la ggente' si trovavano davanti a frotte di operai in fila alla cassa i quali, al vederli passare, fischiettavano belli ironici l'arietta dell'inno di Forza Italia, con effetti molto depressivi per gli uomini della gioiosa macchina da guerra”.

    In questo contesto vi è poi anche un'altra questione di cui si discute da qualche mese nel Partito democratico. Una questione molto delicata che riguarda un ragionamento – non ancora un progetto – su cui riflette da mesi un gran numero di esponenti legati alla minoranza del partito: uscire dal Pd per rimodernizzare il Pd e far rivivere lo spirito riformista del centrosinistra non dall'interno ma dall'esterno del partito. “E' uno scenario di cui si discute da tempo – ammette Giorgio Tonini – ed è uno scenario che personalmente non condivido ma che so che viene valutato da alcuni esponenti del partito che non hanno mai apprezzato l'idea che per statuto le idee innovative debbano vivere lontano dal nostro partito. E' evidente che celebrando un congresso, e riaprendo insomma la partita prima delle prossime elezioni, le tentazioni centrifughe verrebbero contenute; ma è altrettanto evidente che qualora la dirigenza del Pd dovesse negare questa possibilità allora le tentazioni centrifughe verrebbero contenute più faticosamente”.

    Come Tonini la pensa anche un altro esponente della minoranza democratica, Walter Verini. Verini conferma che nel Pd ci sono state diverse persone che hanno riflettuto sull'ipotesi di allontanarsi dal partito ma allo stesso tempo il deputato dem (già portavoce di Veltroni ai tempi del Campidoglio) è critico di fronte a chi incoraggia la voglia di fuga dal Pd. “Si tratta – dice Verini – di un atteggiamento sbagliato, e al contrario ritengo importante impegnarsi nel partito perché il Pd esprima posizioni riformiste e coraggiosamente innovative. In questo senso, considero gravi perdite per il Pd l'abbandono da parte di alcune personalità. Senza i Nicola Rossi, personalità innovativa e coraggiosa, per esempio, il Pd è senz'altro più povero. Naturalmente, è necessario che nel partito ci sia grande spazio per esprimere e affermare idee non conservatrici, facendo sentire a casa propria chi le sostiene, cosa che non sempre succede. Se non si fa questo, o se per esempio si arriva a considerare certi poteri forti come il gruppo Repubblica o certi banchieri come Profumo come degli avversari di un'alternativa guidata dal Pd (quando invece, tempo fa, un autorevole rappresentante di quel gruppo chiedeva – metaforicamente ma non tanto –- la tessera numero uno del partito e quando quello stesso banchiere faceva la fila ai gazebo per le primarie del Pd), rischiamo la ridotta difensiva su vecchie certezze e vecchie culture che appartengono al passato, come ormai tutti riconoscono. Ed è per questo – dice Verini – che credo sia necessario fare di tutto perché personalità che insieme a milioni di cittadini avevano creduto nel Pd possano tornare a farlo, come un tempo”.

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    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.