Ritorno al futuro?
E' sufficiente la provenienza del nome per dare alla sua storia quel connotato tipicamente americano, pieno sapore di consapevolezza che solo oltreoceano le leggende possono nascere così, con un pizzico di lucida follia. Kobe, come la qualità di carne bovina mangiata dai genitori poche ore prima del parto. Bryant, come il padre Jellybean, stella del campionato italiano per sette stagioni consecutive consumatesi tra Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e l'altra città reggina, quella di sponda emiliana.
E' sufficiente la provenienza del nome per dare alla sua storia quel connotato tipicamente americano, pieno sapore di consapevolezza che solo oltreoceano le leggende possono nascere così, con un pizzico di lucida follia. Kobe, come la qualità di carne bovina mangiata dai genitori poche ore prima del parto. Bryant, come il padre Jellybean, stella del campionato italiano per sette stagioni consecutive consumatesi tra Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e l'altra città reggina, quella di sponda emiliana.
Nato a Philadelphia, gli orizzonti del piccole Kobe Bryant diventano ben presto quelli offerti dalle colline italiane, teatro per lunghi anni di giornate che si alternano tra scuola e allenamenti del padre, sempre un'ottima occasione per qualche tiro durante le pause. Compiti e studio il giusto, poichè ogni qual volta che Jellybean detto Joe ritorna dall'America, porta con sè uno scatolone colmo di videocassette che Kobe divora, volta dopo volta, fino ad assimilare le caratteristiche dei grandi giocatori del passato, per farsi titolare di uno stile personalissimo quanto irripetibile.
All'età di 10 anni, come per ogni ragazzino italiano che si rispetti, le strade sportive che si aprono davanti a lui portano inevitabilmente al calcio. Nessuna sorpresa dunque quando Bryant, durante un tour promozionale lo scorso anno, indossa una maglia del Barcellona FC per qualche rigore senza sfigurare affatto e subito dopo inizia a fremere di desiderio, come un adolescente qualsiasi, per una maglietta autografata da Materazzi. Paradossalmente, il basket è la prima passione ma non il primo talento, almeno all'epoca. Se nel calcio, abbandonato prematuramente a suo tempo, Kobe si è mostrato fin da subito molto più che capace, non si può affermare lo stesso per la palla a spicchi. Uno strano preludio, questo curioso gioco del destino, che sembra legare con un filo invisibile alcuni dei grandi talenti del gioco, uno su tutti Micheal Jordan, al tempo del liceo non ritenuto abbastanza forte da essere incluso tra le riserve della squadra scolastica.
Negli anni immediatamente precedenti l'High School a Philadelphia, Bryant passa da mascotte del pubblico di Reggio Emilia – che intrattiene durante i time-out con palleggi e tiri che a malapena riescono ad accarezzare la retina – a riserva di una squadra di provincia dove il coach di turno gli preferisce un certo Morani, relegandolo così al ruolo di porta borracce del quintetto base. I mesi si scavalcano l'un l'altro senza tregua, e Bryant riapproda – questa volta definitivamente – in terra americana per gli studi liceali, e nel frattempo muscoli, centimetri e talento hanno già cominciato a bussare alle porte di un destino che lo condurrà, all'età di 17 anni, al titolo di miglior liceale d'America. Ad attirare l'attenzione di agenti e scout professionisti è però una caratteristica che esula dall'aspetto prettamente cestistico e travalica i confini di una mente a suo modo artistica. La malizia mista ad un fondo di superba arroganza con la quale Kobe affronta le partite, ha dell'incredibile: conscio del proprio bagaglio tecnico e fisico, sviluppa un attitudine smisurata al senso del dramma che tende a persistere ancora oggi, lasciando scappare gli avversari e concedendo vantaggi enormi salvo poi ricucire, ovviamente in solitaria ed in extremis, tutto il differenziale necessario per aggiudicarsi l'incontro rivestendo i panni dell'eroe.
E non poteva essere altrimenti, per un ragazzo di 17 anni che decide già di essere maturo ed eleggibile per il draft Nba. Quella che al giorno d'oggi era diventata una pratica di uso comune, prima che arrivasse una legge a negarlo, ai tempi di Bryant equivaleva ad un triplo salto mortale nel vuoto. Nel 1996, Kobe Bryant decide infatti di non passare neppure un anno al college e si candida al draft Nba, la lotteria che le franchigie utilizzano ogni anno per mettere mano sui giovani prospetti in uscita dalle università o, in questo caso, dal liceo. Scelto come 13esimo giocatore assoluto, viene ceduto ai Los Angeles Lakers, la squadra che ancora oggi ne detiene i diritti. Dopo due stagione iniziali nelle quali, se Dio vuole, dimostra di essere umano e quindi ancora molto acerbo per una realtà dura e cinica come quella Nba, per Bryant onori e glorie non si fanno attendere più del dovuto: nel 1997, la sua seconda stagione, Kobe diventa il giocatore più giovane di sempre a partecipare ad un All-Star Game, la partita delle stelle che vede sfidarsi sul campo i migliori giocatori dell'Nba, e quindi del mondo. Nel 2000, sotto la guida di coach Phil Jackson (il vero guru della pallacanestro contemporanea), accade l'impensabile: il talento di Kobe viene incanalato sulla giusta frequenza, grazie ai consigli dell'allenatore e a un supporting cast di altissimo livello; i risultati infatti, non tardano ad arrivare. Nel 2000, 2001 e 2002, i Lakers guidati da Kobe Bryant approdano alle finali aggiudicandosele 3 volte su 3, e consacrando definitivamente la sua immagine al mito.
Ma è proprio nel momento del maggior successo, come spesso accade, che su di lui si abbatte la bufera. Bryant, a differenza di molti suoi colleghi, non è stato educato secondo le regole della strada e della sopravvivenza forzata come alternativa alla miseria più nera; parla fluentemente tre lingue e dispone di una cultura invidiabile, oltre che di un savoir faire indispensabile per districarsi tra il lusso e la celebrità. Il 4 luglio 2003, quando Kobe Bryant è semplicemente il personaggio sportivo più popolare d'America, viene arrestato sotto gli occhi di una nazione incredula. Una diciannovenne dipendente dell'Hotel Cordillera in Colorado, lo accusa di averla attirata in camera sua con una scusa ed in seguito violentata. Bryant, negò lo stupro ma parlò di un rapporto sessuale voluto da entrambi. Dietro cauzione di 25mila dollari, Bryant viene rilasciato dalla struttura carceraria, ma partono immediatamente le udienze, che si concluderanno l'anno seguente con il ritiro delle accuse da parte dei legali della ragazza, che optarono tuttavia per continuare una causa civile. Nonostante le accuse si dissimularono in un nulla di fatto, l'immagine di Bryant subì un gravissimo danneggiamento, tanto da indurre molti sponsor che intrattenevano con lui rapporti commerciali di enorme entità (tra tutti Nutella e Adidas), a non rinnovargli l'accordo.
Dal 2004 al 2007, Bryant è in attesa di qualcosa che non arriva.
La squadra perde partite su partite, nonostante alcune prestazioni epocali come gli 81 punti di Kobe rifilati ai Toronto Raptors, record nella storia Nba, dietro soltanto agli inarrivabili 100 di Wilt Chamberlain. Nel 2008 viene nominato Mvp, miglior giocatore della stagione regolare, e in contemporanea col premio personale la squadra raggiunge le finali, che poi perderà in malo modo contro i rivali di sempre, i Boston Celtics. La forma di Bryant però non lascia nulla al caso; gli anni di maniacale lavoro in palestra e sala pesi, uniti ad una mente che più perfezionista sul controllo del gesto tecnico non si può, cominciano a ridare i frutti sperati, quando nel 2009 e 2010, porta i suoi Los Angeles Lakers alle finali e ne esce, questa volta, vittorioso entrambe le volte.
Che sia pronto, a stagione momentaneamente ferma (ma inevitabilmente destinata ad una celere ripresa), un ritorno in Italia del Black Mamba (questo il suo soprannome, che trae libera ispirazione da uno dei serpenti più letali al mondo)? Le richieste del numero 24 sono molto onerose, ma secondo indiscrezioni dell'ultim'ora pubblicata sulla stampa reggina, Bryant starebbe cercando casa a Montecavolo, paesino nel comune di Quattro Castella, Reggio Emilia, dove abitò già nella sua infanzia.
La scelta più probabile, qualora il sogno divenisse realtà, potrebbe essere la tenuta Casa Matilde, una villa d'epoca immersa nelle colline emiliane.
Il Foglio sportivo - in corpore sano