Fine del proibizionismo
Dialogo tra una femminista furiosa e una spettatrice di buon senso. “Boicottate la serie tv ‘The Playboy Club'” intima Gloria Steinem, che nel 1963 grazie alle conigliette di Playboy ebbe il suo primo quarto d'ora di celebrità. Dopo una ricerca sul campo condotta in pagliaccetto con batuffolo sul fondoschiena, pubblicò su Show Magazine un articolo intitolato “I Was a Playboy Bunny”. “Sto già boicottando tante di quelle serie tv che non ho proprio il tempo di boicottarne altre” risponde Nora Ephron su Newsweek.
Dialogo tra una femminista furiosa e una spettatrice di buon senso. “Boicottate la serie tv ‘The Playboy Club'” intima Gloria Steinem, che nel 1963 grazie alle conigliette di Playboy ebbe il suo primo quarto d'ora di celebrità. Dopo una ricerca sul campo condotta in pagliaccetto con batuffolo sul fondoschiena, pubblicò su Show Magazine un articolo intitolato “I Was a Playboy Bunny”. “Sto già boicottando tante di quelle serie tv che non ho proprio il tempo di boicottarne altre” risponde Nora Ephron su Newsweek (se una ha scritto le battute di “Harry, ti presento Sally…” anche dopo anni conserva abbastanza anticorpi per non prendere sul serio chi si prende sul serio).
Già, perché oltre alla serie sulle conigliette di Hugh Hefner dovremmo boicottare anche la serie “Pan Am” con le hostess in divisa azzurra, bustina in testa, un detector per i passeggeri non accompagnati. Mettiamoci anche “Mad Men”, dove le macchine per scrivere erano “così semplici che anche una donna le può usare” (e le hostess in calze di nylon e giarrettiere venivano rimorchiate da Don Draper in trasferta, mentre il collega Sal preferiva il ragazzo dell'ascensore). E magari “Revolutionary Road” di Sam Mendes dove la segretaria e il capo tornavano tardissimo dal pranzo preceduto da un paio di cocktail Martini (lei con i vestiti in disordine). Guai a farsi venire le nostalgie per un mondo che sarà stato anche sessista, pieno di casalinghe disperate, di maschi sciovinisti e di ragazze a caccia di un buon partito, ma sugli schermi della tv e del cinema fa la sua figura. Certi tailleur avvitati, certi abiti da sera, certi stampati da pomeriggio e le guêpière corazzate sono donanti come i corsetti addosso alle eroine di Jane Austen o delle sorelle Brontë, ora in gran spolvero.
Meglio senz'altro le hostess e le conigliette, comunque, dei reggiseni sventolati come bandiera femminista da Isabella Ferrari nello spot Yamamay (dirige Paolo Sorrentino, mentre Francesco Alberoni risponde alla posta del cuore della ditta e liricheggiando celebra il baco da seta). Non urtano solo le dichiarazioni dell'attrice, che nel transito dalla Selvaggia di “Sapore di mare” alla ricca e annoiata signora che in “Caos calmo” offre le sue grazie a Nanni Moretti si sente miracolata e maturata, quindi ogni sei mesi coglie l'occasione per ribadire che non usa silicone né botulino (solo un bravo direttore della fotografia: le attrici della vecchia Hollywood sapevano benissimo che era più donante del truccatore). Urta la stanza da letto in penombra con cassettone finto antico e la piscina dove un altro reggiseno imbottito galleggia nella notte: servirebbe un Gozzano redivivo per rendere giustizia alle piccole cose di pessimo gusto.
Meglio una curva ben disegnata, riflessa nel vetro di un grattacielo, di una mano che fruga tra i reggiseni riposti come negli scaffali del negozio (Sorrentino ha mai frugato nel cassetto della biancheria di una donna vera? Evidentemente no). L'ambientazione anni Sessanta ha il merito di aver valorizzato la silhouette a clessidra di Christina Hendricks, gli stilisti da soli non ci sarebbero mai riusciti, a dispetto dei proclami anti anoressia. Meglio la rossa Joan, che guarda gli uomini in faccia mentre loro non le staccano gli occhi dalle tette, dell'impegno di Francesca Archibugi, che su commissione di una ditta di saponette gira un filmino per “diffondere un messaggio basato sulla bellezza autentica e non sugli stereotipi”. Bei tempi quando la Unilever per farsi pubblicità dava il via a mitiche soap opera come “The Guiding Light” (da noi “Sentieri”). Va notato che solo in Italia la multinazionale sceglie come mezzo di promozione le registe artiste. Per conquistare le consumatrici cinesi, beate loro, sta pensando a una versione di “Ugly Betty”, Betty la cozza: le bruttine esistono in ogni luogo ma ogni bruttina lo è a modo suo.
Nora Ephron non ha più tempo per boicottare alcunché. Neanche immagina come siamo messe noi, alla periferia dell'impero, costrette all'indignazione dalle suffragette di “se non ora quando?”, o di chi ne fa le veci. Già Natalia Aspesi, anni fa, metteva in guardia dal maschio femminista (“su le mutande, e scappa” era il consiglio, quando l'orrenda categoria si incontrava in privato e non ai dibattiti televisivi). Fate conto, il modello Gad Lerner: non perde occasione per indignarsi, per aderire, per denunciare, per stigmatizzare, per aizzare, ma quando capita che tre donne si danno sulla voce (come fan sempre i maschi, anche all'“Infedele”) pronuncia subito la parola “pollaio”.
Un giorno dovremmo far festa perché Manuela Arcuri custodisce gelosamente la propria virtù (“la nostra Anna Magnani, la nostra Mamma Roma”, scrisse Francesco Merlo in un impeto di gioia antiberlusconiana, scordandosi che Mamma Roma era una prostituta, sia pure desiderosa di dare un taglio alla vitaccia). Il giorno dopo dovremmo abbatterci perché la strombazzata virtù cercava soltanto un miglior offerente, munito di garanzie, astenersi perditempo. Un giorno dobbiamo rendere omaggio a Michela Marzano perché fa con successo la filosofa nel paese di Cartesio e si batte da sempre contro lo sfruttamento del corpo della donna. Il giorno dopo dovremmo apprezzare la sua confessione a cuore aperto – “Volevo essere una farfalla”, Mondadori – dove racconta il combattimento con il cibo, l'uomo che le ha spezzato il cuore, l'occhio del genitore che la pretendeva perfetta. Tutto più che rispettabile, e certamente penoso: ma sempre nel filone “il personale è politico”, che tanti danni ha fatto e tanti ne farà.
La mano scivola sulla pistola ogni volta che viene pronunciata la parola sorellanza, e per antidoto pensiamo alla poesia di Kipling, maschio bianco e morto, nonché colonizzatore in missione per conto di Dio (o della civiltà occidentale). Intitolata “The Female of The Species”, ha per ritornello “Deadlier Than The Man”: la femmina della specie è più feroce del maschio. Non ne possiamo più delle faccende personali spiattellate sulle pagine di romanzo, in nome e per conto di Virginia Woolf che strapazzava le serve e un grande scrittore come James Joyce. La sola idea che stia per uscire un nuovo libro di Elena Ferrante, per fare un esempio, dà un brivido. Per quel che toccherà leggere, e per quel che scriverà “il circolo del cucito”: braccia rubate al punto croce e prestate alla critica letteraria.
Modello insuperato di femmina vittoriosa e trionfante (tanto vittoriosa e trionfante che in coda di romanzo viene sfigurata dal vaiolo, per non turbare i lettori; le lettrici capiscono subito e saltano le pagine) la Marquise de Merteuil si allenava a sorridere tenendo in pugno una manciata di chiodi. Non si pretende tanto – anche se Choderlos de Laclos era un ufficiale, e dalla guerra semplice alla guerra dei sessi ci vuole un attimo. Ma un po' di astuzie da film americani anni Cinquanta si potrebbero pure imparare, se ancora snobbate la tv. Guardandoli imparammo (nell'età in cui nulla si dimentica) che passata la soglia dei quaranta, tra maschi e femmine coetanei corrono venti anni di differenza (avrete anche voi un amico che a venticinque anni stava con una di venticinque, e adesso che ne ha cinquanta sta con una di trenta). E che girala, voltala, negala, rimuovila come ti pare, ma un maschio – qualunque maschio, per quanto impresentabile – agli occhi di una femmina ha il suo irresistibile valore (per questo alle cene tra donne sembriamo tutte Bridget Jones con i mutandoni, mentre per le cene miste mettiamo in gran disordine il cassetto della biancheria). Lo abbiamo imparato da una scena in cui Marilyn Monroe vede qualche giovanotto alla tavola calda e urla alle amiche “Maschi!”, con gli occhi che fan scintille.
Era nel film “Come sposare un milionario”. E visto che siamo in tema, e giacché far commercio di sé non è vietato e potrebbe perfino dar soddisfazione (la nostra saggia mamma disse, di una ragazza generosa di sé: “Dà via solo del suo”), fate in modo però che siano miliardari per davvero. O che in cambio vi venga in tasca qualcosa di cospicuo (pellicce, diamanti a Natale, pomeriggi liberi, molta servitù, a vostra scelta). Ogni volta che leggiamo sui giornali “professore universitario ricatta studentesse, esami in cambio di sesso”, viene un cattivo pensiero. Ma una non farebbe prima a studiare? Quando poi il professore si discolpa dicendo “erano consenzienti”, ci chiediamo come mai il sessantenne con pancetta non ha mai un dubbio quando una ventenne carina gli si struscia addosso (Nora Ephron confessa di aver gioito quando la venticinquenne morosa di Hugh Hefner ha rotto il fidanzamento, mentre l'ex fidanzata – furente e probabilmente legata da contratto prematrimoniale – dichiarava a destra e a manca: “Abbiamo preso insieme la decisione”). Leggere le intercettazioni non è bello, né onorevole. Possiamo solo dire a nostra discolpa che certi dialoghi sono meglio di tanti film italiani, andrebbero studiati a scuola per sapere come la gente parla davvero: sono la sintassi e il lessico, non il kamasutra e il buco della serratura, a dar piacere.
Per pari opportunità detestiamo la t-shirt di Rosy Bindi (“non sono una donna a sua disposizione”) e anche quella di Nicole Minetti (“senza t-shirt sono ancora meglio”). Consigliamo, a tutte e due, se proprio vogliono restare nella fase adolescenziale “ditelo con una maglietta”: “L'umanità è sopravvalutata” (sì, l'abbiamo vista addosso a un ragazzino assassino, ma anche Mark David Chapman che sparò a John Lennon leggeva e annotava “Il giovane Holden”). Detestiamo le manifestazioni di piazza, e le registe che reagiscono ai fischi dicendo “sono stati i maschi, non capiscono i tormenti di noi mamme” e poi chiamano il marito produttore per lavare l'onta. Detestiamo le Ilary Blasi in Totti che si fanno fotografare in guêpière per Vanity Fair, per rimediare a certe vecchie immagini spogliate da ragazzina in cerca di una qualunque scrittura. Mettiamoci anche la direttrice di Vogue magra come una scopa, che sostiene di divorare Ciocorì presi alla macchinetta (già l'idea del distributore di Ciocorì nella chicchissima redazione modaiola fa un po' ridere). Detestiamo le scrittrici che muovono armate contro Jonathan Franzen, al grido di: “Noi siamo più brave a scrivere di sentimenti, ma non ci considerano”. Detestiamo la posta del cuore, peggio ancora la gara tra giornalisti maschi per accaparrarsi la preziosa rubrica. Detestiamo chi non ha capito niente di “The Bridesmaid” e scuote la testa: “Bel risultato far ridere con battutacce da caserma, è per questo che abbiamo combattuto?”. Sì: per questo, per Tina Fey, e per Sarah Silverman.
A giudicare dalle puntate pilota, “Pan Am” di Jack Orman e “The Playboy Club” di Chad Hodge sono due serie divertenti e ben fatte, seppur non paragonabili alla perfezione di “Mad Men”. Raccontano le ragazze anni Sessanta, con una gran voglia di divertirsi che accomuna i registi e le ragazze (il femminismo cupo e pensoso arriverà dopo), pronte a insinuarsi negli anfratti lasciati incustoditi. Le donne dovevano fare certe cose, ma potevano trasgredire e far di testa propria, arruolandosi come conigliette per mettere via i soldi per il matrimonio, o mollando il fidanzato che studia Hegel e Marx per guardare il mondo dalla scaletta dell'aereo. Niente di tanto diverso da “Il gruppo” di Mary McCarthy, scritto nel 1962 e ambientato negli anni Trenta rooseveltiani. Niente di tanto diverso da quel che Rona Jaffe racconta nel suo bestsellerone “Il meglio della vita”, fanno da sfondo gli anni Cinquanta (lo si scorge in mano a Don Draper, e tanto bastò per una ristampa immediata). Niente che non somigli a “Letty Fox”, il romanzo di Christina Stead uscito negli anni Quaranta. Ogni decennio ha il suo gruppo di ragazze. Più o meno sfortunate, più o meno adattabili, più o meno regolamentari. Proprio come ogni guerra ha il suo plotone multietnico di soldati. In entrambi i casi, sappiamo fin dall'inizio chi si salverà e chi soccomberà, ma il piacere resta.
La compagnia aerea e il club fondato a Chicago da Hugh Hefner fanno da sfondo a storie di ordinari cuori infranti, che oggi fanno sgranare gli occhi per la quantità d'alcol mandata giù senza colpo ferire, per le sigarette fumate anche in cabina, per le rigide regole che impongono di portare biancheria rinforzata sotto la divisa. C'è un'arcigna signora della Pan Am che controlla, dando una pacca sul sedere, e per favore non commentate “che tempi orribili”. Non prima di far mente locale, pensando che una ragazza degli anni Zero è diventata ricca tirando fuori dal corredo della nonna le guaine contenitive Spanx: Madonna ha esibito i mutandoni sul palco, il catalogo su Internet esibisce mostruosità plasticose simili al busto di Rossella O'Hara, stretto dalla governante nera mentre lei si aggrappa alla colonna del letto. Nel primo episodio di “The Playboy Club” un violentatore viene ucciso con un colpo ben assestato di tacco a spillo, mentre sul palco si esibiscono Ike e Tina Turner. E con il senno di poi, sappiamo che la più tartassata tra le due femmine non era certo la coniglietta in raso azzurro polvere, che sculettando portava in giro la scatola per le sigarette.


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