Ah sì, il mitico Tranströmer. Indagine su un Nobel al di sopra di ogni sospetto
Eravamo preparati su Adonis, poeta siriano-libanese (eppur cittadino del mondo, come si usava dire in tempi non globalizzati, per la sua incessante partecipazione ai festival internazionali). A ridosso della primavera araba avrebbe fatto la sua figura. Ed eravamo preparati su Haruki Murakami, bravo romanziere giapponese con una passione per il jazz e i Beatles, trascinato nei pronostici del Nobel grazie al terremoto e la catastrofe nucleare di Fukushima. Gli accademici di Svezia solitamente scelgono i premiati in base a ragionamenti politici, più che letterari.
Eravamo preparati su Adonis, poeta siriano-libanese (eppur cittadino del mondo, come si usava dire in tempi non globalizzati, per la sua incessante partecipazione ai festival internazionali). A ridosso della primavera araba avrebbe fatto la sua figura. Ed eravamo preparati su Haruki Murakami, bravo romanziere giapponese con una passione per il jazz e i Beatles, trascinato nei pronostici del Nobel grazie al terremoto e la catastrofe nucleare di Fukushima. Gli accademici di Svezia solitamente scelgono i premiati in base a ragionamenti politici, più che letterari. Non si spiegherebbero sennò certe alzate d'ingegno, e neppure la delirante dichiarazione di qualche anno fa, secondo cui gli scrittori americani dovevano ancora crescere, prima di entrare nella rosa dei nobelizzabili. Spiazzamento c'è stato, come vuole la tradizione. Verso la lirica pura, orfica, metafisica di Tomas Tranströmer, poeta svedese nato nel 1931. Bisogna cercar di resistere alla battuta di Eugenio Montale, convinto che non potesse esistere “un grande poeta bulgaro”.
Gli specialisti di letterature scandinave inorridiranno (ieri era il loro grande giorno, mediaticamente contesi come non succederà più). Voleva solo dire, senza perfidia, che gli scrittori vanno letti, amati, magari tenuti sul comodino, oltre che celebrati e tramandati ai posteri. E che i versi di Bob Dylan, altro nome uscito nelle previsioni della vigilia, hanno più risonanza nei nostri cuori di un poeta che scrive haiku e crede fermamente nella mistica della parola. Uno che ha sempre ben presente le epifanie di T. S. Eliot, e quando deve citare un artista con cui si sente in consonanza pensa alla luce di William Turner.
Le 11 raccolte poetiche di Tomas Tranströmer, per un totale di 160 poesie dal 1945 a oggi, tutte brevi (le epifanie sono attimi, ogni tentazione verso il poema narrativo o epico è scongiurata in partenza) andranno a collocarsi nella bibliotechina che Amitav Ghosh rimirava da ragazzino in casa di un parente. Senza riuscire a capire perché Grazia Deledda stesse accanto a William Faulkner. A noi fa lo stesso effetto vedere nella lista dei premiati Elfriede Jelinek accanto a Mario Vargas Llosa, l'amatissimo Nobel dell'anno scorso (era ora che onorassero un romanziere da divorare stando svegli la notte).
Mentre la Svezia esulta, e rende omaggio a uno scrittore colpito nel 1990 da un ictus che gli ha tolto la parola non la bravura al pianoforte, i lettori italiani hanno a disposizione le “Poesie dal silenzio” (edito da Crocetti) e “Sorgegondolen”, ovvero “La gondola funebre” (da “Herrenhaus”). Un pomeriggio basta per leggerli – poi magari servirà una vita per capirli. La sublime lirica a differenza dei volgari romanzi esige lettori tranquilli, non farfalloni alla ricerca continua di nuove storie e nuovi personaggi per cui fare il tifo.
“C'era un funerale / e io sentivo che il morto / leggeva i miei pensieri / meglio di me”, scrive Tomas Tranströmer, che in memoria della sua infanzia tormentata ha studiato psicologia e lavorato con i ragazzini a rischio. “Le mie poesie sono luoghi di incontro” sostiene, in contrasto con la fumosa motivazione degli accademici svedesi (sempre degne di un'antologia nel nonsense, sono anni che combattiamo per decifrarle): “Attraverso le sue immagini condensate e translucide, offre un nuovo accesso alla realtà”. Più che un giudizio letterario, pare la pubblicità di una nuova droga psichedelica.
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