Sarkozy e la fin de regne
Quattro anni fa promise di rovesciare la Francia come un guanto. Suscitò per questo speranze e timori. Da allora ha inanellato eccessi, errori, passi falsi che hanno dissolto la speranza, esteso e radicato il rancore. Un simile cammino della croce potrebbe chiudersi solo con un suicidio. Ma visti i precedenti, Nicolas Sarkozy sarebbe anche capace di mancare questo appuntamento con le ragioni della politica, di rimettersi in piedi. E la prossima primavera vincere a sorpresa le presidenziali e restare all'Eliseo per altri cinque anni.
Quattro anni fa promise di rovesciare la Francia come un guanto. Suscitò per questo speranze e timori. Da allora ha inanellato eccessi, errori, passi falsi che hanno dissolto la speranza, esteso e radicato il rancore. Un simile cammino della croce potrebbe chiudersi solo con un suicidio. Ma visti i precedenti, Nicolas Sarkozy sarebbe anche capace di mancare questo appuntamento con le ragioni della politica, di rimettersi in piedi. E la prossima primavera vincere a sorpresa le presidenziali e restare all'Eliseo per altri cinque anni.
Vero è però che non gliene va bene una. Oddio una sì. Jean-Louis Borloo, suo ex ministro con venature cristianosociali, ha fatto sapere che non si candiderà nel 2012. E' poco ma fa comunque brodo. Per il resto, settembre è stato nero. Plumbeo. E lui che sta lì e guarda dall'alto. Indifferente, al più leggermente irritato di fronte a notizie che tempo addietro l'avrebbero mandato in escandescenze. Pare che stia attraversando un momento zen.
Si accavallano affari che vengono da un lontano passato a riacchiappare il suo mondo, e lui appena un secco commento. Viene fuori che i capi dei paesi dell'Africa francofona facevano generosi omaggi in contanti al loro amico Jacques Chirac e all'amico del loro amico, Dominique de Villepin. Il presidente non è parte in causa. Ma è subito indicato come probabile puparo di tale Robert Bourgi, avvocato sconosciuto ai più, che un bel mattino si sveglia e rilascia un'intervista in cui canta come un canarino. Così, a freddo. E tutti pensano al siluro, a un sous-marin, fabbricato ad arte nelle officine del potere per affossare proprio De Villepin, appena assolto in altro processo e che si sta anche lui scaldando in vista del 2012.
Quattro giorni dopo, altro botto, questo più vicino al portone dell'Eliseo. Un mastino in toga, da tempo a caccia delle presunte commissioni pagate per la vendita di sommergibili al Pakistan e rientrate in patria per finanziare la campagna elettorale dell'allora primo ministro Edouard Balladur nel 1995, mette sotto torchio un uomo d'affari libanese. Si chiama Ziad Takieddine: a mettere il giudice Van Ruymbeke sulle sue tracce, è stata la moglie tradita e decisa a vendicarsi. Ora Takieddine non è uno qualsiasi. E' un grande intermediario sul mercato delle armi ed è semplicemente “Tak” per amici di vecchia data del presidente e per alcuni suoi stretti collaboratori, come l'ex ministro dell'Interno Brice Hortefeux e Jean-François Copé, il capo del partito presidenziale. Vecchie foto dei due con rispettive signore che abbozzano un passo non si capisce se di can-can o di hully gully sul prato della villa di Tak a Cap d'Antibes o si rilassano sul suo yacht non fanno bene. Non bastasse, una ragazzina scriteriata si mette a parlare a ruota libera al telefono con il fidanzato e gli dice che suo padre, grande amico di Tak nonché del presidente, non aveva solo il conto segreto alle Bahamas appena scoperto dai magistrati ma anche altri, in Svizzera e in Israele. Le poche righe trascritte dalle intercettazioni hanno gettato nella costernazione la sarkolandia. Anche perché, a quel tempo, il presidente era ministro del Bilancio, braccio destro e portavoce di Balladur nella guerra fratricida combattuta – e persa – contro Chirac. Si sa che da qui a dire che non poteva non sapere, non c'è che un passo. E molti lo fanno. Ma lui tiene il punto, dice che niente sapeva allora e niente sa oggi, quello che sa l'avrebbe appreso dai giornali. Comunque sono cattivi odori. Escono dai sottoscala e appestano l'aria.
Nelle librerie si accatastano pamphlet che lo dipingono autoritario, vendicativo, violento, che non esita ad abbattersi con tutta la forza di cui dispone su chiunque si metta di traverso. Si tratti di un alto servitore dello stato che ha obiettato a un suo ordine e fatto resistenza, di una impiegata trasformatasi senza nemmeno volerlo in testimone a carico in un'inchiesta giudiziaria, di un dirigente di partito che l'ha lasciato, di un alleato riottoso. E' il lato oscuro del presidente, la sua contaminazione corsa. E per lo più corsi sono gli alti funzionari di polizia e dei servizi segreti che compongono il team che provvede a fare terra bruciata attorno alla persona non grata. Anche Chirac disponeva di un gingillo simile, avvolto dal mistero e da un vago clima cospirativo e chiamato per questo il “cabinet noir”. Sarkozy se ne frega di salvare la faccia, il suo è bianco che più bianco non si può, opera nella trasparenza, alla luce del sole. E ai tanti che lo accusano di usare il potere in modo disinvolto e brutale risponde: “Ci manca pure che mi faccia venire gli scrupoli”. Zen sì, ma sincero.
Con i giornalisti ovviamente il rapporto è pessimo. Un paio di loro hanno raccolto le testimonianze di chi ha avuto la vita distrutta dalla vendetta del monarca: il best-seller “Sarko m'a tuer” è nato, dicono, tra mille difficoltà e intimidazioni In un'altra storia, quella dei soldi versati illegalmente dalla donna più ricca di Francia, Liliane Bettencourt, all'ex ministro del Lavoro, la cellula “bianca” sarebbe intervenuta pesantemente su alti magistrati e funzionari per ottenere la lista di tutte le telefonate in entrata e in uscita dal cellulare di un giornalista del Monde, che aveva rivelato dettagli scomodi dell'inchiesta. Quando sono innocui, è il presidente stesso a ingraziarseli. Una volta s'è trovato vicino uno del servizio politico di France 3, autore dell'ennesimo libro critico nei suoi confronti: “Lei è un cretino e una vergogna per la sua professione”. Zen sì, ma di grana vagamente dalemiana.
E poi c'è la crisi che non demorde. Su cui non ha colpe specifiche, è vero, è un male comune. Ma il mal francese è più profondo. La disoccupazione soprattutto fra i giovani è più alta, c'è un sentimento diffuso di incertezza e inquietudine che riporta a galla ideologie di un altro secolo. Le banche vacillano più di altre sotto i colpi della speculazione. Lo stato, la grande risorsa, il demiurgo nella storia di Francia da Colbert a De Gaulle, perde colpi. Il deficit di bilancio è fra i più elevati d'Europa e ci vorranno non meno di cinque anni per azzerarlo. La spesa pubblica continua a crescere e brucia ogni anno più della metà della ricchezza prodotta. Gli alti funzionari, il nerbo dell'amministrazione, aspettano freddamente la caduta di coloro che a torto o a ragione accusano di averli prevaricati e umiliati. La crescita non si vede, si sonnecchia in un letargo da zero virgola. Si importa di più, si esporta di meno, il deficit della bilancia commerciale è ai massimi storici.
Anche in politica c'è avviso di tempesta.
Nell'Ump, il partito della maggioranza presidenziale, c'è chi rievoca il 21 aprile del 2002, quando al primo turno i socialisti presero meno voti dell'estrema destra e furono eliminati dal turno decisivo di quelle presidenziali. E teme che lo scenario si ripresenti a parti invertite, che l'Ump arrivi in terza posizione dietro il Front national o magari dietro i centristi di François Bayrou. Una prospettiva da incubo. In tre anni e mezzo l'Ump è andata di sconfitta in sconfitta, dalle elezioni regionali alle cantonali. L'ultima è proprio di questi giorni ed è storica. Per la prima volta la sinistra ha conquistato la maggioranza al Senato e ha eletto alla presidenza un socialista ex trotzkista, grande fan di Cuba. Una perdita che pare non abbia colpito molto il presidente: come disse già il Generale, il Senato è fastidioso e inutile “come la prostata”.
La popolarità del presidente, infine, sale di poco e subito riscende. Mancano solo sette mesi e nulla lascia intravedere una sicura ripresa. Per descrivere questa situazione di grande scompiglio, l'“opinion bon-ton” usa una parola un po' desueta. Che evoca i tempi delle rumorose processioni per le schiere delle anime purganti, per i morti deceduti anzitempo e non placati. E' una parola che risale alla grande peste del 1348: “charivari”. Campeggia sulla copertina del settimanale Le Point, sotto un titolo perentorio: “Fin de règne”. Che poi è lo stesso del Nouvel Observateur, breviario della sinistra al caviale.
Così alcuni sperano che davvero, dopo tanto soffrire, l'ultimo atto sia la bella morte, il rifiuto adulto e consapevole dell'accanimento terapeutico. La rinuncia come estremo suggello all'impotenza e al tempo stesso bel gesto.
Cosa che sarebbe quanto mai singolare da parte di un uomo che non ha nemmeno sessanta anni ed è nel pieno delle forze fisiche e mentali. E in contraddizione profonda con la storia, la cultura, le tradizioni della Repubblica i cui presidenti, con la sola eccezione di Georges Pompidou stroncato dalla malattia, si sono sempre ripresentati davanti al popolo. E sempre premiati anche quando erano in difficoltà. Solo a Valéry Giscard d'Estaing fu detto di no. Ne uscì a pezzi: nel discorso d'addio gridò all'ingiustizia, si alzò in piedi e se ne andò via anzitempo, la telecamera impietosa indugiò a lungo sulla sedia vuota, immagine potente, a tutt'oggi ineguagliata, sull'ingratitudine della politica e sulla caducità del potere.
Per rinunciare, per arrendersi senza combattere, Nicolas Sarkozy dovrebbe davvero convincersi di essere il Giscard di questo secolo, l'oggetto di un risentimento ancora più coriaceo, più virulento di quello che allora spalancò le porte dell'Eliseo a un socialista, per la prima volta dai tempi del Fronte popolare. Dicono che anche la première dame Carla lo spinga a rinunciare. Che sogni una nuova vita, da famiglia normale con un bimbo appena nato e un padre che torna a fare l'avvocato. Altri aggiungono che Nicolas è troppo orgoglioso e non correrà il rischio di una sconfitta umiliante. Che tutti i sondaggi danno per molto probabile. Non sarebbe tanto un problema di popolarità, questa si potrebbe anche recuperare. Ma d'impopolarità alta, ostinata, persistente. Di un rigetto quasi viscerale dell'uomo, della sua immagine, dei suoi metodi.
La proiezione sul secondo turno delle elezioni sancirebbe la vittoria del candidato socialista con venti punti di scarto, 60 per cento a 40: da trent'anni a questa parte, lo scontro tra destra e sinistra si è sempre risolto per un punto, massimo due. I più recenti studi demografici e di geografia elettorale rilevano significativi spostamenti verso sinistra di una parte dell'elettorato moderato e cattolico delle regioni dell'ovest e l'emergenza di una fascia massiccia di “rurbains” che lavorano in città e vivono in campagna: cambiamenti importanti che non spiegano però uno scarto di venti punti. Venti punti non vengono dal malcontento razionale, ma dalle viscere dell'odio. Un recente sondaggio del quotidiano Libération lo conferma: più di due francesi su tre dicono che se dovesse presentarsi sarebbe sonoramente sconfitto. Un muro in cui non sembra facile fare breccia.
E' più facile invece che la breccia si apra nella maggioranza. Per ora ci sono solo crepe. Che però tengono in vita ambizioni sopite. Di François Fillon, per esempio, l'attuale primo ministro. E soprattutto di Alain Juppé, il ministro degli Esteri. Fino a quando il presidente è il candidato naturale non si muoveranno. Né l'uno né l'altro. Fino a quando però…
Fillon è ancora oggi più popolare del presidente, contro la logica delle istituzioni secondo cui il primo ministro sta lì per incassare colpi al posto del presidente e farsi buttare via quando non serve più. Finora Sarkozy l'ha tenuto, ma non è escluso che lo cambi tra qualche settimana tanto per dare una scossa alle truppe. Sorprendente è il ritorno di Juppé. Un giovanotto di 65 anni che è politico di lunghissimo corso. Nel 1997, era già il primo ministro di Chirac, che lo considerava il figlio spirituale, l'erede, “il migliore tra di noi”. Prima di buttarlo a mare, lui e quel suo progetto di riforma delle pensioni che aveva messo il fuoco al paese. Non contento, Chirac gli fece pure pagare il conto di quelle assunzioni fasulle che rimbalzavano dal comune di Parigi all'apparato del partito.
Nell'affare, tutt'ora in corso, Juppé è il solo condannato, una pena pesante poi ridotta in Appello, quattordici mesi di carcere con la condizionale e un anno, anziché dieci, di ineleggibilità. Se ne andò in esilio volontario in Canada a insegnare all'università, quando passò la frontiera americana e videro che era schedato fu guardato torvamente e trattato male. Oggi ripensa alle sue disavventure con distacco, l'età conferisce saggezza, la competenza l'ha sempre avuta. Crede perciò di poter essere un ricorso prezioso se il presidente dovesse decidere di passare la mano. Il libro “L'orgoglio e la vendetta” racconta che quando seppe dell'infortunio alberghiero di Dominique Strauss-Kahn pensò a uno scherzo, ma avuta la conferma si mise a saltellare pazzo di gioia e a gridare: “Tutto può succedere in politica, tutto, tutto, la ruota gira, gira”. Per correre però con qualche speranza di successo non basta volerlo, occorre quanto meno una corsia libera. Per ora non c'è.
Qualsiasi cosa si pensi di Sarkozy, non c'è dubbio che sia della schiatta di politici come Mitterrand, come Chirac, abituati a cadere e a risorgere. François Hollande, ex segretario socialista e verosimilmente prossimo candidato della sinistra, è certo che non dovrà vedersela con Sarkozy. Una previsione che sa di scongiuro.
Malgrado l'immagine autoritaria, un bilancio della sua azione che solo per magnanimità si può dire in chiaroscuro, Sarkozy è ancora, e nettamente, il migliore candidato possibile della destra repubblicana, quindi l'avversario più rognoso per la gauche. Le elezioni presidenziali hanno una dinamica propria e in parte misteriosa, un Mitterrand assai impopolare trionfò nel 1988 in regale solitudine. Sarkozy resta un formidabile persuasore, uno spregiudicato affabulatore. E in televisione è sempre una belva. Fiuta la preda come non potrebbero mai fare né il compassato Fillon né il redivivo Juppé, più a loro agio nel dibattito di idee che però, nel faccia a faccia finale, quello che può spostare centinaia di migliaia di voti, servono solo da arredamento. Conta l'arte di provocare improvviso imbarazzo nell'avversario, metterlo in difficoltà per pochi secondi, provocargli il battito di ciglia che mette in contraddizione e svela la menzogna. Il roseo, smussato, ecumenico Hollande si propone come presidente “normale” e “morale”, ma è comunque prigioniero del passato e della sinistra estrema, pensa di mettere al passo le banche, la mordacchia alla speculazione, promette assunzioni nel settore pubblico e posti di lavoro a durata indeterminata nel privato: ha dunque una gola bella larga, carnosa. Il predatore dell'Eliseo la azzannerà. E non mollerà più la presa.
Ha detto che deciderà all'ultimo minuto, fine gennaio inizio febbraio. Vuole tempo per far vivere più a lungo la maschera del presidente al di sopra della mischia che si interessa solo ai grandi problemi del mondo, che va a New York per l'Assemblea generale delle Nazioni Unite, brinda con David Cameron nella Libia liberata, prende sotto braccio Angela Merkel. Trova il tempo di inaugurare il Tgv fra Tangeri e Casablanca, di andare in Georgia, in Armenia. Lontano da casa, ma visibile, attivo. In una parola, al timone. Come un capitano che non è saggio rimuovere nel mezzo della tempesta.
Non c'è settimana però che non vada anche nella provincia profonda con una scusa qualsiasi: vantare i meriti dei carburanti verdi, presenziare al congresso nazionale dei pompieri, assistere alla proclamazione delle Cevennes patrimonio dell'Unesco, inaugurare la stagione dell'aratura nel Basso Reno. Un presidente convinto di scadere come uno yogurt non si muoverebbe in modo così frenetico. Questo è il passo di un non-candidato alla candidatura che in realtà fa campagna elettorale da mesi e non ha dimenticato la lezione del maestro, Jacques Chirac: mai mettersi contro i contadini e gli allevatori di vacche. Questo è il passo del “non candidato” che non vede l'ora di dimostrare a tutti che sbagliano. Che nel momento della verità iddio, ovvero il popolo, “reconnaîtra les siens”. Saprà da che parte stare.
Il Foglio sportivo - in corpore sano