Il corpo di Bossi
La dimensione simbolica della cataratta, “la senescenza”, il mistero del braccio rotto, se per afferrare una bottiglia di latte o chissà, il monitoraggio della coiffure, sempre accidentalmente diversa, la fenomenologia della canotta, da quella neorealista del '94, bianca in cotone millerighe a quella delle ultime estati in Cadore e ad Alassio, in tessuto tecnico, nera, grigia o bianca, ma con bretella larga. Gli aggiornamenti dell'iconografia del pugno: Michele Brambilla ha annotato sulla Stampa, che, domenica 18 settembre a Venezia, il capo si era dimenticato di batterlo il pugno.
La dimensione simbolica della cataratta, “la senescenza”, il mistero del braccio rotto, se per afferrare una bottiglia di latte o chissà, il monitoraggio della coiffure, sempre accidentalmente diversa, la fenomenologia della canotta, da quella neorealista del '94, bianca in cotone millerighe a quella delle ultime estati in Cadore e ad Alassio, in tessuto tecnico, nera, grigia o bianca, ma con bretella larga. Gli aggiornamenti dell'iconografia del pugno: Michele Brambilla ha annotato sulla Stampa, che, domenica 18 settembre a Venezia, il capo si era dimenticato di batterlo il pugno, e che è stato il giovane governatore del Piemonte Roberto Cota a ricordarglielo in un sussurro: perché i riti non reggono le variazioni tanto meno le omissioni. E poi il contrario del pugno, la carezza sui capelli, non data, ma ricevuta in questo caso, dalla mano di Silvio Berlusconi nell'Aula di Montecitorio durante la votazione sull'arresto di Marco Milanese: il gesto, vagamente pascoliano, è già diventato immagine cult e oggetto di studio nei pezzi dello storico Miguel Gotor su Repubblica e del sociologo Marco Belpoliti sul blog Doppiozero.
Nel giro di pochi mesi – per la precisione dalla sconfitta della Lega alle ultime amministrative – i reportage e le analisi politiche, sociologiche, semiologiche hanno abbandonato lo svisceramento spesso ammirato della capacità rappresentativa del carroccio sul territorio, il “radicamento”, la “nuova generazione di amministratori”, l'allure di vecchio partito invidiati dal Pd e dal Pdl spostandosi su una questione tutta diversa: il corpo del capo, persino ovvia unità di misura dello stato di salute del partito. E' all'ombra del corpo del capo che si svolge l'imminente stagione congressuale.
Il corpo di Bossi, malato, ma sopravvissuto e attivo dunque miracoloso, è diventato il paradigma contraddittorio della sua leadership, del rapporto apparentemente indissolubile con Berlusconi e di quello con i possibili successori. L'icona che inibisce lo scontro aperto fra le diverse fazioni leghiste, ma che accende quello umbratile e negato perché la sua benedizione è qualcosa di irrinunciabile. Che quell'icona pertanto debba essere conosciuta va da sé.
La pubblicistica sembra procedere per sezioni, scompone per ricomporre: la cataratta segno di una ridotta capacità di vedere oltre che di una consunzione è il tema dell'articolo di Filippo Ceccarelli che, a luglio su Rep., ha aperto la caccia alla qualità simbolica, al segreto semantico racchiuso in ogni arto o in ogni gesto di Bossi. Belpoliti autore del saggio sul corpo di Berlusconi (“Il corpo del capo”, Guanda, 2009) si è dato da fare con un confronto fra i corpi dei due leader, prepara un paper sulle canottiere come rimando operaista e popolare, “non come il casco di Berlusconi, Bossi è l'operaio della politica”. E al Foglio annuncia che a fine ottobre la Bicocca, Università di Milano, ospiterà un convegno sull'immaginario leghista, sugli aspetti iconici, nella consapevolezza che l'icona è una e una sola, il capo, Umberto Bossi. “Non gli occhiali rossi di Maroni, non il faccione di Calderoli”, osserva Belpoliti, “non importa se ha perso forza, se è difficile identificare il corpo piegato e doloroso di Bossi con Alberto da Giussano, la Lega si identifica con lui”.
Non che in passato gli aspetti gestuali (più o meno gli stessi del presente), le pernacchie, il dito medio, la fisicità di Bossi a partire dalla voce roca già recensita in una delle prime biografie del Senatùr (quella di Daniele Vimercati del 1991), siano stati ignorati. Ma tutto sommato si limitavano alla constatazione o alla descrizione, anche puntigliosa, del celodurismo, di un machismo crudo e popolare, agli aspetti antropologici delle sbruffonerie da bar contrapposte alle ipocrisie dei palazzi romani. Ostentazione di differenza ed estraneità antipolitiche, connesse a quello che è stato ribattezzato “popolanesimo” oltre che al populismo tipico dell'esperienza leghista.
Oggi invece il corpo e la corporeità di Bossi sono molto altro. Dallo stupore per la novità degli anni 90 si è passati allo sbigottimento per il paradosso. “Abbiamo un leader rafforzato dalla sua fragilità e ormai definitivamente ipostatizzato, un leader antico al quale non mi stupirei tagliassero le vesti per farne delle reliquie”, spiega al Foglio Arturo Parisi, riconoscendo dal campo avverso, ma soprattutto da studioso delle leadership, come la carismaticità di Bossi sia accentuata dalla malattia. “Il carisma nel senso weberiano è un indicibile, un non so che, rinvia alla divinità e alla natura personale del potere. Quanto più un leader diventa precario nella sua personalità e il suo appeal inspiegabile, tanto più bisogna riconoscere che c'è qualcosa di ineffabile ovvero il carisma. In questo senso se non è carismatico Bossi chi lo è? E' più carismatico di Berlusconi…”.
Nell'ostensione senza maquillage del corpo malato, segnato dall'ictus cerebrale dell'11 marzo 2004, c'è secondo questa prospettiva, la prova del carisma. Per questo Bossi ha bisogno di una continuità con il repertorio gestuale e iconografico che lo ha contraddistinto nel passato. Una foto apparsa di recente sul Corriere della Sera mostra il leader leghista mentre gioca a biliardino, la mano mobile su una manopola, l'altra abbandonata sul fianco. Accanto a lui c'è ancora Cota. La disabilità di Bossi non è mascherata perché quello che conta è che si sappia che lui gioca la partita, malgrado la malattia.
“Una dimensione che si è rafforzata al punto di inibire gli attacchi alla sua persona… Come è noto a tutti le disgrazie della vita producono un senso di imbarazzo. Nondimeno il divario tra l'immagine pubblica di Umberto Bossi e il suo potere effettivo è piuttosto insolito per un politico che ha fatto della forza l'elemento preponderante della sua propaganda”, scrive Lynda Dematteo antropologa francese che a Bossi e alla Lega ha dedicato uno studio etnografico pubblicato in estate, “L'idiota in politica”, Feltrinelli (dove idiota è in senso etimologico, riferimento al “localismo e al ripiego identitario”).
Eppure, nonostante Bossi abbia scartato i consigli estetizzanti di Berlusconi che lo tiravano in direzione di lifting e cosmesi, di un'altra e opposta iconografia, l'ostensione del corpo “per come è” non è del tutto veritativa. Il mistero circonda le condizioni di salute del capo e qualsiasi episodio attinente a quella sfera diventa un giallo: si è dubitato della veridicità dell'operazione alla cataratta che ha tenuto Bossi lontano dall'Aula della Camera durante la votazione per l'arresto su Alfonso Papa. Circolarono voci che il leader leghista avesse ceduto al ritocco chirurgico solo perché aveva portato gli occhiali scuri più a lungo del previsto. “Visto? Sembra ringiovanito”, si sentiva dire nelle redazioni con un occhio ai primi piani in tv. Con una prevalenza delle ipotesi diagnostiche su quelle politiche, tipo la semplice assenza strategica. Idem per l'incidente al braccio: nessuna certezza a parte l'immagine di Bossi con la fasciatura. E' stato così fin dalla malattia del 2004. Nulla trapelò allora dei quasi due mesi di riabilitazione avvenuta in una clinica del Canton Ticino in cui il leader leghista era stato trasferito dopo le cure all'ospedale della Fondazione Macchi di Varese.
Anche oggi Bossi si cura prevalentemente in Svizzera, protetto dal muro del cerchio magico, “l'hanno segregato” polemizzano gli esclusi. Le cronache non svelano nessuna figura mediaticamente paragonabile ai medici di Berlusconi dotati di visibilità propria, gli Scapagnini o Zangrillo. Molto altro contrappone le corporeità di Bossi e Berlusconi. Belpoliti sostiene, repertorio iconografico alla mano, che il premier è “in fuga dall'intimità con il suo corpo” mentre Bossi quell'intimità con il se stesso di oggi come di ieri non può e non vuole nasconderla. Diversa la gestione delle immagini che siano foto o video: Bossi non ha mai avuto né un esperto al seguito come Roberto Gasparotti, né una consulente dedicata come Miti Simonetto. Un fotografo semi organico, free lance della cronaca, con rapporto privilegiato con il Corriere, Stefano Cavicchi, ha il permesso di seguirlo ovunque, l'unico ammesso, per esempio, nella sala da pranzo riservata dell'hotel Ferrovia di Calalzo. Ed è diventato a suo modo un personaggio. Tutto contrappone la cosmetica berlusconiana all'iperrealismo bossiano, salvo il fatto che per tutti e due i leader per Bossi e Berlusconi, il corpo è fatto cruciale e politico.
Il segreto custodito dalla moglie Manuela Marrone e dai figli è analogo a quello che ha circondato le malattie dei capi novecenteschi, “le lunghe degenze di Franco o dei leader del Pcus” osserva Filippo Ceccarelli. Non se ne sapeva molto. Come del resto negli altri casi di scuola, il cancro alla prostata del presidente francese Mitterrand o la malattia di Mao, esempio quest'ultimo che tenta i più maliziosi nei corridoi di Montecitorio nella sua estensione alla “custodia” della banda dei Quattro. Il potere ha sempre protetto le questioni di salute. “E tuttavia di Bossi possiamo contemporaneamente dire che sappiamo tutto, tutto quello che serve per decifrare la forza dell'icona. I nuovi media rendono impossibile nascondere alcune cose, le pernacchie i gesti fuori controllo perché moltiplicano e diffondono quello che la televisione può ancora tenere sotto controllo. Desacralizzano laddove la tv sacralizza”.
E' bastato che un articolo di Cristina Giudici su Panorama alludesse a una differenza tra quello che della malattia di Bossi si vede e quello che il cerchio magico conosce per scatenare reazioni risentite fino all'emotività. L'evocazione di un ruolo manovriero della moglie del leader Manuela Marrone e la “ruvidità” dell'aggettivo “badante” accostato a Rosy Mauro hanno avuto l'effetto di un tabù violato, non tollerato neppure dagli anti cerchio magico, giù lungo le file maroniane più inquiete che magari avevano espresso anonimo fastidio.
L'aspetto iconico rende impraticabile il parricidio. La destituzione in clinica come fecero D'Alema e Occhetto e Veltroni con Alessandro Natta che aveva avuto un leggero infarto sarebbe stata impensabile nel 2004, figuriamoci oggi, a riprova della natura personalistica e carismatica della leadership. “Il carisma di Bossi si è ricostruito in modo antitetico alle figure scipite dei vecchi democristiani. Tutto sommato scialbe a parte forse Fanfani” dice Belpoliti “il corpo di Moro ha paradossalmente acquistato carisma nella morte”. Il potere nella malattia ha bisogno del segreto nonostante le evoluzioni ultramediatiche della politica. Televisione o non televisione, democrazia o non democrazia, la trasparenza non è assoluta. La pietas fa il resto consolidando un tabù sul qual nessun insider è disposto a intrattenersi se non nell'anonimato.
“Il politico rappresentato spesso dai media come un pazzo più o meno pericoloso oggi è un uomo fisicamente segnato e indebolito di cui si sorride con indulgenza”, sottolinea nel suo libro Lynda Dematteo.
Eppure il calo di consenso e la crisi politica della Lega minano la funzione protettiva del corpo malato del leader. Anche se la constatazione appartiene solo a chi è esterno al partito. “I giornalisti gli chiedono delle pensioni e lui mostra il dito. Mai nessuno che risponda a Bossi: ma vaff…, vecchio rincoglionito”, è la cliccatissima provocazione postata su Facebook dal direttore di Europa Stefano Menichini, che al caso Bossi si è dedicato in agosto, nei giorni del veto leghista sull'innalzamento dell'età pensionabile, con un editoriale preoccupato per “l'aggravante di un'imprevedibilità e inaffidabilità personali che hanno radici nella patologia non nel tatticismo”.
“La crisi della Lega va di pari passo con l'icona declinante di Bossi” osserva Belpoliti. Ma non è così semplice. Perché il termometro del carisma non è solo “il seguito”, ma anche “l'intensità”, dicono i politologi E nella dimensione interna e ridotta quella c'è ancora. Certo il carisma è quanto mai precario come osserva Parisi è “relazionale e non resiste al bambino che per tre volte dica che il re è nudo”.
Qualche giorno fa lo ha scritto in prima pagina il direttore del Corriere Ferruccio De Bortoli, due righe molto notate: “Bossi non appare, anche agli stranieri, nel pieno delle sue facoltà”. Ma il metaforico bambino non c'è ancora laddove potrebbe avere l'efficacia dell'epifania dove l'intensità interna è per l'appunto protetta, dentro la Lega.
“Bossi non è rimpiazzabile questo è sicuro” spiega al Foglio Gilberto Oneto, indipendentista irriducibile che ha lasciato la Lega agli inizi del nuovo secolo in polemica con la linea soft del leader. “Nella Lega non c'è nessuno che voglia veramente prendere il posto di Bossi. Almeno non in questa Lega. Perché spazio per altri fuori dal partito attuale nel solco indipendentista c'è. Si comincia a vedere. Ma certo Maroni e Calderoli sono protuberanze esterne del corpo di Bossi”.
In effetti, al di là della questione del coraggio individuale, è difficile immaginare un putsch, un Midas condotto da chi come Maroni fin dal '94, riconosceva la particolare aura del capo: “Senza di lui la Lega non ci sarebbe nemmeno, perché un movimento che non ha tradizione che non ha storia comune non può fare a meno di una forte leadership” scriveva Maroni all'epoca “noi eravamo stregati… era una sorta di santone che ammaliava non tanto per quel che diceva quanto per quel che faceva”.
Così la lotta di potere interna non può che essere sull'utilizzo dell'icona, giammai a dispetto di essa. L'oggetto del contendere è il brand e quello che oggi significa: chi parla con il capo, chi riesce ad avvicinarlo, chi può seguire i suoi tempi biologici, le lunghe veglie notturne, i sonni pomeridiani.
Secondo Oneto, è stato Bossi a preparare le condizioni per l'ipostatizzazione di se stesso. Nel piglio personalistico, familistico, feudale oltre che nella sua psicologia c'è stata fin dall'inizio la preoccupazione di eliminare la questione della successione. “Ha sempre avuto la fobia che tutti volessero prendere il suo posto, che tutti avessero in mente di diventare lui. Gianfranco Miglio per esempio, l'ultima cosa che voleva fare era il capo del partito, ma Bossi non ha mai capito la varietà dei ruoli. Ha usato il diserbante distruggendo gente come Franco Rocchetta, il fondatore della Liga veneta o Marco Formentini, il sindaco leghista di Milano, è rimasta una terra sterile”.
Visioni shakespeariane che hanno una traduzione, certo non tragica, nell'operazione Trota, la scelta del successore in famiglia. La designazione del figlio quale erede della leadership è un errore politico blu, a sentire i nemici interni che ne attribuiscono il copyright a Manuela Marrone. Una prova di debolezza, ma anche della qualità arcaizzante, feudale del bossismo. L'aspetto da comico da maschera l'altra faccia, quella kitsch, buffonesca, popolare dell'icona a disposizione della satira fino a che la malattia non ne ha inibito quella tipologia d' uso. In un certo senso è stato Bossi con l'investitura del giovane Renzo a rimetterne in giro un pezzo, a creare uno spazio di sopravvivenza per il comico. Riservando a se stesso quello oracolare, amplificato dalle difficoltà di eloquio e dalla concisione obbligata delle risposte. Peraltro in continuità con l'ambiguità comunicativa imboccata già nel passato: “Voglio che stiano alla larga da me, che non mi prendano troppo sul serio che non sappiano mai se sto scherzando o se sto dicendo quello che penso”, dichiarò a ridosso della sua prima elezione al Senato nel 1987.
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