L'uomo che può salvare l'Nba
Tavola rotonda, trenta proprietari a rappresentanza delle trenta franchigie Nba. Subito a fianco, la rappresentanza dei giocatori composta da pochi ma navigati elementi capitanati da Billy Hunter. Tutti senza canotta ma in giacca e cravatta d'ordinanza. A dirigere la riunione il commissioner David Stern, che si avvicina a una lavagnetta – gessetto alla mano – e traccia un grosso cerchio, al cui interno scrive le lettere "4 mld". Quattro miliardi di dollari.
Tavola rotonda, trenta proprietari a rappresentanza delle trenta franchigie Nba. Subito a fianco, la rappresentanza dei giocatori composta da pochi ma navigati elementi capitanati da Billy Hunter. Tutti senza canotta ma in giacca e cravatta d'ordinanza. A dirigere la riunione il commissioner David Stern, che si avvicina a una lavagnetta – gessetto alla mano – e traccia un grosso cerchio, al cui interno scrive le lettere "4 mld". Quattro miliardi di dollari. E' il business che ogni anno la sola lega professionistica americana di basket smuove tramite il circuito perfettamente coordinato di botteghini, sponsor, pubblicità, dirette televisive e presenze (estive) in giro per il globo. Poi, sempre Stern, dice letteralmente: "A puttane? Vogliamo mandare tutti questi soldi a puttane?".
Sembrano ripetersi le difficoltà che l'Nba affrontò anche nella stagione del 1998/1999. Quella volta si riuscì a rimettere in moto il campionato grazie a un accordo in extremis che di fatto mise fine alla serrata riducendo le partite a cinquanta per squadra (a dispetto delle 82 del regolamento). Il campionato iniziò con tre mesi di ritardo. Oggi il basket americano si trova davanti a due strade contrapposte: stagione interamente annullata o ritardo di uno o due mesi al massimo.
Secondo le prime indiscrezioni, e stando anche a voci interne agli staff delle squadre, si parla di un semplice ritardo destinato a concludersi in un nulla di fatto, decretando così definitivamente salva la stagione. Le squadre più rilevanti e con i conti spudoratamente in attivo sono anche quelle che favoriscono la ripresa delle partite. Tra queste spiccano i Los Angeles Lakers, la seconda squadra più vincente nella storia e il cui proprietario, Jerry Buss, è uno dei pochissimi presenti ad aver preso parte anche alla riunione pre lock – out del 1998. Buss, all'interno della perfetta organizzazione strutturale della Nba, è un personaggio davanti al quale le porte (anche quelle più in alto) si aprono per via diretta, senza bisogno di intermediari.
Ma nella sua vita non sono sempre state "peaches and cream", pesche e panna, l'equivalente americano del nostro "rose e fiori".
Chi è l'uomo il cui parere (unito a quello di altri due o tre proprietari al massimo) può delineare le sorti dell'immediato presente dell'Nba? Le biografie reperibili, fatta eccezione per gli estremi di nascita, conducono inevitabilmente il suo percorso di magnate multimiliardario alla fatidica data del 1979, quando da illuminato imprenditore in campo immobiliare decide di investire somme da capogiro nello sport, acquistando in un unico blocco da 67.5 milioni di dollari la franchigia dei Los Angeles Lakers, dei Los Angeles Kings (hockey su ghiaccio), un ranch di 13.000 acri in California ed il mitologico Forum, allora dimora casalinga delle partite Nba dei Lakers.
Tra il povero Gerald Hatten Buss detto "Jerry", nato nel 1934, e il Dr. Buss, del 1979, si è messo prepotentemente di mezzo il destino. Definire squattrinato il giovane studente di chimica del Wyoming che si vota all'insegnamento in un college di Los Angeles per mantenersi con cifre irrisorie, lascia in bocca un vago sentore di eufemismo. Buss rappresenta una discreta via di mezzo tra la povertà e una nullatenenza mai pienamente compiuta per via di una piccolissima abitazione indipendente in periferia, non troppo diversa da quelle che John Singleton filmava – a suo rischio e pericolo – nel ghetto nero di Compton per il film "Boyz'n the Hood".
Abitazione le cui piastrelle della cucina, nonostante la (modesta) pulizia, si fanno via via sempre più scivolose e tendono a tingersi di nero. Quando Jerry, incuriosito, ne solleva un paio, la sua vita sta cambiando per sempre, ma ancora non lo sa. Dal centro della stanza sgorga oro nero a fiotti, e quando una casa sorge per volere del fato proprio sopra ad un grosso giacimento petrolifero, la condizione sociale tende automaticamente a elevarsi.
Dalla sera alla mattina, Buss si ritrova con un discreto capitale economico tra le mani. La fortuna ci mette del suo, poi ci vuole il fiuto per gli affari che porta a scegliere le operazioni finanziarie migliori. Gli investimenti si susseguono nel mercato immobiliare, dove i soldi di Jerry Buss più che sommarsi sembrano moltiplicarsi. La transazione del 1979, che lo porta ad acquistare – tra gli altri – quei Los Angeles Lakers di cui è ancora proprietario, è in quel momento la più grande operazione sportiva mai registrata nella storia.
Dal pacchetto iniziale dei 67.5 milioni decide di conservare soltanto la proprietà della franchigia angelena di basket, cedendo con notevoli profitti la squadra cittadina di hockey, il ranch e il Forum. Per sopperire alla mancanza di uno stadio ufficiale in cui disputare le partite casalinghe, Jerry Buss finanzia con ingenti somme la costruzione dell'arena sportiva più moderna di Los Angeles e tra le più attrezzate al mondo.
Nel 1999, è pronto l'enorme palazzo che oggi è diventato sinonimo di basket in tutto il mondo: lo Staples Center. Durante quel periodo, i Los Angeles Lakers sono semplicemente la seconda franchigia più vincente nella storia del gioco. Infatti, sotto l'era Buss, i Los Angeles Lakers hanno vinto la bellezza di 10 campionati Nba, ospitando in squadra leggende del calibro di Kareem Abdul - Jabbar (nato Lew Alcindor), Magic Johnson, Shaquille O'Neal e quel Kobe Bryant ancora in lizza per una partita alla Virtus Bologna a 2 milioni di dollari. Trattasi di giocatori entrati massivamente nella Hall of Fame del basket ed inclusi nella classifica dei migliori 50 giocatori di sempre; manca all'appello il solo Bryant, per il cui ingresso nel circolo. si attende solo l'annuncio del ritiro a fine carriera.
Alla frenetica attività imprenditoriale, Jerry Buss ha sempre alternato e coniugato una passione mai smentita per il denaro, altro che sterco del demonio. Ad oggi, 77 anni vissuti di una vita incredibile, 80 per cento di decisioni sportive e manageriali legate al basket affidate al figlio Jimmy (più chiacchierato per le frequenti indigestioni di Daiquiri che per meriti gestionali), la splendida figlia Jeanie fidanzata con Phil Jackson (ex allenatore degli stessi Lakers, personaggio di culto che meriterebbe un discorso a sé), Jerry Buss è ben felice di dedicare gran parte del tempo libero alla sua vera passione dopo il basket e le donne: il poker.
Il magnate dai capelli biondi scompigliati sopra la fronte rugosa e con i baffi folti ma allineati lungo la bocca anticipandone il sorriso, può permettersi puntate da ottantamila dollari come in occasione delle World Series of Poker del 1991, il campionato più rinomato al mondo che lo ha visto classificarsi in terza posizione. E se gli chiedete, come fece a suo tempo un giornalista del network Espn, se preferisce una vittoria dei suoi Los Angeles Lakers ad una prestazione fortunata al tavolo da gioco, vi sentirete rispondere che "entrambe le cose mi inorgogliscono, ma mentre la prima rappresenta una vittoria della collettività e della mai famiglia in particolare, la vittoria nel poker è un traguardo personale".
Solo e soltanto l'ennesima sfida per Jerry Buss, incredibile personaggio che in America – con un termine meraviglioso – viene descritto self-made man, ovverosìa arrivato al culmine del successo camminando sul confine labile tra sorte e genialità.
Dalle labbra di quest'uomo, dipendono in buona parte le sorti del campionato di basket più famoso al mondo.
Il Foglio sportivo - in corpore sano