Quale testa rotolerà al posto di Shalit?
Morti o vivi, Israele ha promesso: nessun soldato resta indietro
"Figlio mio, torna a casa presto, stiamo diventando vecchi”, ha detto il padre di Yehuda Katz, uno dei tanti avieri israeliani “missing”, scomparsi nelle mani dei terroristi che guerreggiano con Israele. L'angoscia di questo padre è oggi il risvolto della gioia composta con cui Noam Shalit ha accolto l'imminente liberazione del figlio Gilad. Il generale canadese E. M. Burns disse che non riusciva a comprendere come un intero paese, Israele, potesse “impazzire” per un proprio soldato prigioniero
"Figlio mio, torna a casa presto, stiamo diventando vecchi”, ha detto il padre di Yehuda Katz, uno dei tanti avieri israeliani “missing”, scomparsi nelle mani dei terroristi che guerreggiano con Israele. L'angoscia di questo padre è oggi il risvolto della gioia composta con cui Noam Shalit ha accolto l'imminente liberazione del figlio Gilad. Il generale canadese E. M. Burns, capo della missione Onu in medio oriente negli anni Cinquanta, disse che non riusciva a comprendere come un intero paese, Israele, potesse “impazzire” per un proprio soldato prigioniero. Lo stato ebraico lo sa anche troppo bene.
Secondo un calcolo di fonte israeliana, dal 1982 a oggi il totale degli scambi tra prigionieri ammonta a settemila palestinesi contro diciannove israeliani.
Israele oggi detiene 8.500 palestinesi in carcere per terrorismo. Si appresta a liberarne più di 1.000 in cambio di Shalit. Un ottavo del totale. Una dismisura inconcepibile per chi non conosce la minaccia quotidiana e il disprezzo razzista a cui è sottoposto Israele. Tre anni fa Israele riportò “a casa” due soldati, Ehud Goldwasser e Eldad Regev, ma solo per essere seppelliti in terra d'Israele, in una bara. In cambio Israele rispedì nelle mani di Hezbollah Samir Kuntar, un druso tagliagole che uccise un padre e sua figlia in Israele e che oggi è riverito come un eroe dalle massime cariche politiche a Beirut. Difficilissimo per un italiano capire perché si scambino assassini vivi con soldati morti o con semplici informazioni su soldati morti. Ma da questi baratti si capisce tantissimo di un paese che è insieme in pace e in guerra, che cresce i figli in una cultura della vita e li porta agli “hug” di danza e di piano, ma anche un paese che deve per forza vivere in stato di guerra. Per vivere questa tragica, dissanguante duplicità, unica al mondo, Israele ha come bisogno di un pegno straordinario, che si esemplifica nel giuramento di riportare a casa i ragazzi, di non abbandonarli mai e per nessuna ragione, vivi o morti e dovunque siano.
Ogni ragazzo israeliano che serve nell'esercito per tre anni, fra pericoli che la società occidentale neppure immagina, sa che può essere rapito, sotterrato vivo, diventare moneta di scambio con chi di fatto vuole la tua morte e quella di tutta la tua parte. Per questo ogni soldato e con lui la sua mamma e suo padre portano dentro di sé, quando il giovane e la giovane vanno nell'esercito, la promessa che non saranno mai abbandonati. Gilad Shalit ha vissuto cinque anni di orribile solitudine, un tempo indicibile per una madre, un padre e dei fratelli che non hanno avuto la possibilità neppure di avere notizie sulla salute del proprio ragazzo, in contravvenzione a ogni diritto internazionale tradito dalle note ong indifferenti a Shalit. Gilad è il pegno vivente di un abisso che separa un paese che santifica la vita e l'ideologia di morte che spira in medio oriente.
Non c'è principio più importante per l'esercito e la società israeliane del “Pidyon Shvuyim”, il salvataggio dei soldati. In parte Israele trae quest'ossessione dalla Shoah. Come ha scritto un columnist, Herb Keinon, “l'ethos israeliano di non abbandonare mai un soldato non serve soltanto per infondere coraggio ai soldati in battaglia. Nasce anche, in non piccola misura, da un senso di responsabilità collettivo legato alla Shoah: il sentimento per cui ovunque degli ebrei si trovino in pericolo, si dovrà fare tutto, ma proprio tutto per cercare di salvarli. Se non altro, perché allora invece fu fatto così poco”. Uno stato che ha fatto di tutto persino per riportare in patria parte delle ceneri dei santi morti nell'Olocausto. Così, dalla Polonia venne trasferita a Gerusalemme una valigia con quanto restava delle vittime delle camere a gas di Chelmno e la cantante russa Nehamah Lifshitz portò le ceneri delle vittime fucilate nella foresta di Ponari.
C'era un tempo in cui i terroristi pagavano un prezzo altissimo per il rapimento di israeliani. Ma quella ferrigna deterrenza in parte si è persa e oggi gli islamisti sanno che più a lungo tengono sottoterra un soldato ebreo più alto sarà il prezzo che Gerusalemme sarà disposta a pagare. “David Ben Gurion non lo avrebbe mai fatto”, ha detto Benny Morris. Secondo lo storico israeliano tutto è iniziato ai tempi dell'invasione in Libano del 1982, “quando fu evidente che la società israeliana stava diventando sempre più occidentale, consumista, benestante, centrata più sul benessere individuale che non su quello della collettività”. Il primo scambio di prigionieri di massa avvenne infatti nel 1983, quando per pochi soldati israeliani vennero liberati migliaia e migliaia di prigionieri palestinesi e libanesi. Due anni dopo in cambio di tre israeliani vennero rilasciati 1.150 palestinesi, molti dei quali sarebbero diventati i quadri della prima Intifada.
Il premier Benjamin Netanyahu sapeva chi fossero i terroristi che usciranno in cambio di Shalit. Donne diaboliche come Amana Muna, l'assassina di Ophir Rahum, un ebreo di sedici anni adescato su Internet e portato a Ramallah, dove fu torturato e ucciso. Amana si è dichiarata sempre fiera della sua azione. Con lei sarà scarcerata Ahlan Tanimi, che portò la bomba che uccise sedici ebrei alla pizzeria Sbarro di Gerusalemme, o Kahira Sa'adi, madre di quattro figli, che portò un terrorista suicida nella via King George dove si fece saltare in aria uccidendo tre israeliani.
Terroristi e terroriste che torneranno sempre a fare quello che sanno fare meglio: massacrare ebrei innocenti. L'associazione delle vittime del terrorismo, Almagor, che ieri ha condannato lo scambio, ha scritto che negli ultimi cinque anni 177 israeliani sono morti per mano di ex prigionieri usati come merce di scambio. Netanyahu ne ha già liberati a centinaia di terroristi. Nel 1997 scarcerò persino il guru di Hamas, Ahmed Yassin, il mentore dei kamikaze (poi saltato in aria in un'esecuzione extragiudiziale). Tragica è questa perpetua scelta di Israele, perché promette a chiunque voglia intraprendere rapimenti di israeliani che essi saranno fruttosi, che coaguleranno la umma islamica e che si può uccidere il rapito perché comunque si ottiene in cambio ciò che si desidera. Quale testa rotolerà al posto di Shalit? Questa domanda angoscia oggi Israele e spiega perché una buona parte della società israeliana è accanitamente contro lo scambio e grida al “tradimento” e alla “resa al terrorismo”. E' un dramma che riguarda le famiglie. Del soldato rapito. Ma anche dei familiari delle vittime del terrore. L'intera società israeliana si fa garante dello scambio, perché tutto il paese è un fronte e ogni famiglia ha militari che rischiano la vita ogni giorno. Eroici sono così i genitori di Shalit che hanno vissuto in una tenda per mesi, in attesa di riavere il figlio. Eroici sono anche Roni Karman, Yossi Mendelevich, Yossi Tzur, i genitori di tre ragazzi uccisi sull'autobus 37 di Haifa e che si oppongono alla liberazione.
E' giusto che la vita di un soldato valga il disperdere per il mondo una simile ferocia? Forse la risposta sta nel nome dell'aviere Ron Arad. Di lui ci resta qualche foto: emaciato, barba lunga e sguardo smarrito, reduce da torture a Teheran, ha occhi che dicono del momento in cui baciò la moglie e la figlia prima di partire per l'ultima missione e dei diciannove soldati mai rientrati dalla guerra del 1973. C'è anche un breve, penosissimo, filmato, in cui Ron dice, con la erre arrotata del sabra: “Sono un soldato israeliano”.
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