Il big bang democratico

Fine delle rottamazioni

Claudio Cerasa

Una volta che verrà archiviata la pratica relativa alla questione della fiducia berlusconiana alla Camera, non c'è dubbio che uno dei temi che nelle prossime settimane tornerà a essere centrale nel mondo del centrosinistra sarà quello relativo alla gustosissima battaglia che stanno combattendo da ormai diverse settimane quelli che sono diventati i due volti simbolo del pensiero democratico italiano. Loro due, sì, avete capito: Matteo Renzi e Pier Luigi Bersani.

    L'Aventino e l'anti Aventino. La Leopolda e l'anti Leopolda. Il renzismo e l'anti renzismo. Il solido e il liquido. Il credente e il non credente. Il modernismo e l'anti modernismo. Il marchionnismo e l'anti marchionnismo. Il laburismo e l'antilaburismo. E poi la storia del sindacato. Il rapporto con gli alleati. Le botte sull'economia. Le incomprensioni sulle primarie. E soprattutto la costruzione di due leadership che più distanti non potrebbero essere. Ecco: una volta che verrà archiviata la pratica relativa alla questione della fiducia berlusconiana alla Camera, non c'è dubbio che uno dei temi che nelle prossime settimane tornerà a essere centrale nel mondo del centrosinistra sarà quello relativo alla gustosissima battaglia che stanno combattendo da ormai diverse settimane quelli che sono diventati i due volti simbolo del pensiero democratico italiano. Loro due, sì, avete capito: Matteo Renzi e Pier Luigi Bersani.

    A fine mese, si sa, il sindaco ha convocato a Firenze una grande kermesse in cui verranno messi a fuoco i punti più importanti del programma con cui il Gran rottamatore proverà a indossare non più la maschera del distruttore ma quella del costruttore di un nuovo orizzonte per il mondo del centrosinistra. Della kermesse si è detto già molto: si sa che per l'occasione Renzi ha invitato tutti quegli amministratori locali (sindaci, presidenti di provincia e consiglieri comunali incontrati quest'anno in giro per l'Italia nel corso della presentazione del suo libro) che negli ultimi mesi sono entrati a contatto con la sua rete; e si sa anche che, chissà se casualmente oppure no, il segretario del Pd ha convocato un'altra kermesse che come era già successo lo scorso anno cadrà proprio negli stessi giorni in cui Renzi riunirà i suoi ragazzi alla Leopolda. Ma al di là di tutto questo, che ci si creda o no, per provare a capire qualcosa in più sul senso dello scontro tra il sindaco e il segretario del Partito democratico bisogna mettere nel fodero le tradizionali categorie della politica e ritornare a prendere in considerazione almeno per un attimo una delle più belle lezioni lasciateci in eredità da Steve Jobs – e poi giuriamo che per un po' non ne parliamo più di Jobs (bugia bugia).

    Ma attenzione: questa volta non c'entra nulla né il famoso discorso tenuto dal fondatore della Apple nel mitico pomeriggio passato all'Università di Stanford né la polemicuzza da quattro soldi (relativa alla elettrizzante questione se Jobs sia o non sia un vero mito per la sinistra) in cui si è andato a ficcare due giorni fa il governatore Nichi Vendola. No: qui, più semplicemente, la questione si riferisce a un tema delicato che riguarda due approcci diversi che vengono oggi utilizzati (a tutti i livelli, non solo nel mondo delle nuove tecnologie) per ragionare attorno alla moderna figura di un leader. Due approcci che sono stati sintetizzati bene nell'ultimo numero dell'Economist dedicato quasi interamente proprio all'eredità dell'inventore della Apple. Sintesi dell'Economist: da una parte oggi nel mondo c'è chi considera inevitabile per la buona riuscita di un progetto la presenza di una leadership forte che sappia dare un valore aggiunto alla qualità di un prodotto; mentre dall'altra parte c'è chi considera pericoloso che il valore aggiunto di un progetto sia legato alla presenza di un'icona capace di dare un certo valore aggiunto a un determinato prodotto. Naturalmente qui si parla di Jobs, ci mancherebbe, ma a guardar bene il ragionamento del settimanale britannico sull'“era della tecnologia personale”, “sull'era delle aziende che vivono attraverso le scintille emotive prodotte dai suoi capi azienda”, contiene gli stessi, proprio gli stessi, spunti di riflessione che compaiono all'interno del dibattito politico più interessante che in questo momento esiste nel mondo del centrosinistra. Insomma, ragazzi: ma quale diavolo è il modello giusto di leadership con cui costruire l'alternativa ai nostri avversari? Davvero è preferibile un leader che dica sinceramente che il progetto viene ancora prima del leader che rappresenta quel progetto? O magari invece è preferibile un leader consapevole del fatto che un buon progetto può vivere soltanto se affiancato da un'interfaccia gagliarda che conosce tutti i trucchi per vendere al meglio il proprio prodotto? Insomma, che si fa qui? Si sceglie Bersani o si vota per Renzi?

    Bene: diciamo che in un certo senso la sfida tra il segretario del Pd e il sindaco rottamatore oggi comincia anche da qui. La sfida, sì: perché ormai, se mai ci fosse ancora qualche dubbio, di sfida si tratta. Renzi ufficialmente dà ancora l'impressione di tentennare – e un giorno lancia il sasso e il giorno dopo ritrae la mano, un giorno dice che si candida e un altro giorno dice che no no, per carità, la candidatura no. Ma ora che il sindaco ha scoperto definitivamente le carte sulla sua iniziativa di fine ottobre; e ora che Renzi non perde più occasione per criticare il leader del Pd (lo ha fatto anche ieri, rimproverando al Pd di essere irrilevante quando si schiera su posizioni barricadere e aventiniane) e per sibilare nell'orecchio del segretario una parola che di questi tempi il segretario avrebbe fatto molto volentieri a meno di sentirsi sussurrare (primarie, primarie, primarie, primarie!), i dubbi non ci sono più. E così, si può dire che da qualche settimana è cominciata ufficialmente la nuova campagna elettorale per le primarie del centrosinistra. Occhio però: al contrario di quello che si potrebbe credere, la leadership in quanto tale non è certo l'unica materia di contesa tra il sindaco e il segretario; ma rappresenta soltanto la superficie di uno scontro più profondo tra le due anime politiche che esprimono meglio di chiunque altro le piattaforme più rappresentative, e più alternative, del pensiero del centrosinistra. Certo, più si andrà avanti con la campagna elettorale e più le differenze che esistono tra Renzi e Bersani verranno sempre più a galla. Ma già oggi, in realtà, a due settimane dall'adunata renziana, è possibile tracciare un profilo chiaro di quali sono i punti fondamentali che caratterizzano la proposta alternativa con la quale il sindaco di Firenze proverà a sfidare il segretario del Partito democratico.
    Già, i contenuti.

    Una delle critiche che più di frequente viene rivolta all'aspirante leader del centrosinistra è proprio quella di aver creato un programma di leadership in cui, a parte la leadership, non è chiaro nulla di quali siano le proposte concrete con cui il sindaco ha intenzione di intraprendere la sua sfida al segretario. E' vero: Renzi, per restare nella metafora tecnologica, si è preoccupato molto di dare una veste grafica accattivante al suo progetto politico; ma allo stesso tempo, così dicono i suoi antipatizzanti, non ha mostrato altrettanta prontezza nell'elaborare un software capace di competere con gli altri prodotti in circolazione nel centrosinistra. Il sindaco di Firenze questo lo sa ed è per questo che negli ultimi tempi Renzi non fa che ripetere ai suoi interlocutori che la vera sorpresa della tre giorni fiorentina questa volta, più che i fuochi d'artificio, saranno i punti con i quali proporrà al paese il suo primo vero programma elettorale. I punti ancora non si conoscono di preciso; ma in fondo è sufficiente andare a studiare alcune tappe del percorso di Renzi nell'ultimo anno per capire due cose: sia quali sono le vere stelle fisse che costituiscono il pensiero renziano, sia quali sono le ragioni che hanno portato alla creazione di uno strano fenomeno che potrebbe essere riassunto con una domanda molto semplice: ma perché Renzi piace così poco ai dirigenti del Partito democratico? Perché il vecchio blocco figiciotto e postcomunista non nutre simpatia per il sindaco di Firenze? E in che senso, poi, nell'universo del Pd molti esponenti democratici per gettare cattiva luce sul sindaco lo trattano come se fosse una specie di “Berlusconi buono”?
    Ci arriviamo, ci arriviamo.

    Punto primo, e punto principale. E' opinione comune che alla base di quel sentimento di repulsione espresso contro Renzi da alcuni autorevoli dirigenti democratici vi sia uno degli argomenti intorno ai quali in questi mesi si è diviso più volte, e in modo più traumatico, il Partito democratico: la politica economica. Ma fermi, non sbuffate! Perché, sì, apparentemente la polemica potrebbe sembrare una di quelle sterili dispute sui massimi sistemi politici del mondo del centrosinistra ma questa volta è proprio questo il terreno su cui si è diviso in modo clamoroso l'universo del Partito democratico. Un tema cruciale questo non solo perché l'attualità politica costringe il centrosinistra a non balbettare troppo sull'economia ma anche perché in fondo è stata l'affidabilità su questi temi a consentire a Bersani di essere eletto segretario due anni fa – e si capisce dunque che criticare oggi quella piattaforma suggerita dal leader del Pd significa andare a toccare uno dei nervi più scoperti e più importanti del pensiero del partito. Ebbene, sì: sui temi di politica economica (temi sui quali Renzi segue spesso i consigli di uno degli economisti più cool del momento, Luigi Zingales, che il 28 sarà tra l'altro sarà uno dei relatori alla Leopolda) si può dire che il sindaco ha messo il dito nella piaga riformista del Pd. E' andata così quando all'inizio dell'anno nel Pd si è discusso su quale fosse la posizione giusta da prendere intorno alla rivoluzione marchionniana (“Io – disse Renzi – sto dalla parte di Marchionne, dalla parte di chi sta investendo sul futuro delle aziende, quando tutte le aziende chiudono, è un momento in cui bisogna cercare di tenere aperte le fabbriche”). E' andata così quando in primavera si è discusso su quale fosse la posizione giusta da prendere intorno alla non eccessiva propensione al riformismo del più importante sindacato italiano, la Cgil (a maggio Renzi ha deciso di tenere aperti i negozi in città nonostante la contrarietà di Susanna Camusso; a giugno Renzi ha polemizzato con Gad Lerner che lo attaccava per essere troppo marchionniano sostenendo “che si può essere di sinistra anche se non si ha la stessa posizione della Fiom”; e a settembre il sindaco ha criticato il segretario del Pd per essersi fatto troppo schiacciare sulle linee barricadere della Cgil, “io mi sono iscritto al Pd, non alla Cgil, fare le manifestazioni è facile, ma noi siamo pagati per risolvere i problemi della gente”). Ed è andata così infine anche durante gli ultimi mesi quando – tra una manovra e un'altra e un'altra e un'altra ancora – sulle giuste misure da prendere in campo economico Renzi ha espresso posizioni diametralmente opposte a quello del segretario. Bersani, e in particolare il suo braccio destro Stefano Fassina, considera niente affatto convincenti i punti relativi alla crescita indicati nella prima parte della famosa lettera firmata Draghi-Trichet, Renzi invece considera quella lettera (come Enrico Letta) “la giusta piattaforma da cui ripartire”, e non solo per quanto concerne la richiesta di maggiore flessibilità nel mercato del lavoro (Renzi non è contrario affatto a una revisione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori) ma anche per quanto riguarda il tabù dei tabù dei tabù: la riforma delle pensioni (“una manovra che non affronta la questione ineludibile della riforma delle pensioni – ha detto Renzi a fine agosto – non può che ridursi a quel che è: tasse, balzelli e tagli lineari. Che sono il contrario della capacità di scegliere e governare”). E così, non può stupire più di tanto che colui che in questi giorni ha lanciato il suo affondo più spietato contro il sindaco di Firenze sia stato proprio l'uomo scelto da Bersani per scrivere il programma economico del Pd: Stefano Fassina. “Più che un Big bang – ha scritto Fassina sulla sua pagina di Facebook due giorni fa – si preannuncia un Big bluff l'incontro alla Stazione Leopolda. Che noia, ragazzi. Matteo Renzi riscalda la solita ministra: ripropone come innovative ricette ideologiche vecchie di 20 anni e clamorosamente fallite. Se Matteo si fosse nella sua vita confrontato almeno una volta con il mondo del lavoro vero, oltre che con la carriera politica, avrebbe capito che favorire il licenziamento dei padri non aiuta affatto i figli, ma fa stare tutti peggio. Ma è possibile che l'orizzonte dei progressisti debba coincidere con il mix oggi di moda sui grandi media moderati: giovanilismo a volontà, più antipolitica, più una bella dose di retorica sulla flessibilità del lavoro? Dai Matteo, un po' di fantasia. La realtà va da un'altra parte!”.

    Economia e leadership a parte, c'è però un'altra caratteristica importante del profilo di Renzi che nel Pd si dice sia una delle ragioni principali che si nascondono dietro la profonda antipatia che il sindaco genera tra una buona parte degli ex diessini (tranne i veltroniani, che anzi in prospettiva sono destinati ad appoggiare Renzi nella sua galoppata anti bersaniana) e tra una parte dei cattodemocratici del Pd (Rosy Bindi in testa, che un mesetto fa, quando Renzi confessò a Repubblica di essere intenzionato a partecipare alle primarie, senza farsi troppi problemi, dopo aver citato a memoria il comma dello statuto del Pd che prevede la possibilità per il Pd di candidare per le premiership solo il segretario del partito, consigliò a Renzi di uscire dal Pd).
    La caratteristica di cui parliamo è legata al fatto che Renzi è, in fin dei conti, un cattolico anomalo per il Partito democratico. Anomalo perché in un partito come il Pd – in cui lo zoccolo duro degli iscritti proviene da una tradizione postcomunista di vecchi mangiapreti (si scherza eh) – la tentazione per i credenti democratici è quella di forzare così tanto il concetto dell'essere “cattolici adulti” fino al punto di andare a sacrificare alcuni dei famosi principi non negoziabili, in nome dell'altissima e fondamentalissima esigenza di farsi piacere a tutti i costi dal grande “popolo della sinistra”. Renzi, invece, anche a costo di non piacere alla nomenclatura de sinistra del Pd (e infatti Renzi ai vecchi comunisti non piace affatto: citofonare per saperne di più a Massimo D'Alema e a Matteo Orfini) non ha mai ceduto alla tentazione di rinunciare ad alcuni principi non negoziabili (vedi la fecondazione assistita, vedi l'interruzione di gravidanza). E – paradosso massimo per un piacione come lui – in nome di una fede più alta rispetto alla fede politica su molti temi di carattere bioetico (non su tutti, perché famosa è anche la frase che disse quando si insediò al comune: “Io sono stato eletto per fare il sindaco non per fare il vescovo!”) Renzi oggi non può certo essere accusato di essere stato travolto da chissà quale diabolicissima modernità.

    Ovviamente, la questione cattolica relativa al renzismo non può che essere collegata anche con quanto sta accadendo negli ultimi tempi attorno al tema del nuovo attivismo proprio del mondo cattolico. Che cosa c'entra Renzi con questa storia? Beh: c'entra, c'entra. C'entra perché forse il sindaco di Firenze non lo ammetterà ma la verità è che una delle sfide portate avanti da Renzi in questa fase è quella di mettere in pratica nel modo più moderno possibile la vecchia idea ruiniana: far emergere nella politica il pensiero cattolico non attraverso la costruzione di un ennesimo, nuovo e fumosissimo partito ma attraverso la formazione di una solida generazione di politici cattolici capaci di far emergere il loro credo all'interno di un grande e funzionale contesto bipolare. Anche se non se ne parla molto pubblicamente, la rappresentanza del pensiero cattolico nel centrosinistra è un tema di cui si discute molto nel Partito democratico. A nessuno, nel Pd, è sfuggito che la possibilità che la chiesa contribuisca a dar vita a una nuova formazione politica centrista rappresenterebbe una bella sberla non solo per i moderati del centrodestra ma anche per un partito come il Pd: nato non per offrire un nuovo tetto agli ex comunisti, agli ex pidiessini e agli ex diessini ma per mettere insieme due anime politiche che mai prima della nascita del Pd avevano provato a convivere insieme. Ed è anche per questo che tra i democratici è difficile trovare oggi qualcuno che non ammetta una cosa molto semplice: l'unico esponente del Pd che in questo momento potrebbe contribuire a combattere con efficacia la diaspora di elettori cattolici dal partito forse è proprio lui, Matteo Renzi.

    Tutto questo riguarda naturalmente la teoria del renzismo, poi però alla teoria vanno affiancati anche i numeri. E i numeri, intesi in questo caso come i sondaggi, al momento non sono troppo incoraggianti per il sindaco di Firenze (anche se dipende dai punti di vista naturalmente). Tutte le rilevazioni demoscopiche che circolano nel Pd sul peso della candidatura renziana confermano che le primarie oggi consegnerebbero una robusta vittoria all'attuale segretario (lo scarto è di sette punti, 35 contro 42). Renzi, almeno così gli dicono i sondaggisti, sa però che di questi numeri ci si può fidare fino a un certo punto e ai suoi interlocutori, quando parla di questo argomento, ripete spesso che nel momento in cui si candiderà la sua forza sarà quella di andare a solleticare, e a stimolare, quel famoso 40 per cento dell'elettorato italiano che al momento risulta essere non invogliato a dare il voto ad alcun politico. “Vedete: mi dicono spesso che sono ancora giovane, che è ancora troppo presto, che avrei ancora tempo per giocarmi le mie carte, che oggi non mi conviene scendere in campo, e che nel partito mi sono tutti contro: ma quando mi fanno questo ragionamento io me ne infischio, e rispondo sempre che non si può aspettare in eterno, che qui si sta per aprire una nuova era, che qui servono nuove idee, nuovi volti, nuove proposte, e che anche a costo di giocarmi tutto è giusto che qualcuno si prenda la responsabilità di dire le cose come stanno, e di spiegare perché il centrosinistra, e il mio partito, semplicemente, non può, e non deve, continuare ad accettare di non fare i conti con la modernità”. Le parole tra virgolette sono il succo politico del discorso che Renzi dovrebbe fare tra due settimane alla Leopolda e sarà più o meno questo il senso che il sindaco di Firenze darà a uno dei passaggi più significativi della sua carriera. Più significativi perché Renzi sa che forse per la prima volta il suo compito sarà quello di dimostrare tanto ai suoi ammiratori quanto ai suoi antipatizzanti sparpagliati qua e là in giro per l'Italia che il rottamatore è cresciuto, e ha capito che per non sprecare l'occasione del “big bang” bisogna dare l'impressione di essere capaci non soltanto a distruggere, e insomma a rottamare, ma anche di saper costruire qualcosa di concreto. Perché senza software – pardon: senza programma – si potrà essere anche i migliori venditori del mondo ma se non si ha niente da vendere alla fine tanto lontano non si va. E questo oggi finalmente Renzi lo sa.
     

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.