“Lasciateci fallire”, il paradosso che unisce draghetti e liberisti

Stefano Cingolani

“Lasciateci fallire in pace, banca fallita banca ripulita, l'azzardo morale non è morale”. I ragazzi che bivaccano davanti alla Banca d'Italia gridano slogan ed enunciano concetti che non s'erano mai sentiti. Se non, paradosso dei paradossi, in bocca a quelli che dovrebbero essere i loro più agguerriti avversari ideologici: i liberisti, nemici giurati dei salvataggi, convinti che siamo vittime di un intreccio perverso tra la plutocrazia e l'oligarchia, la maledizione delle 2 W, Wall Street e Washington. Sì, proprio così.

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    “Lasciateci fallire in pace, banca fallita banca ripulita, l'azzardo morale non è morale”. I ragazzi che bivaccano davanti alla Banca d'Italia gridano slogan ed enunciano concetti che non s'erano mai sentiti. Se non, paradosso dei paradossi, in bocca a quelli che dovrebbero essere i loro più agguerriti avversari ideologici: i liberisti, nemici giurati dei salvataggi, convinti che siamo vittime di un intreccio perverso tra la plutocrazia e l'oligarchia, la maledizione delle 2 W, Wall Street e Washington. Sì, proprio così; e a denunciarlo non è un giovane gauchiste newyorchese, né uno stagionato ribelle dei comitati di base, bensì Samuel Peltzman, guru della scuola di Chicago. Gerald O'Driscoll del Cato Institute, il tempio dei libertari americani, è venuto a Roma nei giorni scorsi e ha attaccato tutte queste confuse regole imposte per confondere gli ignari risparmiatori. John B. Taylor, un economista di destra (lo stesso che ha fornito alle banche centrali la regola aurea della politica monetaria) ha lanciato il più tagliente atto d'accusa contro le azioni e gli interventi del governo che “hanno provocato, prolungato e aggravato la crisi finanziaria”.
    Meglio non dirlo agli indignati che oggi invaderanno il centro di Roma, perché Taylor è stato sottosegretario al Tesoro nella prima Amministrazione di George W. Bush. Ed è meglio non ricordare loro che la pensano così anche Luigi Zingales, Antonio Martino, Alessandro De Nicola, Alberto Mingardi e, con loro, il fior fiore dei “mercatisti” italiani. La corrispondenza d'amorosi sensi, in realtà, si ferma alla denuncia, perché in tutto il resto sono agli antipodi.

    I liberisti vogliono che venga ripristinato il dovere di fallire per tornare alla disciplina di mercato. Gli indignati, al contrario, predicano il default per dimostrare fino in fondo che il capitalismo provoca solo disastri. In mezzo, incerti e confusi, si trovano conservatori e riformisti. I primi perché vogliono difendere antiche certezze, interessi garantiti, un sistema spartitorio e neocorporativo che ha contribuito alla scalata del debito. I secondi perché desiderano cambiare con aggiustamenti progressivi lo stato sociale. Conservatori e riformisti accettano il paradigma della Bce e del Fmi; temono che la caduta di una banca europea travolta dai debiti sovrani inneschi una reazione a catena, come è accaduto per Lehman Brothers; non sopportano che un piccolo paese come la Grecia possa far saltare il grande sogno della moneta unica, primo passo di una federazione europea; insistono nel dimostrare, cifre alla mano, che il fallimento finisce nelle tasche dei piccoli risparmiatori (come è successo con l'Argentina, con Cirio, con Parmalat).

    Ma i paradossi non sono solo in questi improbabili ponti ideologico-politici. Nel raduno odierno a Roma, durante la giornata internazionale dell'indignazione contro tutto e contro tutti, confluiscono soggetti e idee che dieci anni fa s'erano già visti e sentiti nel movimento no global (Naomi Klein, rimasta da un po' di tempo nel sottoscala, è tornata sul proscenio). Insieme a loro si mescolano i centri sociali, gli antagonisti, la Fiom, il sindacato che ha smesso di fare il sindacato per diventare il nerbo della resistenza sociale. Falce, martello e ribellismo gauchiste, sinistra storica e situazionismo, nutrono la generazione “privata del futuro” (uno degli slogan più diffusi), i figli che non vogliono pagare i debiti accesi dai padri, anche se, senza quei debiti, loro non avrebbero nemmeno un diploma. Non ci sarebbe la cassa integrazione che ha impedito un balzo dei disoccupati come negli Stati Uniti. E la scuola che soffre, ma finora è aperta a tutti fino all'università trasformata in parcheggio. Un posto fisso nessuno al mondo è più in grado di garantirlo. Un posto di lavoro serio e una buona paga dipende anche da quel che loro sanno e sanno fare. Quelli che hanno attaccato Goldman Sachs a Milano, sono stati respinti dai dipendenti della banca i quali, anche se guadagnano bene, sono funzionari del capitale, non capitalisti. Mao Tse Tung avrebbe parlato di contraddizioni in seno al popolo. Ma tant'è. Bisogna pur arrivare al momento di dire basta. E poi fare che cosa?

    “Ci stanno lasciando in mutande – proclamano i rappresentanti dell'organizzazione che ieri ha fatto irruzione a piazza Montecitorio –. E' sintomatico di quanto la politica si trinceri nei palazzi, allontanandosi dal popolo, ma soprattutto dai giovani. A chi dice che facciamo solo proteste e nessuna proposta, rispondiamo così: rivedere il modello del welfare, pensare a una riconversione ecologica, ma soprattutto rilanciare la politica che ormai ha abdicato di fronte alla finanza”. Dunque, non è vero che, una volta fallite le banche e i corrotti governi, tutto ricomincia come prima, spendendo e spandendo? Hanno torto i tedeschi i quali pensano che la dissipazione è la causa di tutti i mali, e il paradiso dei dissipati si trova nel Mediterraneo? No, gli indignati vantano un pensiero teorico, fornito dagli intellettuali più attrezzati.
    Il manifesto ha pubblicato il 5 ottobre un articolo di Guido Viale intitolato “Come guidare il default italiano”. Proprio così, guidare non evitare. “Quello che stiamo vivendo – scrive – è il default come processo”. Prendiamo la Grecia: “Le politiche imposte dalla troika (commissione Ue, Bce e Fmi) ne strangolano l'economia rendendo irreversibile la corsa al default. Perché allora non impone subito un default pilotato? Perché nel frattempo, con la scusa di evitarlo, la depreda”. E l'Italia? “Il programma di governo di Draghi e Trichet è uguale… Ha la minima possibilità di rimettere in sesto l'economia italiana? Di rilanciare la crescita (parola magica e assolutamente vuota…)? Dimenticando tra l'altro che la crescita (del pil) si sta dileguando in tutta Europa e segna il passo, o sta per farlo, anche nei paesi emergenti… L'economia italiana, quand'anche raggiungesse il pareggio del bilancio, avrebbe sempre 70 miliardi di interessi da sborsare ogni anno, il 5 per cento del pil, in più, per rispettare il patto euro-plus, dovrebbe recuperare ogni anno un altro 3 per cento”.

    Cifre vere, analisi fondata. Viale è uno dei teorici della riconversione ecologica che appare sugli striscioni di draghetti e dragoni indignati. Vaste programme, una operazione di decenni. Come realizzarla, attraverso il mercato, magari con qualche spintarella? No. E qui il nuovo si ricongiunge al vecchio; non più draghi (con la minuscola), ma serpenti che si mangiano la coda. Perché come levatrice del futuro rispunta la spesa pubblica. Lo dicono gli accampati di Wall Street, lo ripetono i campeggiatori di via Nazionale. Dunque, si va in piazza per un Leviatano benevolente? O per Dionisio di Siracusa? Sì, la storia del tiranno che vendette Platone come schiavo è davvero illuminante: non potendo ripagare i propri debiti, ritirò tutto il denaro circolante e fece coniare una litra di bronzo dal peso esattamente dimezzato, decretando che valeva come una dracma d'argento. La moneta cattiva caccia quella buona, avrebbe scritto Aristofane nelle “Rane”. Per le finanze dello stato fu un sollievo. Per i cittadini una rovina. E' questo il default?

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