Dai vecchi maestri
Finita la lotta di classe. Gli indignati hanno pagato la crisi
Ma i vecchi maestri che un tempo studiavano come entomologi l'organizzazione del lavoro, la nuova fabbrica e vivevano nell'esaltazione della lotta operaia, i cattivissimi maestri di gioventù, che penseranno mai del tempo presente? Di questi strani giorni in cui un presidente del Consiglio va in Parlamento, dice en passant che la lotta di classe è morta e sepolta e le parole cadono nell'indifferenza generale, eppure è la prima volta nella storia repubblicana. In cui il capo Fiat detta la linea, come vuole la tradizione della casa, ma è una linea a pensarci bene pazzesca.
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Ma i vecchi maestri che un tempo studiavano come entomologi l'organizzazione del lavoro, la nuova fabbrica e vivevano nell'esaltazione della lotta operaia, i cattivissimi maestri di gioventù, che penseranno mai del tempo presente? Di questi strani giorni in cui un presidente del Consiglio va in Parlamento, dice en passant che la lotta di classe è morta e sepolta e le parole cadono nell'indifferenza generale, eppure è la prima volta nella storia repubblicana. In cui il capo Fiat detta la linea, come vuole la tradizione della casa, ma è una linea a pensarci bene pazzesca: chi vuole fare correttamente il proprio mestiere di imprenditore prenda maglione e vada via da Confindustria, come prima di lui altri, pochi, che avendo del loro e non dovendo nulla alla politica in Confindustria non sono mai stati e per allargarsi e investire hanno scelto l'America. Che penseranno mai di una Banca centrale europea che vive di legittimità indiretta e impone condizioni rigide ai popoli e ai governi del continente. O di queste convulsioni che si accavallano, di un sistema che sembra in affanno e sorretto da un paese ufficialmente comunista, paradosso gustoso che non sarebbe venuto in mente nemmeno al più provocatore dei surrealisti. Come vedono infine il cosiddetto pensiero unico, che poi vuol dire, in modo meno ansiogeno, che siamo tutti sullo stesso treno, da cui nessuno può scendere senza farsi male?
Dai vagoni non si vede quasi mai o troppo tardi quello che accade nella sala macchine della locomotiva: quel capitale di cui una volta si cercavano ossessivamente cuore e cervello per impedirgli di funzionare oggi non si sa più dove sia, forse Marx è davvero a Detroit, forse nella Silicon Valley o a Francoforte o a Pechino, viene così il sospetto che sia ovunque sulla terra, in ogni luogo, potere immanente e totale, nuovo Leviatano a cui nessuno può più sottrarre la propria vita individuale, a cui nessun potere è più in grado di opporsi, meno che mai la politica.
Sono domande che la cultura di destra non si pone. E quando se le pone può permettersi il lusso di dare risposte parziali o di non rispondere affatto. Ma la sinistra no, a lei tocca dare risposte. Così sono tornato dalle parti dei maestri di un tempo.
Che ci insegnavano a non parlare di sfruttati e sfruttatori, di proletari e borghesi, a diffidare della cattiva ideologia, a evitare la deriva piagnona di chi scommette sulla povertà crescente del mondo e non sull'ottimismo feroce, insaziabile del capitalismo. E' una brutta bestia, dicevano, un animale in movimento che non è mai dove credi che sia e se lo prendi per la coda, c'è rischio che finisca in tragedia. Ma era addirittura da ringraziare per avere generato dal suo ventre la sola forza in grado di abbatterlo e di cambiare l'epoca: non più solo sfruttati, non più genericamente proletari, ma operai.
Operai contro il capitale e la potenza ostile delle macchine. Una eresia rispetto alla religione del tempo, al marxismo della cattedra, alla vita sonnacchiosa degli apparati sindacali e dei partiti della sinistra. La ragione d'essere del movimento operaio piantata come un cuneo nel vivo del rapporto di produzione e del rapporto di forza. E proprio “Operai e capitale” si chiamava quella raccolta di saggi, pubblicata da Einaudi quasi mezzo secolo fa. E che ebbe l'effetto di una deflagrazione. Fece proseliti e convertiti, divenne libro di culto per generazioni intere. Non fu solo una “fortunata invenzione semantica”. Incrociò lotte vere di operai veri, difficoltà serie di veri capitalisti costretti ogni giorno a reinventare un futuro. Permise di capire quello che accadeva ogni giorno dentro e fuori le fabbriche, a Mirafiori, alla Spa di Stura, al Lingotto, alle Ferriere, alla Olivetti. Fu l'inizio di una stagione i cui esiti si sono protratti fino a noi: la forza impose diritti, i diritti furono considerati acquisiti, vissuti come irreversibili e intangibili. Si fecero corpo giuridico, divennero giurisprudenza: è lo Statuto dei lavoratori, quegli articoli che molti oggi vorrebbero se non abolire quanto meno opacizzare.
Il sindacato fu costretto a mutare pelle, nacque la rete dei delegati e dei consigli di fabbrica. I metalmeccanici si portavano, andavano di moda, entravano nei romanzi, nell'immaginario attraverso il cinema. Non più immigrati sradicati dal sud e aspirati dal nord per lavorare alla catena di montaggio e vivere in appartamenti collettivi dove i letti venivano affittati per otto ore, tanto durava il turno in fabbrica. Ma avanguardia di un nuovo mondo. Persino i segretari delle tre federazioni, Bruno Trentin, Pierre Carniti e Giorgio Benvenuto, giovani, brillanti, cercati dai media, sembravano uno e trino. Avevano le facce giuste, facce che Hollywood avrebbe senz'altro scelto per un film sull'avventura di una liberazione.
Gli Agnelli un po' ressero il gioco, da capitalisti illuminati, un po' si misero paura. Cominciavano a convincersi che la crisi avrebbe portato a una drastica riduzione del numero di costruttori nel mondo, a pensare quindi a una fuoruscita possibile dall'auto. Non ne ebbero bisogno: lo spirito animale vinse. Crisi, stagnazione, inflazione. E nel 1980 la botta finale, quei quarantamila colletti bianchi in piazza voluti da Cesare Romiti che irruppero sulla scena come simulacro di guerra civile. Ogni cosa tornò al suo posto. Fu vittoria, la grande vittoria del grande capitale. La cui cultura tornò a essere egemone. Nasce lì il pensiero unico. Un monologo lungo trenta anni.
Oggi delle poche grandi fabbriche rimaste colpisce di più l'assenza, il vuoto lasciato dalle continue riorganizzazioni produttive e dalle innovazioni tecnologiche. Fabbrica senza operai e fabbrica diffusa sul territorio, piccoli imprenditori, il popolo cosiddetto della partita Iva. Un fronte di poteri divisi, di interessi disomogenei. La lotta di classe è data per estinta, a manifestare per strada sono per lo più i pensionati o le truppe emergenti e strane degli indignati. I metalmeccanici sono ridotti alla porzione congrua, un residuo. Ogni volta che Maurizio Landini, attuale segretario della Fiom Cgil, compare in televisione a difendere cause per lo più disperate viene un groppo alla gola, come fosse un don Gallo laico, un qualunque responsabile di organizzazione umanitaria non governativa. Non è colpa sua. Ma dello scarto tra ieri e oggi, di un segno anche visivo di quella terribile sconfitta.
L'autore di “Operai e capitale” si chiama Mario Tronti. Fu ben strano maestro. Vagheggiava di Lenin in Inghilterra e di Marx a Detroit ma come un Salgari del pensiero lasciava Ferentillo, borgo fra Terni e Spoleto, solo se costretto, il più delle volte verso Siena, dove per trenta anni ha insegnato all'università, sempre da professore associato. Quando parla lo fa in modo rapsodico, per frammenti, con frequenti pause, piuttosto sollevato di parlare a pochi, mai a molti come insegnava Kojève. Quando scrive lo fa con uno stile martellante, ossessivo, apodittico, tesi e antitesi senza sintesi perché la sintesi, dice, è il terreno del potere. Per questo fu non poco criticato. Se poi si pensa che mise insieme il Marx meno conosciuto e il pensiero negativo, che fu attento ai grandi pensatori reazionari come Del Noce e Joseph de Maistre, che tenne insieme la scintilla di Lenin e le avanguardie artistiche e letterarie dell'inizio del Novecento, si può capire quanto fosse fuori dal coro. Non è mai stato in televisione. Perciò per i tempi che corrono sarebbe anche ragionevole dubitare che sia mai esistito.
Invece c'è. E ha da poco compiuto ottanta anni. Qualche giorno fa a Roma, al Palladium, ex cinema nel cuore del quartiere della Garbatella da poco restaurato, è stato festeggiato dagli amici come si usa in quel mondo: un dibattito di quelli tosti, “Saggezza e politica”. Pietro Ingrao, che va verso i 97 e ha aperto pure un sito in rete per vedere come funzionano le nuove tecnologie, gli ha inviato un messaggio formale di auguri, per l'insieme della sua opera. Poi però ha preso anche il telefono: “Mario ma che è questa storia della saggezza, non capisco, sei sempre stato un matto, hai inventato e creato dal nulla”. Tronti gongolante dice di averlo rassicurato quanto alla stato della sua follia, il vecchio saggio fa più orrore del giovane moderato, e poi la saggezza in questione non può essere quella consolatoria degli antichi, ma quella inquietante, di Montaigne e dei moderni. Ed è vero che ha creato e inventato ma le cose non sempre sono andate nella direzione prevista.
E' sempre stato così, Tronti. Per contenere la rabbia che ogni mattina prova di fronte a questo ordine del mondo, a questa forma della politica, allo spettacolo arrogante e rozzo della ricchezza si è messo a studiare le tecniche “tao chi”. In una conversazione con Pasquale Serra, apparsa nell'ultima raccolta di saggi, “Dall'estremo possibile” (titolo dai toni vagamente cupi ed esplicitamente rubato a Massimo Cacciari), non rinuncia mai alle battute fulminanti. Su di sé, con più voluttà contro gli altri, contro quelli del pensiero confuso. Dice che solo negli anni Sessanta è riuscito, brevemente, a incontrare lo spirito del tempo, che da allora ha nuotato controcorrente ed è sopravvissuto per una ragione semplice, perché scomparso alla vista. Nel tempo dell'apparire ci si salva solo scomparendo. Si tura le orecchie appena sente “I have a dream”, come avranno reagito quelle di Veltroni. Obama è un'illusione. Tra politica e modernità, spiega, si è stretto un patto demoniaco che se lo incontri non lo eviti. E se lo eviti diventi post moderno cioè niente, aria fritta.
Uomo indissolubilmente legato al Novecento, dice che è l'immagine tecnologica del mondo a rimandarci l'illusione di un mai esistito prima. Sotto resta la permanenza della struttura umana che sovrasta secoli e millenni. Non parlategli di nuovismo. Né di antipolitica. Quella pericolosa, dice, è di sinistra, viene da lontano, la sentiva venire addosso addirittura dagli eccessi movimentisti degli anni Sessanta. La pretesa di fare politica con l'idea che da Machiavelli a Weber ci sia a questo punto un cimitero di cani morti è roba che solo la stupidità della reazione antinovecentesca poteva produrre. L'immaginazione del 1968, siccome non è andata al potere, è andata all'opposizione del potere. Un disastro: perché quelli che comandano stanno ben fermi al principio di realtà, sono quelli che contestano a vedere la realtà col principio del desiderio. La politica deve essere un insieme di intelligenza e di esperienza, un intelligente inesperto e un cretino esperto possono fare gli stessi danni.
I giovani e i giovanissimi sono gli interlocutori a cui è più affezionato: sono portatori della tragedia, il loro tragico è il concreto, la realtà del vivere quotidiano come scarto oggi incolmabile tra il si deve e il si può. Ma agli indignados che dicono “non pagheremo noi la vostra crisi”, risponde accorato che sono ingenui, non si rendono conto che l'hanno già pagata. Difende il 40 per cento di no all'accordo di Pomigliano, ma si sente che è difesa d'ufficio, fatta con il cuore più che con la ragione. Dice che i soli che abbiano provato a fare la sintesi del secolo passato sono stati quelli della rivoluzione conservatrice fino ai neocon americani, la sintesi non è riuscita e non sa dire se per fortuna o per sfortuna, perché è sempre meglio aver di fronte un avversario riconoscibile e di tutto rispetto che non un avversario che prende le forme del caro amico e del possibile alleato, è allora che tutto si confonde. Cosa siano il comunismo e la lotta per il comunismo, lo riassume con le parole di Renato Zero, un padre che torna a casa dal lavoro, mette sul tavolo il pane e un fiasco di olio e cerca di risparmiare soldi per comprare un libro al figlio. La rude razza pagana vira al pop, variante sorcino: una ragione in più per andare a dare un'occhiata al cinema Palladium, alla festa dei suoi ottanta. A lui e agli amici di una vita, Alberto Asor Rosa, Massimo Cacciari. Manca Toni Negri: Tronti perfidamente lo dà per smarrito tra lo studio della produzione immateriale e la fenomenologia del comune nel senso amministrativo del termine. Cerco un barlume di luce, non dico una candela, quanto meno un fiammifero, un qualcosa che come mezzo secolo fa aiuti ad afferrare un brandello di realtà.
Anche perché lui non ci sta a essere ricordato come fondatore e teorico dell'operaismo. Sa che finirà così e per questo raccomanda sempre agli allievi di non scrivere mai un libro di successo da giovani perché poi sono guai. Mantiene un pensiero inquieto, svolta di netto ogni paio di anni, va avanti, torna indietro, giravolte, curve. Confesso di averlo perso alla seconda, se non ricordo male: l'autonomia del politico, la riaffermazione della necessità del partito e della sua supremazia. Parve fuori luogo e fuori tempo massimo, rispetto al tramonto delle forme del movimento operaio già percepibile alla fine degli anni Settanta.
La Garbatella è un quartiere che non si attraversa, ci si va solo se ci si deve andare. L'ultima volta che andai, c'erano reparti della celere e barricate, il fumo dei lacrimogeni stagnava tra i lotti delle case popolari, ricordo che non si vedeva a un metro e ogni tanto si sentiva il botto delle molotov. Era ancora il tempo dei dinosauri. Oggi è un quartiere trendy, sa di intellettuali con Repubblica sotto il braccio e di professori della vicina università.
Sala gremita, posti in piedi, in platea e in galleria: una sorpresa. Molti si riaffacciano dal passato, ma molti sono giovani, altra sorpresa. La terza, la presenza, sul palco, di Massimo D'Alema. Che esordisce con una battuta, mi hanno affibbiato il titolo di relatore, c'è da temere che dopo ci sarà un dibattito. Si vola alto, è sempre stato così il cenacolo, mette un po' a disagio, Hegel e Marx e Weber, Della Volpe e Colletti, la tirannide secondo Leo Strauss e secondo Alexandre Kojève, Montaigne, la seconda lettera di Paolo a Timoteo. E poi quella domanda che Gesù fece agli Apostoli, “Voi chi dite che io sia?” e che il Pd, questo sconosciuto secondo Tronti, dovrebbe rivolgere ai suoi militanti, al suo popolo. Mai Berlusconi, vivaddio ci sono ancora posti dove viene visto come parte di un tutto e non come il tutto di una parte sola. Si avverte in giro nostalgia di Novecento. Che pure non si è concluso con un trionfo per la sinistra. Ci pensa D'Alema a ricordare che nell'ultimo decennio del secolo era al governo in Italia e nei principali paesi europei, ma non ha saputo cosa fare ed è stata sonoramente sconfitta.
Non pare sia un problema di un Tronti, ormai interessato ai cicli lunghi della storia, che se ne va su e giù per rivoluzioni borghesi e crollo dei muri. E' più che mai convinto che un giorno si arriverà a sciogliere il nodo, perché questo ordine del mondo apparirà sempre più insopportabile. Ma vive la disperazione “dall'estremo possibile”. Secondo Cacciari è disperazione da assenza del soggetto. All'orizzonte non si vede. Non lo sono i giovani, né i movimenti, né i precari. Non si sa dunque chi. Né quando. I miei vecchi maestri, quelli del “qui e ora”, vagano prigionieri del lungo periodo. Come cantavano i Nomadi, “per mille secoli almeno, ma noi non ci saremo”.
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