Quanti inganni nei lamenti apocalittici sui tagli alla spesa pubblica
Gli ultimi a protestare sono i poliziotti. “Indignati siamo noi”, gridano, e non solo perché sono al fronte contro autonomi, antagonisti, black bloc. Ma perché debbono anche tirare la cinghia. Se la cavano meglio le mezze maniche che siedono davanti alle scartoffie dei ministeri: hanno salvato infatti i buoni pasto, simbolica incarnazione della lotta di classe nel Secondo millennio. Tagli, tagli, apocalisse della spesa pubblica: “Macelleria sociale”, “rigore a senso unico”, “manovra recessiva”.
Gli ultimi a protestare sono i poliziotti. “Indignati siamo noi”, gridano, e non solo perché sono al fronte contro autonomi, antagonisti, black bloc. Ma perché debbono anche tirare la cinghia. Se la cavano meglio le mezze maniche che siedono davanti alle scartoffie dei ministeri: hanno salvato infatti i buoni pasto, simbolica incarnazione della lotta di classe nel Secondo millennio. Tagli, tagli, apocalisse della spesa pubblica: “Macelleria sociale”, “rigore a senso unico”, “manovra recessiva”. La battaglia contro la riduzione della spesa pubblica accomuna ministri e sindaci, governatori e consiglieri provinciali, sindacati e precari, in un abbraccio trasversale: perché non c'è opposizione o maggioranza che tenga, dividere la torta è l'arte della politica nell'era post ideologica. Ma davvero le cose stanno così? Oppure siamo di nuovo davanti a una commedia all'italiana, anzi a una farsa?
Ogni legge finanziaria dalla sua istituzione, nel 1978, a oggi, ha annunciato tagli alla spesa pubblica eppure il debito è balzato dal 63 al 120 per cento. La crisi del 2008 ha dato l'ultima spinta all'insù, però la scalata resta impressionante. Dal 1991 il trattato di Maastricht avrebbe dovuto imporre una fiera disciplina di bilancio, eppure la spesa pubblica è passata dai 373 miliardi di euro del 1990 agli 800 miliardi di euro del 2010, rimanendo attestata a oltre metà del prodotto lordo. Nel frattempo, la pressione fiscale è salita di sei punti di pil (dal 38 del 1990 a quasi il 44 per cento del 2010) e il totale delle entrate pubbliche è aumentato di oltre cinque punti (dal 41,8 del 1990 all'attuale 47 per cento). Il debito pubblico che allora era il 90 per cento del pil, è quasi triplicato: da 663 miliardi di euro a 1.911 miliardi ed è oggi il terzo al mondo. Da almeno tre decadi, i ministri del Tesoro, tutti nessuno escluso, mettono mano alle forbici. Qualcuno ha fatto ricorso all'ascia, qualcun altro avrebbe voluto la ghigliottina, ma la cura della lama è una costante storica. E non è servita a nulla. Un mistero che la stampa non racconta e la politica rende più oscuro con tutto questo gridare al lupo al lupo. A leggere bene le cifre, però, una spiegazione si trova.
La prima, più facile: nonostante siano aumentate in modo costante, le entrate non sono riuscite a compensare le uscite. La seconda è che la spesa pubblica non si è mai ridotta davvero. Il segreto di questo paradosso sta nel meccanismo con il quale viene costruito il bilancio di riferimento. Si parte dall'anno in corso, stabilendo come base la spesa erogata, di qui s'abbozza una stima del fabbisogno per l'anno successivo. Il Tesoro decide se è compatibile con i criteri di Maastricht, tenendo conto della congiuntura; e mette mano ai ferri. Ma, attenzione, riduce i valori tendenziali, non quelli storici. In altre parole, ogni ministero avrà sempre qualcosa in meno di quel che avrebbe voluto, ma qualcosa in più di quel che ha già speso.
Ecco qualche esempio con le cifre attuali. Secondo il servizio bilancio del Senato, nel 2012 senza la manovra di luglio (quella di agosto ritocca un po', ma non cambia la sostanza) il totale delle spese sarebbe stato di 844 miliardi di euro l'anno prossimo. Giulio Tremonti l'ha ridimensionato a 829 miliardi. Ma, spiegano ancora i tecnici di Palazzo Madama, nel 2010 sono stati spesi 809 miliardi, quindi “l'austerità” del Tesoro lascia in realtà a disposizione altri 13 miliardi rispetto all'anno precedente. Troppo poco? Forse, ma comunque è un segno più, non meno.
Per la prima volta, Tremonti introduce due varianti importanti rispetto a questo sistema perverso all'origine del debito pubblico italiano. La prima è il blocco degli stipendi degli statali, fissando la retribuzione al 2010. Quindi, un taglio vero, non solo tendenziale. La seconda novità è il tetto all'acquisto di beni e servizi delle amministrazioni pubbliche, tuffando il bisturi in un pozzo nero praticamente incontrollabile. La riduzione va dal 3 per cento per lo stato centrale al 5 per cento per gli enti locali. E riapre la querelle sui tagli lineari o mirati. Ma il diavolo s'annida anche qui nei dettagli. Le spese sono attribuibili per un quinto ai ministeri, il resto proviene dalle amministrazioni locali, particolarmente incontrollabili. Mentre le prime suscitano le ire del ministro dell'Ambiente, Stefania Prestigiacomo, le altre portano in piazza le mamme che gridano contro la chiusura degli asili nido comunali o la riduzione dei posti letto negli ospedali. Ebbene, i consumi intermedi ammontavano a 137 miliardi che salgono a 144 nel tendenziale, cioè il valore rispetto al quale si calcolano le riduzioni. Si tenga conto che nel 2004 erano stati erogati 113 miliardi. Di questi, 53 miliardi provenivano dagli acquisti nella sanità che oggi sono arrivati a 77 miliardi. Dunque, ancora segno più, non meno. Ce n'è di grasso da raschiare, persino troppo. Ci sono i fondi perduti, alias trasferimenti in conto capitale che ammontano a 43 miliardi, 15 dei quali per le sole ferrovie. Ci sono le false pensioni di invalidità, i prepensionamenti che sono solo aiuti impropri a imprese fallite, e via via spalmando.
Altro che rigore. Nessuno riesce a fermare la scalata inesorabile della spesa pubblica. Per inseguirla si aumentano le tasse, riducendo il reddito disponibile di chi le paga. Qui davvero s'annida il rischio recessione, non nell'eterna farsa dei tagli.
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