It's the economy, Bersani
Con gli indignados o contro gli indignados? Con Marchionne o contro Marchionne? Con Draghi o contro Draghi? Con l'Europa o contro l'Europa? Con la Bce o contro la Bce? Con Ed o con David? Con Blair o contro Blair? La storia che vi stiamo per raccontare riguarda la battaglia più violenta che si sta combattendo in questi mesi all'interno del Partito democratico. Per carità, no: qui non c'entra nulla il quotidiano battibecco tra il segretario del Pd e il sindaco di Firenze, non c'entra nulla la nuova polemica sulle conseguenze del voto in Molise, non c'entra nulla l'annosa questione delle grandi o delle sante alleanze.
Con gli indignados o contro gli indignados? Con Marchionne o contro Marchionne? Con Draghi o contro Draghi? Con l'Europa o contro l'Europa? Con la Bce o contro la Bce? Con Ed o con David? Con Blair o contro Blair? La storia che vi stiamo per raccontare riguarda la battaglia più violenta che si sta combattendo in questi mesi all'interno del Partito democratico. Per carità, no: qui non c'entra nulla il quotidiano battibecco tra il segretario del Pd e il sindaco di Firenze, non c'entra nulla la nuova polemica sulle conseguenze del voto in Molise, non c'entra nulla l'annosa questione delle grandi o delle sante alleanze e non c'entra nulla l'eterno, eccitantissimo scontro tra i Walter Veltroni e i Massimo D'Alema. No: la battaglia di cui vi daremo conto si riferisce a un tema ben più importante che in un certo senso costituisce il vero architrave del progetto del Pd. “It's the economy, stupid”, verrebbe da dire citando il vecchio tormentone clintoniano. E in effetti di questo si tratta. Perché tra una manovra e un'altra, una finanziaria e l'altra, un declassamento e un altro, un ammonimento dell'Europa e un altro, alla fine, di questi tempi, a combattere la grande guerra sull'economia non sono soltanto le forze della maggioranza ma sono anche (se non soprattutto) le forze dell'opposizione, e in particolare del Pd. Si dirà: ma no, ma dai, ma che stai dicendo? Ma come si fa? Ma come è possibile che sia in corso una battaglia tra le forze dell'opposizione sui temi delle politiche economiche in un momento in cui i famosi mercati (ah, i mercati…) chiedono a tutti risposte chiare proprio sui temi di politica economica? Strano, è vero, eppure possibile. Possibile cioè che il maggior partito d'opposizione riesca a balbettare su questi temi in una fase in cui il maggior partito d'opposizione avrebbe invece bisogno di dimostrare a tutti di essere un'alternativa credibile per guidare il paese. E si capirà dunque che mazzata deve essere stata ieri mattina per un'opposizione come il Pd che negli ultimi tempi ha dimostrato di essere così sensibile a tutte le severe richieste che arrivano dai famosi mercati (ché Berlusconi si deve dimettere perché lo chiedono i mercati, ché il governo deve andare a casa perché lo chiedono i mercati, ché questa maggioranza non si tiene in piedi come dimostrano i mercati) aprire il Wall Street Journal a pagina quindici e leggere il severo commento riservato dalla bibbia dei mercati non a Silvio Berlusconi o a Domenico Scilipoti o a Marco Pannella ma bensì al Pd: “Un partito bravo a criticare il Cavaliere ma incapace di dare le risposte giuste sulle politiche economiche”. Si dirà, ancora: bella forza, certo, ci riporti le parole di un giornale conservatore, e che ci vuole. Vero. Peccato però che le parole usate ieri dal Wall Street Journal siano così simili a quelle scelte due mesi fa da un altro giornale non esattamente conservatore che in teoria dovrebbe essere persino amico del Pd. Il giornale è Repubblica e le parole tra virgolette sono di Tito Boeri. E' il 27 agosto. Boeri è spietato: “Purtroppo il decalogo di proposte presentato da Bersani martedì alla stampa e mercoledì alle parti sociali non ha né i numeri, né i contenuti per riuscire nel suo intento. Era stato preannunciato come una vera e propria contro-manovra. Di contro nel decalogo c'è molto. Di manovra molto meno. Più o meno un decimo di quanto sarebbe necessario”.
Wall Street Journal e Repubblica a parte, si può dire che, per stare all'attualità politica, l'occasione più recente in cui Bersani si è ritrovato a fare i conti con le più esplicite manifestazioni di dissenso rispetto alla sua politica economica è stata registrata appena poche settimane fa durante l'ultima direzione convocata dal partito, quando il vicesegretario del Pd (Enrico Letta) e il braccio destro del segretario nonché responsabile economico del partito (Stefano Fassina) si sono ritrovati a bisticciare in modo plateale, davanti a tutti, su un argomento di politica economica non esattamente secondario. In sintesi: che fare, che dire e che linea prendere a proposito della famosa lettera della Bce firmata da Mario Draghi e Jean-Claude Trichet. Secondo Letta (dunque secondo il numero due del Pd) “i contenuti della lettera di Draghi e Trichet rappresentano la base su cui impostare politiche per fare uscire l'Italia dalla crisi”; mentre secondo Fassina (dunque il numero uno del Pd sui temi di politica economica) quella lettera altro non è che una “ricetta neo liberista riproposta dalla Bce, prima che iniqua semplicemente irrealistica”. Ecco: si può dire che è proprio attorno alla valutazione dei contenuti della lettera della Bce che nel Pd sono emersi i due fronti che negli ultimi tempi si stanno scontrando all'interno del partito. Il primo fronte (che potremmo definire fronte di nostalgici blairiani) è quello di cui fanno parte i così detti riformisti del Pd ed è un fronte che valuta in modo positivo le indicazioni sulla crescita presenti nella prima parte della lettera della Bce (privatizzazioni, liberalizzazioni, riforme delle pensioni, riforme del mercato del lavoro, abolizione dell'articolo 18, eccetera eccetera). Il secondo fronte (che potremmo invece definire di tendenza neo-laburista-anti-blariana-anti-giavazziana) è invece quello di cui fanno parte i dirigenti vicini al segretario del Pd (Stefano Fassina, Matteo Orfini, e giù di lì) ed è un fronte che valuta in modo molto, molto, molto negativo le indicazioni sulla crescita presenti nella prima parte della lettera della Bce (considerate simbolo di un inaccettabile paradigma neo liberista e di una deriva giavazziana delle politiche economiche da combattere ovviamente con tutti i mezzi possibili). Bene: la novità politica delle ultime settimane è che il secondo fronte (di cui per inciso fa parte il segretario) si sta ritrovando a poco a poco sempre più in minoranza numerica all'interno del partito. E di fatto, negli ultimi tempi, contro le idee di politica economica espresse dal segretario e dal suo braccio destro è maturato un fronte robusto e trasversale di dirigenti che va da Walter Veltroni a Giuseppe Fioroni, da Enrico Letta a Dario Franceschini, da Romano Prodi a Matteo Renzi, e che con le buone o con le cattive sta provando da tempo a far di tutto per correggere in corsa la rotta “sinistra” imboccata dal Pd.
Sinistra, già.
“Non so se è chiaro – dice Stefano Ceccanti, senatore del Pd, veltroniano e assai critico con la linea del segretario – ma su questi temi ci stiamo giocando la sopravvivenza stessa del nostro partito”.
Il caso della lettera della Bce non è però che l'ultimo episodio in cui il segretario del partito ha dovuto fare i conti con un forte dissenso espresso all'interno del suo partito sulla sua politica economica. Capita ormai da nove mesi, in realtà, che la linea sull'economia dettata da Bersani venga criticata in modo sempre più severo. E dall'inizio dell'anno a oggi sono stati molti i casi in cui il fronte anti blairiano, anti giavazziano e anti liberista del Pd ha avuto difficoltà a mantenere una linea unitaria su tutti i suoi grandi cavalli di battaglia – e chissà se come a gennaio il segretario del Pd sarebbe ancora disposto a “candidare per il Nobel chiunque fosse stato capace di trovare una sola significativa differenza tra la linea politica della segreteria e quella della minoranza”. Per dire. E' andata così a gennaio, quando il centrosinistra ha discusso a lungo su quale fosse la posizione da prendere sulla questione del referendum di Mirafiori (Bersani è sempre stato diffidente rispetto alla rivoluzione marchionniana). E' andata così alla vigilia del referendum dello scorso 12 e 13 giugno, quando le scelte di Bersani sono state contestate da un fronte (questa volta piccolo) di parlamentari del Pd convinti che sul tema della privatizzazione della gestione dei servizi idrici non fosse accettabile la linea conservatrice scelta dalla direzione (e che fosse preoccupante che appena due anni prima il segretario del partito avesse votato a favore della privatizzazione della gestione dei servizi ai tempi del governo Prodi). E' andata così, inoltre, anche lo scorso 17 e 18 giugno, quando il Pd si è ritrovato a fare i conti con due proposte opposte relative alle scelte da portare avanti in materia di politiche del lavoro (Bersani è contrario al principio della flexsecurity e sostiene una riforma del welfare che punti ad aumentare il costo dei contratti atipici per favorire quelli a tempo indeterminato; mentre il resto del Pd è convinto che per combattere la precarietà sia necessario superare il “dualismo” tra contratti tipici e atipici, rivedendo in modo sostanziale l'articolo 18 dei lavoratori e provando così a dar vita a un contratto unico per i nuovi assunti che non renda impossibile il licenziamento). E ancora: è andata così anche all'inizio di settembre quando un robusto fronte di quarantenni del Pd (ricordate?) ha protestato in modo vivace contro la linea del Pd troppo schiacciata sulla Cgil (erano i tempi dello sciopero generale). E infine è andata così anche all'inizio di questo mese, in occasione della diffusione prima della lettera della Bce e poi del noto manifesto delle imprese, quando alcuni giornali (come Europa e Corriere della Sera) diedero conto delle varie, diverse e contrapposte posizioni presenti nel partito in tema di politica economica e quando il segretario, per rispondere agli appunti, disse che “questa storia che il Pd è diviso sui temi dell'economia è una storia semplicemente stucchevole”. “Eheheh – dice con un sorriso il vicesegretario del Pd Enrico Letta – non credo che questa sia una questione stucchevole. Esiste, in effetti, un problema di linea economica all'interno del partito, che io sono convinto che riusciremo a risolvere presto, sicuramente in vista della tre giorni che stiamo preparando a dicembre su come ricostruire l'Italia partendo proprio dall'economia, ma è un problema questo di cui bisogna tenere conto, e che non va sottovalutato. Il tema di come riformare il capitalismo, di come evitare la finanziarizzazione totale dell'economia e di come impedire che in futuro la ricchezza sia generata solo dalla ricchezza è una questione con cui in realtà si stanno confrontando tutti i partiti progressisti del mondo. Ma a mio parere affrontare questi temi con gli stessi paradigmi del Novecento rischia di essere un autogol mica male. Io, per quanto mi riguarda, sono d'accordo con Jacques Delors e con la sua idea (riportata ieri sul Monde, ndr) di ringraziare la Banca centrale europea per aver offerto anche al nostro paese le giuste idee di sinistra per risanare l'economia. Detto questo però è inutile prenderci in giro: perché se a stretto giro il Pd dovesse ritrovarsi al governo il primo tema all'ordine del giorno sarebbe la politica economica. E su questi temi, è evidente, sarebbe un errore gravissimo non trovare posizioni unitarie”.
Al centro di questo violento scontro che esiste tra le anime riformiste e anti liberiste del Pd (tra quelli che insomma quando sentono parlare Giavazzi hanno le stesse reazioni che avrebbe un fedele di fronte alla visione della Madonna e quelli che invece quando sentono parlare l'editorialista del Corriere sentono come una voglia irresistibile di mettere mano alla ghigliottina) c'è un dirigente democratico che i lettori del Foglio hanno conosciuto qualche tempo fa proprio su queste pagine: Stefano Fassina. Il responsabile economico del partito è in un certo senso il Giulio Tremonti di Pier Luigi Bersani ma, a differenza di Tremonti, Fassina è legato al suo capo da un rapporto molto più stretto di quello che il ministro dell'Economia ha con il presidente del Consiglio: e se nei complicatissimi equilibri del governo a ogni indebolimento di Tremonti corrisponde un rafforzamento di Berlusconi, nel Pd ogni volta che qualcuno se la prende con il braccio destro di Bersani come obiettivo ha non tanto il responsabile economico del Pd ma proprio il segretario del Pd.
“Non prendiamoci in giro – ha confessato qualche giorno fa ai suoi interlocutori il bersaniano Michele Ventura – ormai è chiaro che ogni discussione sulla linea economica del Pd è una discussione sulla leadership di Bersani”.
Ma se dal punto di vista dei temi economici sono chiare le linee di frattura presenti all'interno del partito, dal punto di vista politico le ragioni di questa svolta anti blairiana, anti Terza via, anti giavazziana e insomma molto sinistra del Pd (i veltroniani parlano sempre di “svolta sinistra” del Pd omettendo sempre la “a” di “a sinistra” della svolta, giusto per dare un senso sinistro alla svolta del Pd) apparentemente risultano essere più difficili da comprendere. C'entra il fatto che il Pd ha rinunciato a essere il contenitore delle anime del centrosinistra e si sta spostando a sinistra per lasciare spazio al centro ai moderati con i quali allearsi alle prossime elezioni? C'entra il fatto che il Pd ha capito che in tutta Europa i leader progressisti che registrano i migliori risultati (vedi Ed Miliband che batte David Miliband, vedi François Hollande che batte Martine Aubry) sono quelli che si sono allontanati dalla Terza via blairiana per riscoprire i sani vecchi principi della socialdemocrazia? Forse sì. Di certo c'è che nel Pd l'idea di spostare di qualche centimetro il baricentro del partito sul suo versante più a sinistra (o più sinistro, fate voi) è legata a una ragione di precisa tattica politica riassumibile in dieci parole: paura di regalare la sinistra del paese a Nichi Vendola. Un sospetto che ha trovato una sua ragione d'essere proprio qualche mese fa, quando il responsabile economico del Pd (sì, sempre lui, Fassina) fece circolare tra le caselle di posta elettronica dei membri della segreteria un documento in cui spiegava il senso della sua strategia economica. E in quel documento Fassina la metteva proprio così. “La scelta di delegare a Vendola la rappresentanza della fascia di gran lunga più ampia del lavoro porterebbe il Pd ben al di sotto di quanto indicato dagli attuali sondaggi. Soprattutto, lo renderebbe sostanzialmente inutile in quanto condannerebbe l'universo del lavoro alla marginalità sociale e politica”.
“Vedete – dice Giorgio Tonini, senatore veltroniano del Pd – qui il problema non è soltanto che ci sono due linee diverse nel Pd sui temi di politica economica ma è che il segretario del nostro partito su molti, forse troppi, temi non ha ancora fatto capire con chi sta. Sta con la Bce o contro la Bce? Con gli indignados o contro gli indignados? Con Draghi o contro Draghi? Con l'Europa che ci chiede riforme sul mercato del lavoro o contro l'Europa che ci chiede quelle riforme? Capisco che è importante non regalare voti ai nostri alleati, ci mancherebbe, ma l'idea che le interviste dei nostri responsabili economici coincidano con quelle dei leader alla Nichi Vendola e alla Paolo Ferrero, e che il Pd continui a dire di essere terrorizzato da queste fantomatiche ‘tecnocrazie liberiste europee', scusate ma non la trovo rassicurante”.
La storia sulla battaglia più violenta che si sta combattendo in questi ultimi mesi all'interno del Pd non può non tenere conto del fatto che lo stesso fuoco ricevuto dal segretario sui temi di politica economica lo stanno assaggiando in queste ore anche i giovani dirigenti bersaniani del Pd (i famosi giovani turchi). I quarantenni bersaniani del partito hanno scelto di fare dell'economia il loro cavallo di battaglia e anche domenica scorsa quando si sono incontrati a L'Aquila nel corso dell'ultima kermesse organizzata dalla generazione “Tq del Pd” (qualsiasi cosa voglia dire questa sigla) hanno ribadito che il futuro del partito dovrà essere necessariamente legato a delle serie politiche dirette a “rottamare il neo liberismo”. “Il centrosinistra – ha ricordato Fassina sabato scorso prima dell'iniziativa dell'Aquila in un'intervista all'Unità – negli anni 90 si è lasciato troppo affascinare da un impianto culturale di tipo liberista, che assegnava alla politica un ruolo residuale e attribuiva all'economia la capacità di fare da sola”. Un'impostazione, quella dei giovani bersaniani, che oltre a essere criticata da Walter Veltroni, da Enrico Letta, da Giuseppe Fioroni, da Romano Prodi, da Dario Franceschini e da Matteo Renzi è vista ora con sospetto anche da un nuovo fronte giovanile di trentenni (anti giovani turchi) che sta prendendo forma nel Pd. Tra questi ragazzi c'è anche il trentenne Gian Luca Lioni, franceschiniano, dirigente del Pd.
“Se posso dire la verità – dice Lioni – più che la fotografia di Vasto con Di Pietro e Vendola dovrebbe preoccuparci la cultura di governo di chi nel Pd, pur essendo giovane come me, rispolvera un linguaggio da Terza Internazionale. Ora i nemici sono l'Europa e la Bce, tra un po' magari denunceranno il complotto delle plutocrazie. Possiamo davvero costruire l'alternativa con gli stessi schemi mentali che i partiti di sinistra adottavano nel Novecento? Francamente credo proprio di no”.
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