Julia Kristeva ha scommesso sul soffio di vita prima di tutto e dopo tutto
Julia Kristeva sorride respirando questa corsa chiamata vita, e lo scrive a Jean Vanier, che accoglie “il grido di una donna e di una madre che raggiunge il mio grido”. Bellissima intellettuale nata in Bulgaria, semiologa, allieva di Roland Barthes, scrittrice, psicoanalista, sposata con quello che ritenne, allora, il migliore dei giovani scrittori, Philippe Sollers (hanno fatto insieme, anche, un interessante dialogo sull'infedeltà), ammirata e importante nello scintillante mondo intellettuale parigino, madre di un figlio disabile, David.
Julia Kristeva sorride respirando questa corsa chiamata vita, e lo scrive a Jean Vanier, che accoglie “il grido di una donna e di una madre che raggiunge il mio grido”. Bellissima intellettuale nata in Bulgaria, semiologa, allieva di Roland Barthes, scrittrice, psicoanalista, sposata con quello che ritenne, allora, il migliore dei giovani scrittori, Philippe Sollers (hanno fatto insieme, anche, un interessante dialogo sull'infedeltà), ammirata e importante nello scintillante mondo intellettuale parigino, fondatrice negli anni Settanta del gruppo strutturalista di Tel Qel, madre di un figlio disabile, David.
Julia Kristeva non ha “scelto” di dare un senso all'handicap, scrive a Jean Vanier in questo libretto epistolare sconvolgente, “Il loro sguardo buca le nostre ombre. Dialogo tra una non credente e un credente sull'handicap e la paura del diverso” (uscito in Italia per Donzelli). Non vi ha aderito con tutta la sua esistenza, come ha fatto Jean Vanier (fondatore di “Arca” e del movimento “Fede e Luce”, che riunisce portatori di handicap, genitori e amici). E' stato suo figlio a imporsi, è stata la vita a tirarla in mezzo, a mostrarle, fra le sue braccia, cos'è il mondo e la tirannia della normalità. “Alla nascita di David le prime preoccupazioni non avevano nome e dovevo fare come se tutto andasse bene. Fino al primo coma: due settimane in bilico fra la vita e la morte. Alcuni anni dopo, stessa prova. Infermiere oberate, la scienza neurologica per niente sicura di sé, cure più che approssimative: ho steso un materassino ai piedi del letto e non ho più lasciato l'ospedale”. Non sapeva se suo figlio ne sarebbe uscito, né come, non lo sapeva nessuno.
“Per resistere cercavo di leggere. E' su quel materasso che ho scritto le pagine del mio libro su Hannah Arendt”. David è disabile e Julia Kristeva scommette “sulla vita prima di tutto e dopo tutto”. Lei non si è inventata un dio e non è ricorsa a quelli esistenti (ma ha scritto una biografia di Teresa d'Avila, “Therese, mon amour” e il saggio “Cet incroyable besoin de croire”), anzi confessa a Jean Vanier il proprio fastidio per “il tuo adorabile sorriso e i tuoi generosi ringraziamenti al destino” (“Deve stare fuori dal mondo per esultare a quel modo! Mi dico spesso”). Ma finisce per convenire che il sorriso pieno di fede di Vanier e i suoi ringraziamenti a Gesù sono “preferibili all'acredine di tanti umanisti agnostici o atei che eccellono in critiche, decostruzioni, rivendicazioni e domande di ogni tipo ma ‘non sanno fare'. Non si espongono”. Non hanno il coraggio di far crollare i muri, di comprendere l'imperfezione umana, di operare una trasformazione culturale, di accettare l'handicap.
Secondo Julia basterebbe convivere con la propria mortalità, per riuscire a incontrare la vulnerabilità altrui. Lei scommette (con rabbia) sulle politiche pubbliche e su un umanesimo da reinventare, lui ha una fede assoluta nelle persone handicappate, lei cerca una filosofia in grado di integrare la vulnerabilità endogena, lui vi fa risplendere sopra la propria “professione di gioia”. Ma nessuno dei due è chiuso nelle proprie certezze, ed entrambi sperano in una rivoluzione che cancelli “la più temibile delle esclusioni”, quella dei deboli. Il figlio di Julia, gli ospiti dell'Arca, quelli che nasceranno e che forse, anzi, non nasceranno più. Scrive Julia Kristeva, senza una briciola di sorriso estatico: “Tra dieci anni l'utero artificiale produrrà ‘bambini perfetti' e non si vedrà perché tutti i ‘falliti' per nascita o incidente dovrebbero aver diritto all'assistenza sociale: ha davvero senso investire tempo e danaro nella cura dell'irreparabile?”. Julia si occupa di vicende concrete, pensa alla vita quotidiana, vuole cambiare lo sguardo dei non disabili verso le persone con handicap, scoppia di vita ma non si sottrae alla mortalità. “Chi non ha fatto almeno un incontro con la mortalità? Preferiamo dimenticarli, la cultura moderna del glamour e della performance ci spinge a metabolizzarli, addomesticarli, integrarli”. Lei oppone al pathos di Jean Vanier, alla sua vita dedicata alla condivisione con gli handicappati, la serenità “che forse è la faccia umile di quel che tu chiami piacere”. Entrambi guardano in faccia “l'intollerabile” e anzi ci vivono insieme, con la delicatezza di una madre e con la devozione di un fedele. Julia però ha paura, teme “l'ombra del nulla, la cui seduzione aumenta in tempi di rigore, austerità e disoccupazione galoppante”. Teme la barbarie nei confronti dei deboli. Jean Vanier è invece pieno di speranza e ringrazia Julia: “Tu hai fatto nascere in me un nuovo soffio di vita”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano