Mea culpa e pensieri inconfessabili di un Signore del rating
Un mea culpa, poi in parte smentito. L'auspicio per un mercato del rating più concorrenziale ma senza agenzie statali. E l'annuncio di una sempre maggiore trasparenza, che però è costosa, per evitare conflitti di interessi. L'intervento di Simon Collingridge, responsabile delle relazioni con emittenti e investitori della finanza strutturata di Standard&Poor's per l'Europa, ha destato interesse e stupore fra i partecipanti al seminario a porte chiuse organizzato dall'Abi a Milano nei giorni scorsi.
Un mea culpa, poi in parte smentito. L'auspicio per un mercato del rating più concorrenziale ma senza agenzie statali. E l'annuncio di una sempre maggiore trasparenza, che però è costosa, per evitare conflitti di interessi. L'intervento di Simon Collingridge, responsabile delle relazioni con emittenti e investitori della finanza strutturata di Standard&Poor's per l'Europa, ha destato interesse e stupore fra i partecipanti al seminario a porte chiuse organizzato dall'Abi a Milano nei giorni scorsi.
Interesse per le tesi non banali. Stupore per considerazioni apprezzate proprio per l'informalità e la franchezza, mentre continuano a grandinare declassamenti su stati e banche. L'intervento di Collingridge, secondo la ricostruzione del Foglio, è stato così sintetizzato da alcuni resoconti di banchieri europei presenti al seminario. Come previsto dalla normativa compresa Basilea 2 – ha detto l'esponente di S&P per l'Europa – i rating sono troppo vincolanti per le banche, che devono basarsi anche sulle valutazioni delle agenzie per erogare il credito. Collingridge ha poi sottolineato che le agenzie di rating hanno commesso talvolta errori in particolare nei rating sulle obbligazioni strutturate legate ai subprime. E come in tutti i business model, “anche nel nostro sono connaturati i conflitti di interesse visto che emettiamo valutazioni su prodotti di emittenti che sono anche nostri clienti. Ma rispetto al passato siamo diventati molto più trasparenti”, si legge in uno dei resoconti del seminario che il Foglio ha visto: “Abbiamo compiuto – ha aggiunto Collingridge – molti passi in avanti nel costruire muraglie cinesi per evitare conflitti di interessi tra clienti ed emittenti, ma queste muraglie comportano anche costi elevati”. Resta, comunque, un problema di comparabilità fra le valutazioni delle tre principali società di rating. Eventuali agenzie di rating statali o sovranazionali ma di profilo pubblico avrebbero ancor più conflitti di interessi delle nostre, ha sottolineato Collingridge: ci si dimentica che in Europa ci sono circa 25 società che emettono rating, quindi parlare di oligopolio non è del tutto corrispondente alla realtà, ha aggiunto.
Fin qui la ricostruzione del Foglio. S&P, contattata per un riscontro, ritenendo “imprecisi” alcuni passaggi ci ha inviato lunghe considerazioni. Riportiamo quelle attinenti agli aspetti toccati dall'intervento di Collingridge. Innanzitutto la performance dei rating, secondo S&P's: nel settore corporate fra il 2008 e il 2010, in uno dei peggiori scenari economici da decenni, il tasso di default per le aziende con rating “investment grade” (ovvero “degne di investimento”) è stato solamente dello 0,9 per cento, contro il 13,9 per cento di quelle con rating speculativo. Nel complesso l'andamento globale dei rating del settore corporate nel 2010 è stato in linea con il suo andamento storico. Ciò detto, effettivamente “nessun modello di business è perfetto, esente da critiche o da potenziali conflitti di interesse”, secondo S&P. L'agenzia ritiene inoltre che il modello per cui l'emittente paga per dotarsi di un rating (“issuer pays”), con eventuali conflitti adeguatamente gestiti, sia “il migliore possibile in quanto rende i rating disponibili a tutti gli investitori, nello stesso momento e gratuitamente”. S&P è favorevole “alla competizione libera e corretta, ed è convinta che sia il mercato a decidere quali rating siano credibili e utili”.
L'agenzia è pure “favorevole alla rimozione dell'uso obbligatorio dei rating nella regolamentazione finanziaria”. Gli investitori, quindi, “dovrebbero essere liberi di scegliere il rating da prendere in considerazione, indipendentemente dal modello di business dell'agenzia e senza requisiti normativi o incentivi che li spingano a prediligere benchmark rispetto ad altri”.
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