Dio, il prete, il democristiano

Stefano Di Michele

E adesso, tutti che vogliono rifarsi democristiani: ripassare il guado, blandire il prete, dare l'occhio all'ultima enciclica. Anche se già nei giorni gloriosi finì come Mino Martinazzoli un giorno spiegò: “Siamo uno strano partito, che passa le giornate a contare le tessere e le serate a commentare le encicliche” – e certo sempre meglio, per rimanere nell'ambito, attardarsi sull'enciclica che tirar tardi attorno al palo della lap dance. Si sappia: era faticoso essere democristiani – un problema di caratura e di cultura, di espressioni e di gestualità, di silenzi più che di imperiose dichiarazioni.

    “E' l'ora dell'azione. La dura gara è in corso. Siete pronti? Anche pochi istanti possono decidere la vittoria” (Pio XII, dalle “Memorie” di Luigi Gedda)

    E adesso, tutti che vogliono rifarsi democristiani:
    ripassare il guado, blandire il prete, dare l'occhio all'ultima enciclica. Anche se già nei giorni gloriosi finì come Mino Martinazzoli un giorno spiegò: “Siamo uno strano partito, che passa le giornate a contare le tessere e le serate a commentare le encicliche” – e certo sempre meglio, per rimanere nell'ambito, attardarsi sull'enciclica che tirar tardi attorno al palo della lap dance. Si sappia: era faticoso essere democristiani – un problema di caratura e di cultura, di espressioni e di gestualità, di silenzi più che di imperiose dichiarazioni: troppo Brancaleone in giro, per provare a fare almeno un decente Forlani.

    E a proposito di Forlani – e del fatto che c'è sempre da tener da conto che si è (si era) democristiani per pratica propensione piuttosto che per vociante autocertificazione. Pratica propensione, innanzi tutto, non tanto verso Santa Romana Chiesa, che figurarsi – ha sfidato i secoli e incluso Magdi Cristiano Allam: a dire, di quanta grandezza e smisurata larghezza di vedute – verso il prete, piuttosto, l'esigente monsignore, lo scalpitante cardinale, l'impazienza monacale: esserci, e pronti a esserci, quando il prevosto bussa alla porta. A Forlani, segretario dell'ultima stagione di vero potere della Dc, questo successe. Toc, toc, toc!, a piazza del Gesù. E chi era? Un prete del suo collegio elettorale nelle Marche. L'amabile sacerdote aveva una precisa richiesta per il potente compaesano. Valori non negoziabili, principi irrinunciabili, questioni primarie? Macché. “Un cammello, ci occorre un cammello, onorevole…”. Nemmeno a motivo di parabola evangelica, così da strizzarlo nella cruna di un ago per agevolare la celeste ascesa pure a Marchionne o a Della Valle. Per il presepe vivente della parrocchia serviva la bestia, per doverosamente omaggiare il Bambino al momento dell'arrivo dei magi. Perciò ecco – si è democristiani (e della razza più eccelsa: quella che tratta col prete e rabbonisce pure il Papa) se si è capaci di trovare, nel caso, anche il cammello, mica basta farsi belli a un convegno con monsignor Fisichella, oggi a dire della santità dell'embrione e domani della satanicità dell'Europa scristianizzata. Non è tanto a don Sturzo che bisogna attaccarsi, lì ormai son buoni tutti (Sacconi or ora si segnala), piuttosto a Mariano Rumor. E' col prete, secondo l'annotazione montanelliana, che bisogna trattare – e col prete infatti Andreotti parlava, lasciando a De Gasperi il colloquio, elevato spiritualmente ma elettoralmente improduttivo, con Dio.

    E il prete non è né di facile contentamento, né di chiacchiera inconcludente. Ogni tanto si registra qualche azzardo, ma il risultato è quello che è. Per dire: il coordinatore berlusconiano lombardo, Mario Mantovani, ha preso carta e penna per chiedere ai parroci milanesi di indicare possibili candidati alle prossime amministrative. “I ragazzi degli oratori, quelli che nei decenni scorsi erano il grande serbatoio della Democrazia cristiana, tornano di moda”, ha dunque evidenziato il Corriere della Sera – diciamo pure serbatoi diversi da quelli in cui era stipata la Minetti. Ma l'essere democristiani richiede, più che l'assenza di peccato (che anzi peccarono e molto, i democristiani: così che a simbolo della loro impossibilità di redenzione vien sempre da citare “Todo modo”, il romanzo di Leonardo Sciascia, dove don Gaetano li sottopone a una cupa recita del rosario presso l'Eremo Zafer 3, e l'onorevole Michelozzi crepa in peccato di potere), la perseveranza della pazienza: tanto nel contemplare il peccato stesso, quanto nell'inseguire l'assoluzione da esso. Che se poi non arriva, il vero democristiano se la concede – ma senza stare prima a frignare di persecuzioni e complotti.

    Eh sì, tutti democristiani facciamoci, anche per solo sfizio nostalgico. Pure se adesso sono serrati i portoni dei conventi dove gli antichi diccì si adunavano, e persino alcuni abitavano, “una forza senza forza, un potere senza potere, una realtà senza realtà” (Sciascia), così da non sapere mai con certezza se si fronteggiava un tentativo di elevazione spirituale o un'adunata di bisce ovunque sfuggenti. Si andava da Camaldoli a Montevergine, dalla Domus Mariae a Santa Dorotea, scansava l'itinerario l'Olgettina – “sembravano flagellanti invece erano congiurati”, dice Marco Damilano nel suo “Democristiani immaginari”, concentrato quasi gozzaniano di meraviglie biancofiorite – così che la superiora madre Bartolomea voleva cacciarli al calar della sera, quando le consorelle si ritiravano in cella, e quelli misero di mezzo un amico monsignore: a non voler abbandonare, da mirabili tessitori del potere terreno, quel luogo a Dio consacrato – come se un'ombra di quella consacrazione potesse calare sul loro pratico animarsi. Ove è il democristiano, ivi è il prete. Se necessario trovargli il cammello, ma mai accettare la sfida a intrufolarsi in prima persona nella cruna minacciosa di quell'ago. In tale frangente era orecchio attento, quello democristiano, ma soprattutto era quasi sempre orecchio da mercante. Il  monsignore si insinua, il cardinale si indigna, il Papa consiglia, cioè ordina – e lo stesso tanti uomini di Dio nulla potevano contro tanti uomini di Piazza del Gesù. Ecco negli anni Cinquanta il prelato che invita al Palazzo Apostolico il ministro Fiorentino Sullo, sia pur per una pessima causa – più dell'edificabilità dei terreni che del regno dei cieli. “Si erano affacciati davanti a un panorama di Roma mozzafiato e il monsignore aveva buttato lì: ‘Vede tutte quelle luci? Sono le vecchine che votano per la Dc e che sarebbero danneggiate dalla sua riforma urbanistica'…”. Altra scena, una diversa pena. Sera, novembre 1991. Freddo e pioggia. Sta per arrivare la tempesta che cancellerà tutto. Primo piano dell'arcivescovado di Milano. Il cardinale Martini – “austero, irraggiungibile, un angelo vendicatore” – predica a una parata di grandi capi, da Forlani a Gava a De Mita. Ogni metafora evangelica cala come fulmine sulle capocce degli irriducibili democristiani lì attruppati – il fico secco maledetto da Gesù, gli otri vecchi incapaci di contenere il vino nuovo, la toppa sul vestito andato. “Fate spazio a uomini nuovi, ponete le condizioni di una loro militanza di partito che non comporti compromessi con la coscienza!”. Dopo una simile bastonatura – pur paterna, pur evangelica – quelli sarebbero dovuti uscire a capo chino e ciglio umido. E invece, ecco Forlani: “Un incontro simpatico”. Simpatico? Così si celebra e così si affossa. C'è persino Paolo VI, che tende le mani scarne, imploranti e alla fine disarmate, verso il viso roseo e paffuto di Rumor: “Vinca le tentazioni: lo sgomento, il fastidio, l'eccesso di umiltà. Cacci via qualcuno”. Figurarsi – mai ebbe, il Santo Padre, notizia di alcuna amichevole pedata.

    Questo dice del pelo sullo stomaco degli antichi democristiani, e insieme della consapevolezza della loro necessità. Né scioccamente imploranti né pavidamente esecutori, piuttosto chiara ripartizione esigeva la pratica democristiana: a chi il regno dei cieli, a chi la cubatura dei palazzinari. Ora che persino il frusciare della tonaca di qualsiasi vescovo di media caratura impensierisce, ancora di più fanno impressione i pensieri di un cardinale come Siri, confidati a Benny Lai, alle prese con Moro: “Cambiava discorso, sfuggiva alle argomentazioni, talvolta atteggiava il viso come di chi non riesce a seguire un certo discorso. Colpivo e mi sembrava di affondare la mano in un cedevole materesso. Una volta (…) arrivai al punto di desiderare di dargli un pugno. Mi trattenni perché le mie mani erano consacrate. Fortuna che non mi venne in mente che i miei piedi non erano consacrati”. In questa scena c'è tutto – tutti ciò che i democristianucci da riporto mai sarebbero capaci di sopportare: la rabbia sorda, risentita, di un grande principe della chiesa, e lo sfuggire, il farsi laterale, lo sgusciare dalle grinfie poco paterne di un grande democristiano. Né impegnarsi con un chiaro sì, né indispettire con un netto no. Giusto Andreotti –  infinite volte si è detto che, più che icona del potere democristiano, del perfetto cardinal segretario di stato era – trovò il modo di tacitare addirittura il Papa – e Pio XII, mica un Papa qualsiasi, che con lui si lamentava di certe copertine scollacciate della Settimana Incom. Così il colloquio riportato da Andreotti stesso: Pio XII: “Lo stato è responsabile di questa stampa pornografica”. Andreotti: “Lo crede più responsabile del proprietario?”. Pio XII: “Questo no”. Andreotti: “Ebbene, Santità, le azioni di questo rotocalco appartengono al Vaticano”.

    Dio (innocente), il prete (tentato) e il democristiano (tentatore) sono stati perfetta trinità in decenni di potere – nemmeno peggiore, persino migliore, di quello venuto in seguito. Un equilibrio di mezze parole, di mezzi silenzi, di mezze verità – nulla di troppo detto, nulla di troppo opposto, nulla che facesse apertamente perdere la faccia a qualcuno. Sonnecchiava nel democristiano qualcosa del prete; sbraita, in certi aspiranti successori di oggi, l'inquisitore di scarsa dottrina. L'autorità della tonaca e “la grigia grazia” (così Citati) democristiana, “con quel loro profumo di tisane, sonno, sudore, borotalco e marmellata di prugne che intride gli ambienti ecclesiastici”. Ecco: potevano non piacersi, ma sempre si riconoscevano. Anche a naso – a scovar tartufi elettorali gli uni, a maggior gloria di Dio (e  della parrocchia) gli altri – come da lettera fatta spedire da Rumor alla vigilia delle elezioni del '72: “Ministero dell'Interno. Reverendo parroco, come già comunicato dall'On.le Bisaglia, desidero confermarLe, per incarico dell'On.le Rumor, la concessione di lire 300.000 per le spese assistenziali della parrocchia. Deferenti ossequi”. Scrisse Alberto Cavallari in un'inchiesta sul Veneto bianco di allora, cassaforte traboccante di voti democristiani: “Il prete è tutto. Un alleato per avere voti ma anche un alibi per giustificare il fatto che si è condizionati. Una forza per comandare o per riunciare a farlo”.
    Per sempre, finché durò, prete e democristiano – Dio a parte, e Dio non rare volte a parte veniva messo – s'intesero, o almeno si sopportarono. Fin dalla feconda campagna elettorale del '48 – trionfo della Dc issata sul trono governativo da “282 diocesi, 25.647 parrocchie, 66.351 chiese, 3.172 case religiose maschili, 16.284 case religiose femminili, 4.456 istituti di assistenza e beneficenza, 249.042 ecclesiastici”, così ripartiti: “71.072 preti, 27.107 religiosi professi, 150.843 professe” – dove si potrebbe trovare, oggi, tanta grazia di Dio? Intesa o sopportazione, dunque. Ma sullo stesso binario si correva. A testimonianza vale la sceneggiatura, opera di Carlo Rossella e del futuro direttore del Fatto, Antonio Padellaro, di quel micidiale documento sul potere democristiano intitolato “Forza Italia!” – ben venticinque anni prima del Cav., meglio precisare: per non confondere e per non invogliare. Annotano, Padellaro e Rossella: “Una suora vecchissima viene condotta a spalle su una seggiola a votare. La monaca sorride alla cinepresa con una espressione grifagna”. Grifagna, ecco. “All'interno di una imbarcazione a motore, una monaca fa prendere posto a un gruppetto di vecchie manifestamente rincitrullite. Monaca: ‘Votiamo col timor de Dio!'…”. Rincitrullite, in ogni modo. Obbedir si doveva, ma obbedire non sempre si poteva. Ma nemmeno – anzi: meno che mai – pubblicamente disobbedire, a parte il caso, clamoroso e ammirevole, di De Gasperi che non china il capo davanti a Pio XII  quando il sant'uomo chiese dalla Dc di allearsi con i fascisti a Roma. “Come cristiano accetto l'umiliazione – scrisse in seguito De Gasperi – benché non sappia come giustificarla; come presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, la dignità e l'autorità che rappresento e di cui non mi posso spogliare, anche nei rapporti privati, m'impone di esprimere stupore…”. Si poteva, piuttosto che disobbedire, trovarsi nella più piacevole situazione di non poter ubbidire: capisce, Eccellenza, non per mia volontà… Raccontò un giorno Cossiga della campagna contro il divorzio, una volta fallito il tentativo di compromesso tra Dc e Pci. “Fanfani ordinò a tutti di partire pancia a terra. Ma vede, caro amico, c'era un problema: io sono sempre stato favorevole al divorzio. Ma ecco la provvidenza del Signore: il giorno del primo comizio per il sì al referendum, la mia macchina esce fuori strada: finii con il braccio ingessato, impossibilitato a intervenire. Dunque, da questa bocca non è mai uscita una parola contro il divorzio…”. Fu quello un reciproco straordinario immolarsi – di preti e democristiani – sull'altare di una battaglia polverosa e stanca (e chissà se davvero necessaria – ma, appunto, si doveva: al Santo Padre, prima che alla Dc).

    Ma – più che la fede, più che la saldezza delle convinzioni, più che l'urgenza delle convenienze – c'è un altro aspetto, stando alle cronache, praticamente insuperabile sulla strada di alcuni dei nuovi democristianucci: una certa conclamata (se praticata era cosa assai diversa) castità, che certo il prete apprezzava, ma che certo nessun prete di media intelligenza dava per sicura. Oggi, troppo sfacciati per essere anche intelligentemente ipocriti. Fatto sta, diceva don Baget Bozzo dei democristiani, che “il potere è il loro adulterio”. E sospirava Taviani: “Ah, che bella donna è il potere”. E spiegava Nino Gullotti: “Ho sposato la Dc” – mentre Vittorino Colombo si votava alla castità, e Marcora, a sinistra nel partito, illuminava lui e i suoi amici impegnati nel gravoso contenimento: “Tutti segaioli”. Altri potenti, come Emilio Colombo e Rumor, vivevano accuditi dalle sorelle – e su di loro si mormorava, ma il mormorare democristiano e pretigno non era mai destinato a una pubblica eruzione, e comunque un giorno Zaccagnini tirò via di peso Moro da una discussione, durava da ore  del tutto improduttiva, con i due dorotei: “Ma vieni via, che quelli non sono mai andati a letto con una donna nuda!”. Era, quel sostare democristiano sul limitare del vorrei e chissà se posso, senza mai troppo far tremar il cor, un atteggiamento capace di suscitare insieme pubblici elogi in sacrestia e riservato pentimento in confessionale, ma lo stesso grandemente apprezzato. “Eunuchi per scelta – annota Damilano nel suo libro – come quelli lodati dal Vangelo, al capitolo 19 di Matteo: ‘Ci sono eunuchi che si sono fatti eunuchi a motivo del regno dei cieli'…” – figurarsi, freschi come siamo di chi eunuco certo non si è fatto a motivo di terrene tentazioni.

    Con Dio saggiamente si andava molto più cauti che col prete – giusto Scalfaro mostrava un certo consolidato rapporto con la Madonna, così che una statuina della stessa alloggiava nello studio al Quirinale, ed è segnalato un suo intervento degli anni Sessanta contro l'apertura a sinistra – a maggio, mese mariano: “In questo mese dedicato a Maria vorrei che il rosario fosse la preparazione delle nostre decisioni…”. Si notano peraltro certe azzardate targhe toponomastiche: “Questo Comune è consacrato a Maria” – sai la Vergine, che soddisfazione. Dio, si diceva. Faccenda impegnativa. Ne parlò Martinazzoli, quando già tutto volgeva al peggio: “Dio si è voltato dall'altra parte…”. Meglio un prete, che poi se la vede lui. O un cardinale. Il cardinale Ruini – per rimettere idealmente insieme, volendo, Dio, prete e quel che resta della democristianeria. Ancora Martinazzoli: “Di politica parlavo con il cardinale Ruini. Dopo una serie di batoste elettorali gli dissi: guardi, non si faccia vedere troppo in giro con noi perché stiamo perdendo”. Canzonava Baget Bozzo: “Viva Ruini, viva la Cei che ci estirpa tutti i nei”. Ma se pure un democristiano fatica a riconoscere Dio, un altro democristiano lo riconosce a naso, seppur non conclamato, con imbattibile fiuto. Sbottò ammirato De Mita, la prima volta che ascoltò Ruini: “Questo, prima di farsi prete è stato democristiano…”. Certo un complimento. Difficile da replicare per gli aspiranti diccì di oggi: democristiani chissà se saranno mai,  monsignori di certo non lo sono mai stati.