Tanti salutari consigli nell'agenda Giavazzi-Alesina

Carlo Stagnaro

Disse una volta Karl Kraus che “il giornalista è stimolato dalla scadenza. Scrive peggio se ha tempo”. Il Cav. dovrebbe chiedersi se ciò valga anche per l'uomo politico. Se fosse così, forse ci sarebbe ancora una speranza che, a pochi giorni dall'ultimatum dell'Europa e dei mercati, il premier metta in atto quella rivoluzione liberale promessa per la prima volta nel 1994 e mai realizzata se non con provvedimenti parziali, confusi e sovente rintuzzati (dalla riforma fiscale del 2004 alla legge Ronchi).

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    Disse una volta Karl Kraus che “il giornalista è stimolato dalla scadenza. Scrive peggio se ha tempo”. Il Cav. dovrebbe chiedersi se ciò valga anche per l'uomo politico. Se fosse così, forse ci sarebbe ancora una speranza che, a pochi giorni dall'ultimatum dell'Europa e dei mercati, il premier metta in atto quella rivoluzione liberale promessa per la prima volta nel 1994 e mai realizzata se non con provvedimenti parziali, confusi e sovente rintuzzati (dalla riforma fiscale del 2004 alla legge Ronchi). A dispetto del clima sempre più ostile, esistono forze sociali e intellettuali pronte a sostenere una svolta riformatrice. Sul Corriere della Sera di ieri, Alberto Alesina e Francesco Giavazzi hanno proposto un decalogo di riforme “a costo zero”. Quest'estate Roberto Perotti e Luigi Zingales avevano fornito suggerimenti analoghi, che, in fondo, sono anche il senso dell'appello con il quale il Foglio ha dato seguito a una campagna durata mesi. Che fare, dunque? La terapia è implicita nella diagnosi. Il paese soffre di bassa crescita e troppo stato: ha bisogno di misure che diano una frustata all'economia e riducano il perimetro pubblico. Sulla crescita, il Fondo monetario internazionale ha rimarcato che, nell'ultimo decennio, solo Haiti ha fatto peggio. Per il resto, l'Italia si caratterizza per l'alto debito pubblico (circa 120 per cento del prodotto interno lordo), l'alta tassazione (l'anno prossimo la pressione fiscale sarà del 44,1 per cento, e nel 2014 arriverà al 44,8 per cento) e l'alta spesa (nel 2011 saremo al 50,5 per cento del pil).

    In queste condizioni, il keynesismo – che serva oppure no – non possiamo permettercelo. Dunque, non resta che una strada da seguire: ce la indica il rapporto “Doing Business 2012” della Banca mondiale, fresco di stampa. Su 183 paesi, il nostro scende dall'ottantatreesima all'ottantasettesima posizione. A trascinarci verso il basso sono essenzialmente tre zavorre: la zavorra fiscale, la zavorra del settore pubblico e la zavorra della mancata concorrenza. Sul fisco, nell'immediato non si può fare molto per ragioni di saldi di bilancio: ogni euro di minor prelievo deve essere pareggiato da almeno un euro di minori spese, e questo richiede tempo. Sul resto, invece, si può fare molto, nel senso che le riforme vanno anzitutto messe in moto.

    Per quanto riguarda la Pubblica amministrazione
    , Doing Business – oltre a una serie di ricerche precedenti, come l'indagine di Vito Tanzi e Ludger Schuknecht su efficacia ed efficienza nella Pubblica amministrazione – è molto chiara: la qualità dei servizi resi è scadente e il loro costo sproporzionato. La giustizia è forse il settore più critico perché ha un'influenza diretta sulla crescita, condizionando pesantemente l'attrattività del paese per gli investimenti. Il problema non è di sottofinanziamento ma di cattiva organizzazione: basta guardare al “miracolo” della procura di Torino, che in quattro anni dal 2001 al 2005, ha ridotto del 23,6 per cento i tempi processuali.

    Accanto alle riforme per avere uno stato migliore, ci sono quelle per avere meno stato, meno parastato e meno rendite. Qui c'è solo l'imbarazzo della scelta: dalle Poste all'energia, dai trasporti ai servizi pubblici locali. I processi di liberalizzazione, però, non sono credibili se non si accompagnano ad analoghe iniziative di privatizzazione: finché il mercato è dominato da soggetti pubblici, la competizione sarà scoraggiata perché chi scrive le regole ha contemporaneamente interesse al successo delle “sue” aziende. Le liberalizzazioni, inoltre, investono una serie di settori dove norme rugginose consolidano posizioni di privilegio: dagli ordini professionali alla distribuzione commerciale (con l'assurda ostilità alla grande distribuzione), dai taxi alle farmacie (dove purtroppo non ha avuto successo la proposta di trasformare le parafarmacie in farmacie vere e proprie). Un ultimo punto, e particolarmente urgente, riguarda l'Inail. La Commissione europea ha messo in mora l'Italia per le leggi sulla sicurezza sul lavoro e, in particolare, per le modalità di valutazione del rischio. Il monopolio pubblico ha l'effetto (e lo scopo) di mantenere i premi sotto i livelli di mercato, e ciò induce le imprese a prendere rischi eccessivi per i propri dipendenti. La privatizzazione dell'Inail e la liberalizzazione dell'assicurazione contro infortuni e malattie sul lavoro, dunque, raggiungerebbero il duplice obiettivo di creare spazi di crescita e sanare le incongruenze col diritto comunitario.

    Gli interventi “a costo zero”
    – alcuni dei quali hanno addirittura un costo negativo, cioè producono entrate addizionali – non sfuggono alla massima liberista e di buonsenso per cui nessun pasto è gratis. Il prezzo, in questo caso, va pagato attingendo al capitale politico di chi affronta le riforme e, in questo modo, si fa dei nemici. Il Cav. ne ha abbastanza, ed è disposto a rischiarlo? La domanda non è se, ma chi lo farà – con tutti gli oneri e gli onori del caso.

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