Noi e loro
Sono tanti i francesi che amano l'Italia, molti di più quelli che non amano gli italiani. Nei salotti della Parigi che conta, tutto sembra filare alla perfezione, “beau comme un italien” ti dicono, ma che profilo da antico romano, che eleganza naturale, che musica questa lingua. Ma appena si passa all'atto, al lavoro, agli affari, la seduzione si sfarina, l'attrazione vacilla.
Sono tanti i francesi che amano l'Italia, molti di più quelli che non amano gli italiani. Nei salotti della Parigi che conta, tutto sembra filare alla perfezione, “beau comme un italien” ti dicono, ma che profilo da antico romano, che eleganza naturale, che musica questa lingua. Ma appena si passa all'atto, al lavoro, agli affari, la seduzione si sfarina, l'attrazione vacilla. Gesticolare allora non è più vezzo da commedia dell'arte ma il modo di fare subdolo del potenziale imbroglione, del magliaro pronto a fregarti con il gioco delle tre carte, del popolo immortalato da quel fanfarone di Gassman e da Sordi americano di Kansas City che in carne ed ossa è più inaffidabile e magari anche più vile, dell'italiano, insomma doppio di animo e di comportamento. Siamo la iattura incontrollabile che viene dall'est a sovvertire la norma della produzione e l'etica del capitalismo, la ragione luminosa e l'austerità protestante.
Da qui a che ci prendano per sciantosa di incerta origine non c'è che un passo. L'ha compiuto Jean-Claude Trichet che pare ci sia rimasto male perché Roma non ha ancora eseguito alla lettera l'autorevole “lettera” co-firmata con il suo successore Draghi. E l'ha compiuto ora anche Nicolas Sarkozy, il presidente. Non per via di quel sorriso sarcastico, che in sé non significa nulla tanto è che lo si può sempre smentire, cancellare come un equivoco semantico. Ma per quello che ha detto e per come lo ha detto. Quel “noi abbiamo fiducia nell'insieme delle istituzioni italiane, politiche finanziarie ed economiche”, l'insistere, fuori da ogni consuetudine diplomatica, sul tutto per sminuirne una parte. La postura assunta mentre rispondeva alle domande dei giornalisti mantenendo la guardia bassa e nessuna distanza, le mani sul podio, la gestualità con cui ha accompagnato la parola “ensemble”, la rotazione degli indici di entrambe le mani: è l'embrassons-nous da commedia da boulevard che nell'ipocrisia dell'abbraccio nasconde veleno.
E' questa la differenza tra il grande capitano che sa di dovere sempre rincuorare, proteggere, pubblicamente sorreggere tutti gli uomini della squadra che attraversa un momento di difficoltà e il capitano dei gendarmi di Saint-Tropez che strepita sempre per dare la colpa degli insuccessi agli altri. E' la differenza che dovrebbe esserci tra un erede di De Gaulle e Louis de Funès, per l'appunto.
Un tempo un italiano passava ogni settimana da Mentone per partecipare alle corse clandestine di macchine, che all'epoca si svolgevano nell'entroterra di Marsiglia. Veniva per sfidare giovani strafottenti e sicuri di sé con gran turismo tirate a lucido e messe a punto. Lui arrivava con una Fiat 600 Abarth mal tenuta che sembrava stesse per perdere pezzi in mezzo alla strada. Diceva di venire da Ventimiglia ma forse era una bugia, era di bassa statura e scuro di carnagione. In quelle corse si scommetteva di brutto e in contanti. Vinse sempre. Venne fuori che il catorcio montava un motore Porsche Carrera, due litri ulteriormente modificato con le sue stesse mani con il rischio di finire spiaccicato contro una roccia ad ogni curva. La pacchia durò poco, giusto il tempo di fare un po' di soldi e mettere a posto un branco di riccastri arroganti. Portava con sé genio per la meccanica, spirito creativo, grande capacità d'adattamento, gusto per la sfida, astuzia nel nascondere le proprie carte. Come dire un italiano.
Sarkozy non ha bisogno di truccare il motore. E' della razza privilegiata di chi ha avuto cospicua eredità: è l'uomo politico che rispetto ai propri concittadini dispone di un potere personale non comparabile con quello di Obama o della Merkel, persino di un Putin o di un Wen Jiabao. Può dichiarare una guerra senza consultare né il governo né il Parlamento, tiene la propria maggioranza al guinzaglio con l'articolo 49-3 della Costituzione che gli consente di fare passare una legge senza dibattito né voto in Parlamento a meno che non sia approvata una mozione di censura. Ha il potere insindacabile di sciogliere l'Assemblea nazionale, può licenziare il primo ministro e ogni singolo ministro quando vuole, non può essere interrogato né indagato né perseguito dall'autorità giudiziaria per tutta la durata del suo mandato, può spostare come e dove vuole gli alti funzionari di stato, nominarne al posto che meglio crede. Nel mondo del presidente della V Repubblica vige una sola regola: tacere e obbedire o dimettersi. La monarchia repubblicana è diversa da una dittatura solo in questo: che il re è eletto, tempo addietro lo si faceva ogni sette anni, oggi ogni cinque.
E' il paradiso mai conosciuto da un presidente del Consiglio italiano che quale che sia il suo nome è costretto faticosamente a mediare ogni giorno con alleati pronti alla fronda, a inventarsi maggioranze, a vivere conflitti istituzionali in serie, addirittura a essere oggetto di una campagna giudiziaria senza precedenti, ad essere a capo di governi i cui ministri parlano a ruota libera e che gli alti gradi dell'amministrazione non seguono o seguono con esasperante lentezza.
Parlare in questo contesto di “fiducia nell'insieme delle istituzioni” e lasciar trasparire una certa sfiducia nei confronti del capo di governo è una porcata. Una vera porcata. E poi nel nostro paese, di grazia, quali sarebbero le istituzioni in grado di sopperire a mancanze, a inadempienze dell'esecutivo? La Confindustria, i sindacati, la magistratura?Altri partiti? I cosiddetti tecnici? Tutto si riduce a ben guardare al gioco stantio di tirare per la giacca il Quirinale che di poteri di sostanza ne ha uno solo e nemmeno in toto: sciogliere le Camere e convocare elezioni anticipate.
Per questo il Sarkozy brussellese è responsabile di ingerenza senza nemmeno l'urgenza umanitaria così cara a Bernard-Henri Lévy, suo alto consigliere.
Eppure ci hanno voluto a tutti i costi proprio così come siamo, un po' plebei e infingardi, dentro Maastricht e ingabbiati nell'euro. Quando Romano Prodi fece il giro delle capitali per negoziare quanto meno un rinvio di questa scadenza cui l'Italia a suo dire non era pronta fu Jacques Chirac che lo disse chiaro e netto: la Francia mai ci avrebbe lasciato fuori non certo per bontà animo, ma perché non ci stava a vedere distruggere l'alta moda e il tessile, né a vedersi invasa da tutto quello che veniva prodotto nei distretti industriali della penisola. L'euro dunque o era con Roma o non era.
Il vecchio Chirac sapeva di cosa parlava. Sapeva che l'Europa ha più bisogno dell'Italia di quanto l'Italia che, pure è socio storico del club, abbia bisogno dell'Europa. Perché per secoli siamo stati abituati a fare penisola a parte, con le nostre facce di meticci erranti di padre latino e di madre magari greca e dissoluta. Perché siamo sempre pericolosi, troviamo e battiamo piste e nicchie proibite alle falangi tedesche o ignote ai saltapicchi francesi. Quello che non sapeva o non poteva prevedere è che l'asse franco-tedesco nelle mani del successore sarebbe andato a remengo. Il motore si sarebbe ingolfato, avrebbe perso colpi. Questo avrebbero dovuto dire e da tempo maggioranza e opposizione italiane, meglio se con una sola voce.
Lo stesso presidente che vorrebbe che noi si prendesse immediata contezza delle nostre responsabilità e si decidesse in tre giorni quello che in venti anni non siamo riusciti a fare, non la dice giusta su se stesso e sui suoi fallimenti. Non solo non è riuscito a trovare un accordo globale e soddisfacente con la signora Merkel, non solo la inchioda a conferenze stampa in cui né l'uno né l'altra hanno nulla da dire e fanno giusto vedere che ci sono, ebbene questo stesso presidente in evidente difficoltà elettorale giura che ce la potrà fare e sarà rieletto quando la Francia capirà che tira aria di crisi.
Perché per ora non l'ha capito. E' il colmo per uno che dà le pagelle ma è così. Mercoledì scorso, per esempio ha pranzato con i deputati centristi della maggioranza: ha detto che bisogna che i francesi si sveglino, che smettano di credere di vivere nel paese degli orsacchiotti. Pare che fosse fuori di sé perché milioni di francesi erano rimasti incollati a seguire il dibattito fra i candidati alle primarie del Partito socialista: quello che ha ottenuto l'investitura, François Hollande, di gran lunga il più tenero, è uno che vuole mettere la mordacchia alle banche, tassare le transazioni finanziarie e ridiscutere il trattato di Maastricht dalle fondamenta. Il più duro, la vera sorpresa della competizione, Arnaud Montebourg, vorrebbe addirittura la deglobalizzazione dell'economia, reintrodurre i dazi e nazionalizzare il sistema bancario. Argomenti che in parte sono anche quelli dell'estrema destra di Marine Le Pen.
Nemmeno alle pensioni il presidente riesce a mettere mano. Fa sermoni, dice che è meglio il cattivo umore oggi di fronte alla prospettiva di una riforma che la collera domani quando ci si renderà conto che non potranno più essere pagate. Con i banchieri non ci parla, ce l'ha per il loro senso d'irresponsabilità e li fa ricevere dal segretario generale dell'Eliseo, Xavier Musca. Che è di origine corsa, è dello stesso villaggio della prima moglie del presidente ed è uno dei pochi a dargli del tu. Lo chiamano “il Trichet corse”, è uomo chiave nel rapporto con la Germania, dice cose sensate, per esempio che se l'Europa è sull'orlo del precipizio è colpa dell'approccio eccessivamente giuridico e moralista dei tedeschi che vogliono punire la Grecia e far rispettare integralmente i trattati. Fatto sta che il presidente che in trasferta sorride e fa battute velleitarie in casa si arrabbia, mugugna e teme di fallire, non riesce più a fare buona pedagogia.
Domani sera, dopo la conclusione della seconda tornata europea, andrà in televisione, proverà a spiegarsi di nuovo. Dirà che il destino della Francia, e per inciso quello dell'attuale maggioranza e suo personale, si giocherà in poche settimane, forse in pochi giorni. Il rischio è che gli crederanno solo gli intimi. E che una buona metà dei francesi si girerà proprio dall'altra parte.
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