Che cosa viene fuori dalla Woodstock renziana

Claudio Cerasa

Firenze. Tutti alla Leopolda già se la immaginavano la scena: Matteo Renzi che sale sul palco, che saluta il pubblico, che fissa la telecamera, che osserva la platea, che si aggiusta il microfono, che fa partire la musica, che inizia a parlare, che fa l'occhio furbetto, che lancia un messaggio a Bersani, che lancia un altro messaggio a D'Alema, che lancia un altro messaggio ancora a Vendola e che poi alla fine dice quello che tutti si aspettavano che dicesse e che invece oggi il sindaco di Firenze non ha detto affatto: ok ragazzi, ci siamo, sono pronto, stavolta mi candido. 

    Firenze. Tutti alla Leopolda già se la immaginavano la scena: Matteo Renzi che sale sul palco, che saluta il pubblico, che fissa la telecamera, che osserva la platea, che si aggiusta il microfono, che fa partire la musica, che inizia a parlare, che fa l'occhio furbetto, che lancia un messaggio a Bersani, che lancia un altro messaggio a D'Alema, che lancia un altro messaggio ancora a Vendola e che poi alla fine dice quello che tutti si aspettavano che dicesse e che invece oggi il sindaco di Firenze non ha detto affatto: ok ragazzi, ci siamo, sono pronto, stavolta mi candido.  

    Ecco. Il big bang di Matteo Renzi non si è concluso con la candidatura formale alla leadership del centrosinistra del sindaco di Firenze ma alla fine della tre giorni Leopoldina si può dire che in attesa che ci sia qualcosa a cui candidarsi il renzismo (con il suo wiki-Pd) da oggi è ufficialmente in campo contro “i vecchi dinosauri del Partito democratico”; e contro uno in particolare: il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. Dunque, nessuna candidatura, almeno per il momento, ma la tabella di marcia per il sindaco di Firenze in fondo non cambia: Renzi aspetterà che ci sia qualcosa a cui candidarsi e quando sarà il momento scenderà in campo. Punto. 

    Per il resto, qui a Firenze, oggi sono almeno un paio gli spunti di riflessione importanti che vale la pena di riportare. Non parliamo del numero di partecipanti alla kermesse (circa 10 mila persone in tre gironi, con tutto esaurito questa mattina poco prima che parlasse Renzi), della cifra raccolta con il fund raising per la tre giorni (il costo dell'evento – circa 100 mila euro – è stato interamente coperto senza il sostegno di alcuno sponsor ma solo grazie a una serie di microfinanziamenti raccolti in questi giorni su Internet e alla Leopolda stessa) o del successo ottenuto dalla Leopolda sulla rete (sono stati circa 50 mila i contatti unici della diretta streaming sul sito Leopolda2011). No: gli elementi che ci hanno più colpito sono stati altri.

    Primo: la piattaforma scelta da Renzi per sfidare il vecchio apparato del Partito democratico. Renzi, anche oggi, ha confermato di voler incalzare l'attuale classe dirigente del Pd seguendo una traiettoria marcatamente alternativa all'idea “novecentesca” portata avanti oggi dal segretario del Pd. Nel corso del suo intervento Renzi ha insistito molto sul concetto che l'idea bersaniana (e dalemiana e fassiniana, nel senso di Stefano Fassina) di Pd sia un'idea di partito troppo novecentesca, appunto, condannata a essere drammaticamente minoritaria all'interno della società italiana. E ancora una volta, per rivendicare la sua distanza dalla linea seguita dal segretario del Pd, Renzi si è rivolto durante il suo discorso finale al politico che più degli altri in questo momento rappresenta l'essenza stessa dell'identità del Pd di Bersani: il responsabile economico, Stefano Fassina.

    A un certo punto del suo intervento (intervento molto apprezzato, ma leggermente viziato da una premessa troppo lunga e da una sorpresa a lungo annunciata in questi giorni che alla fine della tre giorni però non si è materializzata), Renzi ha detto di non essere disposto a farsi dettare la linea da un signore (il soggetto è sempre Fassina) “che non raccoglierebbe neppure i voti della sua riunione di condominio”.  E il fatto che Renzi – oltre a essersi rivolto a Fassina – anche oggi abbia parlato molto di pensioni (“Riformarle è importante e chiedere di andare in pensione più tardi non significa voler fare una macelleria sociale”), di lavoro (“Dobbiamo lavorare per non mettere imprenditori e lavoratori su due lati distinte delle barricate”), di flexsecurity (anche oggi, tra le righe, Renzi, ispirandosi molto ancora una volta alle parole del senatore Pietro Ichino, ha fatto capire di essere favorevole a una revisione del modello del contratto di lavoro attuale) dimostra ancora una volta che è proprio l'economia il cuore della battaglia sull'identità del Pd combattuta in questi mesi dalle principali anime del partito d'opposizione. E in questo senso, beh, non è un caso che uno dei discorsi più attesi oggi tra quelli dei big che in questi giorni hanno sfilato sul palco del Big Bang fosse proprio quello di Luigi Zingales (arrivato apposta per Renzi dagli Stati Uniti ma, un po' a sorpresa, non per parlare di economia ma per parlare di giustizia, di legalità e di amnistia).

    Economia a parte, per capire il senso della Leopolda ci sono altri due aspetti che non si possono ignorare. Il primo riguarda il modello di Pd che Renzi sogna di riuscire imporre all'interno del proprio partito. Il secondo riguarda il vero obiettivo del software renziano (software che da oggi verrà aggiornato tramite una sorta di wikipedia del Pd che verrà aperta questa sera su Internet da Renzi).

    Sul primo punto, Renzi è stato chiaro rispondendo a fine giornata in conferenza stampa ad alcune domande sul suo rapporto con Bersani, D'Alema, Vendola, Rosy Bindi. Gli hanno chiesto: in che cosa cambia di preciso il Pd che lei sogna da quello che sogna Bersani? Ma se lei fosse candidato alle premiership non sarebbe costretto ad allearsi ugualmente a Vendola, Di Pietro e tutti gli altri? Risposta di Renzi: “La differenza tra la mia idea di Pd e quella di molti altri è che per molti altri il Pd è uno dei partito del centrosinistra. Io invece credo che l'approccio sia sbagliato: il Pd non è uno dei partito del centrosinistra, è il centrosinistra”. Ragionamento che avrà fatto venire la pelle d'oca ai veltoniani in sala (e ce n'erano, ce n'erano) ma che di fatto potrebbe essere tradotto con un discorso di questo tipo: “Quando mi candiderò non sarò io a chiedere in ginocchio a qualcuno di allearsi con me, come succede invece oggi, ma saranno gli altri che se vorranno si alleeranno con il mio partito. Noi non andiamo a fare le elemosina proprio a nessuno”.  

    L'altro elemento di interesse della Woodstock renziana (detto ancora tra parentesi: uno degli eventi a più alto coefficiente di ritwittaggio mai visti in Italia) riguarda invece il destinatario del messaggio della Leopolda. Lo si è detto molte volte: Renzi, ormai è evidente, si rivolge a un pubblico diverso da quello a cui si rivolge Bersani: e più che preoccuparsi di stimolare il vecchio zoccolo duro della sinistra il sindaco di Firenze si sta evidentemente impegnando per allargare il Pd e provare in tutti i modi di andare a stimolare tutti quelli che il Pd non lo hanno mai votato, quelli che lo avrebbero votato ma poi non l'hanno fatto, quelli che lo voterebbero ma così com'è non riescono a votarlo e quelli che non hanno mai pensato di votare Pd e che invece a certe condizioni lo voterebbero eccomi. In soldoni: l'elettorato a cui Renzi esplicitamente dice di volersi rivolgere è soprattutto (ma non solo ovviamente) quello rappresentato dal 40 per cento di italiani che a oggi dice di non avere intenzione alcuna di votare né per il centrodestra né per il centrosinistra (elettorato ben rappresentato dalla vera star della giornata di domenica: Giorgio Gori, ieri numero uno di Canale 5 e poi di Italia Uno, oggi il più applaudito alla Leopolda dopo il sindaco di Firenze).  

    Da parte sua (e Renzi questo ce lo confessa più o meno esplicitamente rispondendo in conferenza stampa a una domanda del Foglio), il sindaco di Firenze dice di non essere preoccupato di piacere anche a molte persone di destra: e anzi fa capire di essere lusingato dall'idea di poter attrarre nell'orbita del Pd alcuni elettori solitamente estranei allo stesso mondo del Pd. In un certo senso, più che la polemica sui dinosauri del Pd, più che le provocatorie parole sulla rottamazione, più che il futuro delle primarie, più che il totonomi a un certo punto partito in sala sui possibili volti che un domani potrebbero far parte di un governo renziano (“Baricco alla Cultura?”, “Gori alla Comunicazione?”, “Zingales all'economia?”), il senso del Big Bang di Renzi proprio questo è. Far esplodere il Pd non per distruggerlo ma per creare, schumpeterianamente parlando, un nuovo universo all'interno del quale ospitare nuove galassie, nuove anime, nuovi volti della politica. Certo: non si sa ancora come e quando ma da oggi si sa che quando arriverà il momento Renzi certamente ci sarà.   

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.