Renzi e la sua carta di identità
Prima delle parole, delle provocazioni, delle rottamazioni, delle immagini, delle proposte, dei contenuti e prima ancora degli abusati resoconti di tutti quei gggiovani (con molte “g” a seconda del grado di coinvolgimento con l'evento) ammassati ad ascoltare i Matteo Renzi, gli Alessandro Baricco, i Giorgio Gori, i Fausto Brizzi e i Luigi Zingales, con il tablet nello zaino, la cuffietta nell'orecchio, il computer sulle ginocchia e l'occhio furbo.
Prima delle parole, delle provocazioni, delle rottamazioni, delle immagini, delle proposte, dei contenuti e prima ancora degli abusati resoconti di tutti quei gggiovani (con molte “g” a seconda del grado di coinvolgimento con l'evento) ammassati ad ascoltare i Matteo Renzi, gli Alessandro Baricco, i Giorgio Gori, i Fausto Brizzi e i Luigi Zingales, con il tablet nello zaino, la cuffietta nell'orecchio, il computer sulle ginocchia e l'occhio furbo che un po' si poggia sul blog, un po' su Twitter, un po' su Flickr e un po' su Facebook (e quando capita anche un po' sul palco della Leopolda); ecco, prima ancora di tutto questo bisogna partire da qualcos'altro per comprendere quello che è successo in questa tre giorni leopoldina.
Inutile girarci attorno: per capire il senso del Big Bang – e per capire anche quello che sta succedendo in questi mesi nella pancia del centrosinistra italiano – bisogna mettere da parte un po' di sociologia e partire subito da due numeri che messi insieme uno accanto all'altro era da un po' che non si vedevano in Italia: tre e sei, trentasei, ovvero gli anni di Matteo Renzi. Certo, lo sappiamo: il sindaco di Firenze viene spesso accusato dai suoi antipatizzanti di essersi servito in modo eccessivo della sua carta d'identità e non passa giorno in cui il gran Rottamatore non viene rimproverato di aver costruito il suo profilo utilizzando in modo inopportuno la famosa cartuccia del giovanilismo. Chiaro: su questo punto alcune critiche sono anche appropriate (Renzi effettivamente abusa un po' nell'utilizzare per esempio l'espressione “dobbiamo rottamare un'intera generazione”) ma per il centrosinistra sarebbe un errore grande così non accorgersi che dietro la carta di identità di Renzi non si nasconde solo un gap generazionale; ma si nasconde qualcosa di diverso su cui il sindaco leopoldino – un po' con i suoi simboli, un po' con le sue parole, un po' con i suoi ospiti, un po' con le sue immagini – ha scelto di puntare in modo deliberato.
Perché, sì: non si fanno arrivare diecimila persone in tre giorni in una piccola e buia stazione fiorentina solo brandendo la clava della rottamazione. Non si raccolgono 110 mila euro in settanta ore solo mostrando una bella carta di identità. Non si coinvolgono cinquanta mila persone in diretta streaming su Internet solo per far passare il messaggio che i giovani devono scendere in campo e che i vecchietti se ne devono andare a casa. E non si fanno arrivare da Chicago professori cazzuti (come Luigi Zingales) solo per dire ehi ragazzi, basta, noi siamo più giovani e ora tocca a noi. No, naturalmente. Per questo, dietro il renzismo, e dietro quei due numeri, evidentemente c'è qualcosa di più. E quel qualcosa di più lo si coglie parlando con alcuni dei ragazzi che da venerdì a domenica hanno partecipato al Big Bang fiorentino.
E lo si capisce soprattutto quando i trentenni leopoldini rivendicano (come fa Renzi) di essere parte di una nuova generazione: una generazione che come tratto distintivo non ha soltanto quello di avere confidenza con il mondo dei new media, con i post sui blog o con i video su YouTube, ma anche di essere cresciuta senza aver mai trovato sulla sua scheda elettorale i simboli del Pci o della Dc, senza aver mai avuto a che fare con i riti della Prima Repubblica, senza aver mai vissuto nell'era dei primi ministri che duravano il tempo di una messa in piega; e senza aver vergogna di dichiararsi figli tanto della tv commerciale quanto di Internet, tanto di Mtv quanto di YouTube, tanto di Tony Blair quanto di Steve Jobs, tanto dei Simpson quanto delle primarie.
Dice Matteo, 32 anni, ricercatore romano: “E' vero che in questo contesto non c'è il profumo acido della colla dei manifesti e non c'è neppure il ricordo delle cappe di fumo delle sezioni e delle lunghe discussioni sul centralismo democratico. No. E' una generazione diversa, questa. Una generazione il cui pantheon non è più fatto con i nomi e i cognomi di politici del passato – non più dai De Gasperi, dai Togliatti, dai Berlinguer e dai Gramsci – ma è composto più che altro da una serie di simboli che a pensarci bene però più politici oggi non potrebbero essere. Internet. Il mattarellum. Il capitalismo. Il bipolarismo. E sì: in un certo senso, se vogliamo, anche il berlusconismo”. Ovvio: i tre giorni della Leopolda sono stati utili anche a mettere a fuoco le famose cento proposte dei renziani per cambiare l'Italia (da domenica sera sul sito della Leopolda è stato creato una sorta di Wiki-Pd) ma prima ancora dei contenuti sono proprio le metafore del Big Bang ad aver svelato l'universo culturale a cui si rivolge oggi il sindaco di Firenze.
Ed è proprio questo, se ci pensiamo bene, il senso più profondo del confronto (o meglio dello scontro) tra le due anime del Pd. Da un lato il mondo novecentesco rappresentato da un Bersani che crede sia giusto impostare la battaglia del nuovo millennio con gli strumenti e le categorie politiche (e persino il lessico) del vecchio millennio (e dunque la ditta prima di tutto, il progetto prima di tutto, le alleanze prima di tutto, gli apparentamenti prima di tutto). Dall'altro il mondo di Renzi (dei trentenni alla Renzi) che chiede di non separare gli imprenditori dai lavoratori, che chiede di riformare con urgenza le pensioni, che chiede di non farsi travolgere dai conservatorismi dei sindacati, che chiede di essere autonomo dai giustizialismi, che chiede di non avere niente a che fare con le armate brancaleone e che in fin dei conti crede sia giusto mettere in gioco la propria carta di identità per provare – come ripete spesso Renzi – “a fare uscire la politica dal vecchio millennio”.
“Siamo consapevoli – dice Federico, 31 anni, pubblicitario milanese – che fare un uso spregiudicato dei simboli, delle immagini, dei video, delle parole e degli strumenti della comunicazione può essere anche un modo per offrire il fianco a tutti coloro che accusano Matteo di essere troppo interessato alla creazione di una leadership piuttosto che ai contenuti. Ma io mi chiedo se oggi non sia arrivato il momento di fare un passo in avanti. Di capire per esempio che senza un volto forte non esistono idee forti. Di capire che si possono avere in tasca i contenuti più belli del mondo ma che senza una leadership davvero carismatica semplicemente il giocattolo non funziona. Siamo populisti? Non direi – conclude Federico – al massimo alla Leopolda abbiamo scoperto di essere semplicemente molto, molto, molto popolari”.
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