Draghi in Bce tra tragedia greca e panico indotto: che fare?
Ci mancava pure il referendum greco per accompagnare con inni tragici il cambio alla Banca centrale europea. Mario Draghi ha vivo il ricordo di un altro voto popolare, quello danese che nel giugno 1992 respinse il trattato di Maastricht. La speculazione da mesi aveva già colpito le valute deboli (allora erano scandinave); a quel punto partì l'attacco alla lira italiana e a quella britannica.
Ci mancava pure il referendum greco per accompagnare con inni tragici il cambio alla Banca centrale europea. Mario Draghi ha vivo il ricordo di un altro voto popolare, quello danese che nel giugno 1992 respinse il trattato di Maastricht. La speculazione da mesi aveva già colpito le valute deboli (allora erano scandinave); a quel punto partì l'attacco alla lira italiana e a quella britannica. Il neo presidente della Bce era direttore generale del Tesoro e rammenta bene la discussione tra il presidente del Consiglio Giuliano Amato e il governatore della Banca d'Italia Carlo Azeglio Ciampi sulla necessità di salvare il cambio. Una difesa inutile e dannosa che costò oltre la metà delle riserve valutarie italiane. Ancor più nitide diventano queste rimembranze ventennali, alla lettura del messaggio, laconico e denso, inviatogli ancora ieri da Angela Merkel: “Lavorare per la stabilità dell'euro”. Un viatico pleonastico perché certo Draghi non vuol restare nella storia come il becchino dell'unione monetaria. O un'aspirazione generica: stabilità, a quale livello di cambio? Oggi un euro vale 36 per cento più di un dollaro, eppure non attira capitali e danneggia le esportazioni italiane, spagnole, francesi persino. Certo, consente ai Konzern tedeschi di fare shopping in giro per il mondo. Ma non si può insinuare che la Cancelliera intenda imporre alla Bce una politica monetaria al servizio del Modell Deutschland.
Tutti si chiedono se Draghi seguirà la filosofia classica tedesca, per poi distaccarsene in caso di forza maggiore come ha fatto Jean-Claude Trichet nell'ultimo anno. Se spingerà la Bce verso l'interventismo, stile Fed e Banca d'Inghilterra. Se sarà rigido o accomodante, a cominciare dal proprio paese. Lo abbiamo letto sul quotidiano della City, il Financial Times, sul neogollista Figaro, sulla Stampa che ieri ha titolato su un cliché: “Draghi debutta fingendo di non essere italiano”. Più preparato in dottrina rispetto al suo predecessore, il neopresidente ha imparato proprio dall'esperienza italiana e dalla conoscenza della finanza anglo-americana, che la flessibilità è una virtù e la salute della moneta si calcola sui fondamentali, tra i quali il tasso di crescita.
Draghi non ha il mandato per cambiare il modello europeo e non ha intenzione di pretenderlo, dice chi lo conosce bene, anche perché il paradigma è abbastanza ampio da consentire una interpretazione intelligente.
Prendiamo la querelle sui tassi. La Bce decide il costo del denaro a breve, brevissimo termine. I mutui e i prestiti si basano sul mercato reale, guidato dai tassi a medio rispecchiati dai buoni del tesoro decennali. In Italia, così, sono sopra il 6 per cento e in Spagna poco al di sotto, a meno che non si riduca il differenziale con il Bund (titolo tedesco a dieci anni), architrave dell'intera costruzione. Una volta fornito denaro a sufficienza per impedire che il circuito si blocchi, ciascuno deve mettere ordine in casa propria, le banche aumentando il capitale, i governi riducendo deficit e debito. Eppure, la Bce è in grado di incidere sulle aspettative manovrando i tassi. Trichet ha sbagliato ad alzarli per ben due volte, nel 2008 e quest'anno (facendoli salire all'1,5). Se nella riunione di domani il board decidesse di portare il loro livello alla posizione del 12 aprile scorso (un per cento), non violerebbe la stabilità, al contrario.
L'idea che la Banca centrale possa funzionare da prestatore di ultima istanza ripugna ai tedeschi. Anche se, diceva Walter Bagehot, serve proprio a questo, altrimenti basta una zecca guidata da un robot. Il problema è un altro: deve stampare moneta per impedire che s'inaridisca la liquidità, o anche per prevenire l'insolvenza di banche e governi? Una distinzione particolarmente difficile, perché è chiaro che la mancanza di contante può trasformare un debitore illiquido in un insolvente.
Empiti dottrinari e moralismi non si addicono a Draghi, nemmeno sull'inflazione. Gli ultimi dati su un rialzo dei prezzi al consumo sopra il tre per cento possono fornire l'alibi per non ridurre i tassi, ma il rischio è sopravalutato. Perché la moneta creata finora è stata distrutta dalla recessione, ha spiegato lo stesso Trichet. Certo, prima o poi questa gran massa liquida potrà trasformarsi in un aumento generalizzato dei prezzi, a meno che non serva per rimettere in modo la domanda e gli investimenti. I keynesiani alla Paul Krugman o alla Olivier Blanchard, capo economista del Fondo monetario internazionale, sostengono che un po' d'inflazione è olio che lubrifica il motore. Altri credono che solo l'inflazione possa abbattere il debito, come dimostra la storia. Discussioni accademiche, il problema non è imminente e quando si presenterà, le Banche centrali potranno sempre tirare i freni, dice Ben Bernanke.
La Bce così com'è, dunque, può fare parecchio per incoraggiare la ripresa e per bloccare il maelstrom dei debiti sovrani. D'accordo, non compra bond dai governi, ma solo sul mercato secondario. Lo ha fatto ancora ieri e non durerà per sempre, ha già avvertito Draghi. Dal 2008 ad oggi il bilancio della Bce è raddoppiato, riempendosi di titoli delle banche e dei governi. Quello della Fed è quasi triplicato, ma i margini di manovra americani sono illimitati, finché il dollaro rimarrà la moneta dominante.
Pur con questi limiti, ora esiste uno strumento in più: il Fondo salva-stati (Efsf) con una dotazione di 440 miliardi di euro e una potenza di fuoco almeno fino a mille miliardi, grazie al fatto che può piazzare titoli con le mitiche tre A. Gli interventisti propongono che Bce e Efsf si muovano all'unisono in modo da rendere impenetrabile alla speculazione il vallo eretto attorno a Italia e Spagna. Una strada innovativa lanciata da Tremonti, Juncker, Prodi, sarebbe emettere buoni europei, ma per i tedeschi significa far pagare ai virtuosi le colpe dei viziosi, luteranamente parlando.
Fino a che punto Draghi tirerà il sottile elastico che tiene ancora insieme paesi in conflitto tra loro? I difetti nella costruzione dell'euro balzano agli occhi, ma il governo economico europeo o la Bce modello Fed non sono realizzabili per il momento. Non resta che una via mediana tra massima integrazione e disintegrazione totale. Per esempio, un Efsf che compra i titoli di stato al posto della Bce, con l'obiettivo di stabilizzare l'euro, a costo zero per i bilanci pubblici. Magari ricorrendo al Fmi, con uno strumento speciale, come propone Rajan. Darebbe una bella mano a Draghi per uscire dalle sabbie mobile nelle quali è chiamato a galleggiare. Ma non c'è molto tempo, una sequenza di giornate come quelle di ieri e non resta che raccogliere i cocci.
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