Perché nei panni del Cav. oggi Prodi chiederebbe il voto anticipato

Alessandro Giuli

Non sarà Romano Prodi a tendere una mano al periclitante Silvio Berlusconi, non si vedrebbe peraltro come o in nome di che cosa. Del resto l'ex premier ulivista ha detto ieri al Fatto che anche lui giudica il governo del Cav. tecnicamente “morto”. Ma forse nessuno come il prof. di Bologna può comprendere la posta in palio nel vortice che sta inghiottendo l'era berlusconiana.

    Non sarà Romano Prodi a tendere una mano al periclitante Silvio Berlusconi, non si vedrebbe peraltro come o in nome di che cosa. Del resto l'ex premier ulivista ha detto ieri al Fatto che anche lui giudica il governo del Cav. tecnicamente “morto”. Ma forse nessuno come il prof. di Bologna può comprendere la posta in palio nel vortice che sta inghiottendo l'era berlusconiana: il bipolarismo di conio maggioritario, sanzionato da un voto referendario e da una prassi parlamentare quasi ventennale.

    Un'esperienza, ancora oggi insuperata, che si è retta su due blocchi politico-ideologici alternativi nella competizione elettorale e intimamente solidali nel quadro di sistema: l'ulivismo prodiano e il centralismo carismatico berlusconiano. Non incidentalmente, l'ulivismo come forma-pensiero è sopravvissuto alla premiership prodiana; e non soltanto per spirito di lealtà i berlusconiani più avvertiti lavorano oggi per dare un happy ending al loro leader e una prospettiva alla sua fenomenale rivoluzione popolare (incompiuta o semi tradita come ogni rivoluzione). Si capisce che Prodi e i suoi più genuini epigoni mal sopportano il tentativo di scardinare l'assetto bipolare per via tecnocratica o tardo-democristiana.

    Era stato proprio l'ex presidente della Commissione europea, in piena estate, il primo a contrastare la richiesta corale del passo indietro: il governo c'è, aveva detto, che governi dunque fino alla conclusione della tempesta finanziaria. Anche da ultimo, sia nella lettera-appello sul Sole 24 Ore firmata insieme con Giuliano Amato e Alberto Quadrio Curzio, sia nella conversazione con il Fatto, si può ricavare l'impressione che Prodi si stia muovendo da europeista responsabile. Come un veterano che rampogna lo spregiudicato direttorio tedesco-francese e che, quando gli si domanda se non sia scoccata l'ora di Mario Monti a Palazzo Chigi, risponde così: “Non lo si può mandare allo sbaraglio.

    Per fare il governo tecnico c'è l'ostacolo dei numeri in Parlamento”. Prodi di certe cose se ne intende: è un politico formatosi in Nomisma, è scivolato due volte sulla palude ghiacciata di un consenso parlamentare risicato ed esposto alle pressioni dei poteri esterni al Palazzo. Ma non è soltanto questione di numeri o di cicatrici personali. Chi ha costruito in Italia i primi contrafforti di una democrazia dell'alternanza vive con fastidio la proliferazione dei restauratori di complemento, dei nostalgici primorepubblicani che si aggregano alla carovana dei papi stranieri.

    Chi, accanto a Prodi e Berlusconi, ha siglato il patto fondativo della Seconda Repubblica in nome della stabilità e contro le sabbie della frammentazione parlamentare – “subiamo ancora le scelte fatte nel Dopoguerra quando, per evitare il ritorno della dittatura, il potere è stato dato al Parlamento”, disse Prodi al Figaro nel 2007 – come reagisce davanti al rischio di tornare allo status quo ante? Forse reclamerà il voto, come innumerevoli volte ha fatto Prodi per disinnescare le manovre dei malintenzionati.