Agire, non agire, forse morire
Acclarato, accertato e conclamato che comandare è meglio che fottere – pur con il deprecabile dirazzare del Cav., che mai come certi democristiani, in glorioso bianco e nero conservati, direbbe: “Ah, il potere, che bella donna!”: ugualmente apprezza, e testosteronicamente non confonde – chiaro che per lo stesso occorre agire. Agire per comandare – agire, con spietato contrappasso, per non essere fottuti (politicamente, per cominciare).
Acclarato, accertato e conclamato che comandare è meglio che fottere – pur con il deprecabile dirazzare del Cav., che mai come certi democristiani, in glorioso bianco e nero conservati, direbbe: “Ah, il potere, che bella donna!”: ugualmente apprezza, e testosteronicamente non confonde – chiaro che per lo stesso occorre agire. Agire per comandare – agire, con spietato contrappasso, per non essere fottuti (politicamente, per cominciare). L'uomo del fare – che dove c'era un prato faceva Milano 2, dove un monoscopio incustodito accendeva Canale 5, dove i partiti si squagliavano forgiava Forza Italia – si è infine adattato a lettere, conversazioni, pernacchie, sfottimenti, rinvii, mezze parole, né sì sì né no no – altro che sì sì, no no.
Con sfibrante cautela non ha saltato la crepa, non ha saltato il fosso, non ha saltato neanche il burrone: le ossa (quelle corporali, per quelle politiche è tutt'altro discorso) sono tutte intatte, ma a forza di rischiare poco e di agire ancor meno, adesso sull'orlo del baratro si trova – e stare in politica a ridosso del baratro è come stare a ridosso di un muro: di fucilazione. Un po' della santa follia di Erasmo, avrebbe dovuto rammentare il Cav. preso in un giro di democristianerie, formalismi e mortifere convenienze – o meglio ancora, ricorrere alla saggezza di chi al mondo ha dato Paperino e Topolino, che di sicuro sopravviveranno all'euro: “Se puoi sognarlo, puoi farlo”, diceva Walt Disney. Sul limitare della sua sorte politica – ché a forza di fissare il burrone, il burrone ti apre crepe dentro il cuore e comincia a fissare te – e volendo perennemente tranquillizzare e sempre rassicurare e comunque placare, il Cav. finisce invece col sobillare gli spiriti animali che per anni ha evocato e che nell'ora suprema è difficile tenere al pascolo stanziale come gregge di ovini, loro pure a sentir battere forte il cuore fissando il vuoto: dalla condizione di zucca furono elevati, e nel pantano dell'immobilismo in foglie di ortica che si strofinano sul delicato deretano del leader immobilizzato si mutano.
E lì ancora sta, il Cav.: magari con un sospiro di sollievo, convinto di aver evitato il temerario salto, in realtà immobile sulla linea di confine – tra vuoto e nulla. Politicamente, un perfetto bersaglio da raggiungere a colpi di pallettoni. Decidere, questo un leader fa. E decidere quando la decisione pare difficile, quando non vengono neanche le parole per spiegare (e far accettare) il sangue e il sudore che si chiedono (gratis e a costo zero non ci si spaccia per Churchill: “Il successo è l'abilità di passare da un fallimento all'altro senza perdere l'entusiasmo e lo scatto”). Osare sempre, decretare se necessario, affrontare la battaglia conseguente. L'entusiasmo e lo scatto, appunto. Sarà dura, politicamente sanguinosa, ma alla fine, quasi sorprendentemente, magari si vince. Il Cav. – che è durato molto più di tanti suoi illustri predecessori (meno di uno, e non dei più illustri), e che assicura come, dal secolo di Cavour, mai luce più splendente illuminò le sorti governative nazionali – questo atteggiamento lo dovrebbe intanto avere per dovere. Poi, casomai, e non è tentazione da disprezzare, per convenienza. Se butta un'occhiata ai suoi predecessori – a degnarsi di farlo, facendosi magnanimo verso la loro minor caratura – vedrà qualche utile esempio pararsi innanzi agli occhi. E senza risalire alla guerra di Crimea, ma solo scrutando l'orizzonte della deprecata (e adesso mica tanto più disprezzata) Prima Repubblica.
Potrebbe fare un salto nel '49, il Cav. – che all'epoca, ha raccontato più volte, bimbetto già di conio liberale e salesiano, veniva vilmente battuto da attivisti comunisti. E' quello l'anno dell'approvazione in Parlamento del Patto Atlantico. E De Gasperi si trovava contro il Pci di Palmiro Togliatti, mica Nichi Vendola o Anna Finocchiaro, malpancismo diffuso tra i suoi alleati – neutralisti buona parte dei democristiani e dei socialdemocratici. Del resto, non che i dubbi fossero del tutto infondati. Lo stesso De Gasperi, a leggere i verbali delle riunioni dei Consigli dei ministri dell'epoca, quasi allargava le braccia con i colleghi perplessi: “Nessuno conosce esattamente la portata del Patto Atlantico, ignoriamo quali siano le condizioni poste agli altri paesi e quali a noi... Sappiamo soltanto che l'ipotesi prevista è solo quella di una guerra difensiva”. L'unico ad appoggiarlo veramente era il ministro degli Esteri Carlo Sforza – che sarebbe come oggi Frattini, ma intanto era Sforza, e qualcosa questo pure significa. Fu una battaglia – nelle piazze e nelle aule parlamentari – terribile, persino Pio XII si era speso per la causa con un discorso in piazza San Pietro. La folla assediava – tale (anzi: parecchio peggio, altro che indignados) e quale adesso. “Alla sera centinaia di persone manifestano davanti a Palazzo Chigi contro l'adesione dell'Italia al Patto Atlantico.
La polizia accorsa ha disperso i dimostranti che più volte si sono ripetutamente riuniti, gridando grida ostili all'indirizzo del ministro degli Esteri” (Ansa, ore 18,10). I militanti del Pci assediavano e cantavano: “E se la polizia 'n ce lascia perde / e se la polizia 'n ce lascia in pace / risponderemo sulle barricate / piombo con piombo”. E certo che la polizia non lascia perdere. L'apposito ministro, Mario Scelba dice al Messaggero: “Secondo quanto era prevedibile, il Pci va organizzando numerose manifestazioni contro l'adesione dell'Italia al Patto Altantico. Le solite organizzazioni di massa, manovrate dai comunisti, dalle Camere del Lavoro all'Anpi, dalle commissioni interne dell'Udi, sono già al lavoro. (…) Quali che siano i propositi dei fomentatori di disordini, posso assicurare che le forze dello stato sono pronte e decise a rintuzzare ogni tentativo di mobilitare la piazza contro il Parlamento per coartarne la libertà di decisione”. E quegli altri in coro replicavano marciando in ogni piazza di ogni città: “Che cosa fa quel Mario Scelba / con la sua celere in questura? / Ma i comunisti non han paura…”. Dentro, nell'Aula, era quasi peggio. “Fu, per unanime riconoscimento, il più aspro e drammatico scontro che si sia mai svolto nelle aule del Parlamento”, ha scritto Gianni Corbi.
Così, nella cronaca del Corriere della Sera di quei giorni si poteva leggere: “All'improvviso, ecco balzare alto sulla mischia il comunista Pajetta che, partito come un razzo dal terzo settore, con tre balzi aerei, da un settore all'altro, è piombato a tuffo nel groviglio di teste, braccia, e gambe e in quel groviglio sparisce inghiottito”. E Vittorio Orefice, inventore della famosa “velina” della Prima Repubblica – di carta velina battuta a macchina, pertanto, non fanciulla microgonnata danzante e gli altrui ormoni stuzzicante, ha raccontato: “Saltava di banco in banco come Tarzan. Dall'altra parte c'era Tomba, parlamentare della Coldiretti, una specie di Carnera, che picchiava i comunisti come Bud Spencer”.
Si verifica allora il primo ostruzionismo praticato da un parlamentare del Pci – l'onorevole Cerruti, che parla per otto ore e mezzo; c'è il gran capo Togliatti che infiamma le sue falangi in Aula, “se i comunisti mancassero ai loro doveri di solidarietà verso i lavoratori sovietici, sarebbero dei traditori…”. La cronaca ultima: “Seduta fiume alla Camera, per gli interventi vari e per la dichiarazione di voto, dopo l'intervento finale di De Gasperi svoltosi in un parapiglia, con colluttazioni, intonazione di canti con l'Inno di Mameli, l'Inno dei lavoratori e l'Internazionale. Inutile il suono della ‘martinella' per moderare quella che sembra un'aspra battaglia, che dura ininterrottamente da venti ore. Ma non è finita, sono respinte le sospensioni, e la seduta dopo 46 ore non è ancora giunta alla sua conclusione, che poi è il voto. Alle 17,15 del giorno 18, viene comunicato l'esito della votazione sull'ordine del giorno che approva l'adesione dell'Italia al Patto Atlantico”.
E così finì: 342 voti a favore, 170 contrari, 19 astenuti. Poi, toccherà al Senato approvare. E dopo che tutto è stato fatto, il discorso di De Gasperi alla radio – che avrebbe potuto, chissà, se avesse voluto, e poi se mai avesse creduto, fare il Cav.: il discorso di un'intera vita politica. “Amici e avversari, tutto pesato, tutto considerato, abbiamo assunto innanzi al paese e alla storia una responsabilità grave, ma abbiamo la convinzione sicura che il popolo – badate, anche chi non condivide il nostro pensiero – capisce che l'abbiamo fatto per il suo avvenire e per la sua salvezza”. O sennò potrebbe, il Cav. ciondolante sull'orlo del suo (e nostro) personale baratro, andando avanti di qualche anno, fissare l'attenzione al '53. Sempre De Gasperi a capo del governo, a Palazzo Madama si vota per la riforma elettorale – quella che con felice furbizia comunicativa, i comunisti ribattezzarono “legge truffa”. Nell'austera (allora) Aula senatoriale, se ne videro di tutti i colori – roba da far rispuntare il riporto a Schifani. Persino un presidente, Meuccio Ruini, che secondo le cronache del giovane cronista parlamentare Ugo Zatterin “se la fece nei pantaloni” – bloccato sul suo seggio presidenziale dall'interminabile, e fisiologicamente insensibile, sproloquio ostruzionistico di un collega senatore.
Un altro presidente, Giuseppe Paratore, dopo aver eroicamente resistito per qualche giorno, aveva gettato la spugna. Ma la visione più singolare è quella di un Giulio Andreotti alle prime armi ma già attrezzato, piazzato al centro dell'emiciclo con in testa un secchio per le cartacce. Ecco il ricordo del senatore a vita: “Io non sono portato a drammatizzare, però quella volta c'era da aver paura. Le provarono tutte per interrompere la seduta: il presidente del Senato, Giuseppe Paratore, resisteva anche al lancio delle tavolette. Io ero rimasto solo al banco del governo e mi infilai in testa un cestino dei rifiuti. Parevo un marziano. Spano (un deputato del Pci, ndr) fu fermato prima di far precipitare sulla testa di Paratore una poltrona; mi sibilò: ‘Dopo il voto avrete un nuovo piazzale Loreto'. Paratore si dimise”. Intorno – e in tutt'Italia – il solito ribollire di piazza, scontri e spari, manifestanti inferociti e celerini dalla mano pesante. Persino Pietro Ingrao, direttore dell'Unità, fu preso a manganellate – ed entrò in Aula con la testa sanguinante e notevole effetto drammatizzante.
Intanto il Pci diffondeva “santini” con “Il Credo di un democristiano”, dove pesantemente (e in modo grossolano) si attaccava De Gasperi: “Siede alla destra di Truman e dalla sua volontà venne a giudicare e a dividere gli Italiani vivi e morti. Io credo in lui un falso italiano, nella gravità dei suoi peccati commessi, nella sua maledizione dai morti e dai carcerati e nella sua permanenza eterna all'inferno. Così sia”. Ma si agì, si andò avanti – si sfidò sorte e piazza. E si vinse. O si poteva perdere – ma con grandezza si poteva perdere, come ogni volta che si preferisce agire, anziché restarsene, galleggiante e irrisolto, come una papera stanca di girare in tondo, sull'acqua della palude politica. Non si può essere troppo sparagnini quando la posta politica è alta – c'è il dovere del rischio, e forse, e ancor di più, il piacere di quel rischio per affermare una nuova visione. Anche se poi, fu vittoria inutile. Titolo dell'Unità, subito dopo le elezioni che dovevano assegnare il premio di maggioranza: “La legge truffa non è scattata. Splendente avanzata del Pci”. Forse infine fu tutto inutile. O forse non del tutto. In politica (va così pure nella vita) le scelte che uno deve compiere sempre qualcuno le ha già compiute prima di lui. Si tratta di copiare – decentemente, almeno; e di metterci un po' di personale nuovo coraggio. Non era così pavida, la classe politica della Prima Repubblica, come adesso, per convenienze di nuovisti infoiati, si vorrebbe fare credere. Non lo fu quando, nei primi anni del centrosinistra, avviò la nazionalizzazione dell'energia elettrica, contro cui si schierarono interessi fortissimi.
O, prima ancora, la riforma agraria – ché gli agrari ancora vigilavano e pesavano, ma nel loro essere ormai fantasmi vigilavano e pesavano, e in qualche modo furono messi per sempre fuori scena. Non così con i palazzinari – che vigilavano e pesavano nel loro essere calce e mattoni, e infatti la riforma urbanistica del democristiano Sullo (arditamente ispirata a certe riforme del governo laburista inglese di Clement Attlee) finì demolita dalla stessa Dc. Ma ecco, infine il Cav., che nello stagno soffre e dallo stagno non s'azzarda a spiccare il volo, potrebbe forse prendere soprattutto ispirazione dal suo amico Bettino Craxi. Che rischiò – e parecchio rischiò, quando tagliò i famosi punti di contingenza con il decreto di San Valentino, nel 1984. Compì, in qualche modo, quello che fino a quel momento sembrava impossibile. Ha raccontato Pierre Carniti, allora segretario Cisl: “E' questa la sfida lanciata da Enrico Berlinguer. Dimostrare che senza il Partito comunista non si poteva fare nulla. Non credo che del merito della questione gli interessasse più di tanto”. Fu tutto e di più: dall'ostruzionismo in Parlamento – più di mille emendamenti, “vigilanza diurna” e “vigilanza notturna”, Renato Nicolini che leggeva il testo di un autore teatrale polacco il cui protagonista rispondeva al nome di Ciccino Craxic, Natalia Ginzburg che pronuncia un meraviglioso discorso – poco parlamentare, molto da grande moralista, ma comunque bellissimo: “Se aumenta il prezzo del pane…”.
E la gigantesca manifestazione – quella con Berlinguer che alza la copia dell'Unità con il titolo “Eccoci” – e scioperi ovunque. Poi la morte tragica del segretario comunista. E infine il referendum dell'anno successivo – tutti convinti che l'opposizione l'avrebbe vinto, a cominciare dalla Confindustria. E invece, a sorpresa, il Pci perse la sua (ultima, grande) battaglia. E secondo alcuni, senza aspettare l'89, lì cominciò a svanire dall'orizzonte della storia italiana. Ecco – agire, agire, agire. Magari per vincere, infine. O per non perdere sicuramente – per non dissolversi in un falò nemmeno di vanità, ormai, ma di sole illusioni. In emergenza uguale e drammatica, agì Giuliano Amato quando prelevò di notte, nell'estate del '92, dai conti correnti degli italiani. Disse Carlo De Benedetti a Repubblica: “Il governo ora può fare quello che vuole: non c'è più opposizione e non c'è più un sistema di potere”. Editoriale del Corriere della Sera: “Si può fare di più”. Autore: Giulio Tremonti. Persino adesso si può fare di più. L'imminente uscita del nuovo disco con Apicella è una deliziosa notizia – ma al Cav. ormai occorrono ben più di sette note, mentre la sua orchestra si fa di giorno in giorno più felliniana: stonata, disordinata, anarchica. Autodistruttiva. E soprattutto molto, molto impaurita – dal suo non agire.
Il Foglio sportivo - in corpore sano