Il salmone di massa

Roberto Volpi

L'esplosione è avvenuta a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quando da cinque capitoli di spesa si è passati a dieci e da una sessantina di voci di spesa (beni di consumo) si è schizzati a 267. Oggi siamo a dodici capitoli di spesa e, tanto per gradire, a 591 beni di consumo facenti parte del paniere dei prezzi al consumo dell'Istat anno 2011. Ma i prodotti considerati sono ben 1.377, essendo che per molti beni si considerano più prodotti diversi tra di loro.

    L'esplosione è avvenuta a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quando da cinque capitoli di spesa si è passati a dieci e da una sessantina di voci di spesa (beni di consumo) si è schizzati a 267. Oggi siamo a dodici capitoli di spesa e, tanto per gradire, a 591 beni di consumo facenti parte del paniere dei prezzi al consumo dell'Istat anno 2011. Ma i prodotti considerati sono ben 1.377, essendo che per molti beni si considerano più prodotti diversi tra di loro.

    Trattandosi di rilevazione campionaria su un “set” limitato di voci di spesa abbiamo, credo, già detto tutto o quasi. Il paniere cambia anno dopo anno, per tener dietro al  cambiamento di gusti e consumi e risultare sempre rappresentativo. “Rispetto al 2010 entrano nel paniere le nuove posizioni: tablet pc, Ingresso ai parchi nazionali, ai giardini zoologici e botanici, Servizi di trasporto extraurbano multimodale integrato, Fast food etnico, Salmone affumicato. Esce la posizione Noleggio Dvd”. Questo, nelle parole dell'Istat, l'ultimissimo annuale aggiornamento.

    Prego annotare la bilancia entrate-uscite. Nuove voci che entrano nel paniere: sei; vecchie voci che escono dal paniere: una. Fosse mai che le uscite superino le entrate. Recentemente erano entrati nel capitolo “Comunicazioni” cose come servizi internet su rete mobile e smartphone, nel capitolo “Ricreazione, spettacoli e cultura” beni come notebook, netbook oltre a  supporti digitali e schede di memoria per varie macchine e attrezzature ma anche, al capitolo “Servizi ricettivi e ristorazione”, cose simpatiche come l'aperitivo, la caffetteria e lo snack al bar, e negli “Altri beni e servizi”, oltre all'estetista, al filo interdentale, al profluvio di creme per ogni parte del corpo, cose meno simpatiche come l'avvocato, il commercialista, il collaboratore familiare. Dimenticavo: c'è anche il servizio funebre. Suppongo che quest'ultimo resterà sempre lì, al suo posto, almeno fino a quando i genetisti non avranno scoperto il gene dell'immortalità.

    La classificazione dei prodotti per il calcolo degli indici dei prezzi al consumo (e a cascata per quelli di povertà e di spesa delle famiglie) è più volatile dei governi della Prima Repubblica. All'Istat non fanno in tempo a preparare uno schema che, complici anche le revisioni metodologiche in sede europea, già debbono passare al successivo. Quello ultimo è così complesso da parere cervellotico e merita di esser declinato per intero, dunque: dodici divisioni (volete mettere le “divisioni” con i vecchi “capitoli di spesa”? Eppoi si lamentano del linguaggio criptico con cui sono scritte le leggi della nostra Repubblica),  43 gruppi di prodotto, 102 classi di prodotto, 230 sottoclassi di prodotto, 319 segmenti di consumo.

    Questi ultimi nel 2010 si chiamavano voci di prodotto anziché segmenti di consumo ed erano 205. Cos'è un segmento di consumo è presto detto, basta rifarsi alle definizioni del Regolamento (CE) n. 1334/2007 del 14 novembre 2007, per trovare scritto che “esso rappresenta un insieme di transazioni per l'acquisto di prodotti omogenei dal punto di vista del soddisfacimento di specifici bisogni e che, di conseguenza, possono essere ritenuti equivalenti dai consumatori”. Meglio non addentrarsi in altre definizioni, sembra a me. Qui è tutto un mettere e levare, si sarà capito, col mettere che surclassa alla grande il levare, ed è un riaggregare e ridefinire e infine riclassificare di continuo, senza sosta: il tentativo, insomma, il titanico, illuministico e forse impossibile tentativo di mettere ordine nella  foresta pluviale dei consumi d'oggigiorno dove la vita si moltiplica incessantemente. Perché sarà pure che la povertà avanza, che il ceto medio si impoverisce, che i consumi indietreggiano, ma beni e classificazioni e misurazioni di beni, indici e livelli di consumi e spese e povertà di singoli e famiglie, tutto questo ambaradan statistico viaggia nello spazio dell'economia e della società alla velocità della luce (o dovrei dire dei neutrini?). It's complicated. Tenere dietro ai cambiamenti dei consumi più d'ogni altra cosa. Il gigantismo classificatorio è pressoché inevitabile. E non per niente è cominciato, per quanto ci riguarda, in tempi di ricostruzione e boom economico. Senza, da allora, più fermarsi.

    Certo, si potrà opinare che il salmone affumicato è in circolazione da un bel po', mica solo dall'anno di grazia 2011, ma evidentemente è da quest'anno che all'Istat – dove  se ne intendono di rilevazioni dei  consumi, visto che calcolano indici dei prezzi sin da quand'è nato l'istituto nel lontano 1926 – l'hanno inserito nell'empireo dei beni che vantano una diffusione tale da dover rientrare nel famoso paniere, assieme ad altri come il tablet pc, la tavoletta digitalizzata ch'è come un pc portatile, visto che consente di interfacciarsi con sistemi automatizzati d'informazione ovunque collocati. E sta qui, appunto, la questione. Che, cioè, un bene entra nel paniere non già quando appare all'orizzonte, ma in certo senso quando conquista il mercato, quando diventa un consumo di massa o almeno di significativi, quantitativamente parlando, segmenti della massa dei consumatori. Il salmone affumicato di massa c'è diventato da poco, come il Tablet PC, lo smartphone, l'aperitivo al bar, la crema rassodante, l'estetista e via e via lungo una lista ch'è arrivata a includere quasi seicento beni di consumo e servizi che vanno per la maggiore. E che non ha più niente a che spartire con quella di anche soltanto un paio di decenni addietro, quando l'aperitivo al bar e la crema rassodante erano consumi “alti”, di segmenti ancora troppo ristretti della popolazione per poter essere rappresentativi dei modi di consumare degli italiani, e oggetti come il Tablet PC e lo Smartphone erano di là dall'essere anche soltanto immaginati. Cose risapute, si dirà. Ma mica poi tanto, credetemi. Perché qui tutti i discorsi vanno a finire su aspetti di privazione, individuale e sociale, come se questi e soltanto questi fossero quelli che davvero connotano la situazione odierna italiana anche e proprio sul piano dei consumi.

    Ed è questo un modo di perdere, invece di acquistare o consolidare, il contatto con una realtà ben più complessa, variegata, e certamente anche contraddittoria. Il fatto è che se non si legge la privazione  su questo sfondo di consumi ampi e moderni e pure ricchi che caratterizzano la vita quotidiana della maggioranza e lambiscono quella di un'altra bella fetta di italiani, non riusciamo neppure a interpretarla, la privazione, e meno ancora ad affrontarla per porvi rimedio come pure merita che sia affrontata e rimediata. Si guardi innanzitutto alla quota sempre decrescente rappresentata da alimentari e bevande sul totale della spesa delle famiglie. All'approssimarsi degli anni Cinquanta, dopo la guerra, stava ancora attorno al sessanta per cento. A più del quaranta per cento negli anni Sessanta e a più del trenta per cento negli anni Settanta. Con gli anni Ottanta si è scesi sotto il trenta. Oggi siamo sotto il venti per cento – al diciannove per l'esattezza – meno di un quinto della spesa delle famiglie. Ora, è risaputo che tanto più esigua è la quota delle entrate delle famiglie che prende la via degli alimentari e delle bevande e tanto più evoluti sono i consumi, a loro volta indice di un buono stato di salute economica delle famiglie. Non per niente, del resto, le famiglie italiane si sono rivelate delle attente risparmiatrici. Senza quel buono stato di salute economica non ci sarebbero stati santi in paradiso capaci di operare un tale miracolo, sembra a me.

    Trasporti e comunicazioni per esempio (che oggi rappresentano due distinti capitoli di spesa, ma fino a ieri stavano assieme in un unico capitolo) superano largamente, da soli, la spesa per consumi alimentari e bevande. Ma le rivoluzioni sono state formidabili anche all'interno dei singoli capitoli. Sul lato della modernità, se vogliamo dir così, spiccano, in un sempre più inestricabile, unico groviglio le spese per telefonia, Internet, reti, apparecchi e  supporti e accessori per tutto ciò che è connessione e interconnessione con gli altri e il mondo. E' una partita che vale già trentacinquemila punti del milione di punti che l'Istat assegna simbolicamente all'insieme di  tutti i consumi e che poi ripartisce tra gli stessi secondo i risultati delle rilevazioni sul campo. E' il tre e mezzo per cento del totale dei consumi, dunque, e sembra piuttosto pochino ma equivale a quanto si spende per acquistare auto di tutti i tipi e assai più di quel che si spende per medicinali. In pratica solo quel che si lascia in ristoranti e pizzerie assieme considerati supera la spesa per quello che si presenta come l'agglomerato di quei moderni consumi destinato a ingrossarsi ancora negli anni a venire.

    La crisi, sia chiaro, qualcosa ha toccato. La spesa media mensile delle famiglie è ferma dal 2007 attorno a poco meno di 2.500 euro, con il cinquanta per cento delle famiglie che stanno sotto i 2.040 euro al mese e l'undici per cento sotto la cosiddetta soglia di povertà relativa (circa mille euro mensili per una famiglia di due persone). Ma certi livelli non sono da paese alla frutta, né lasciano intravvedere masse crescenti di persone che non sanno come sbarcare il lunario e  combinare assieme il pranzo con la cena. C'è molta esagerazione in questi racconti, ed è proprio questa esagerazione a portare il discorso fuori strada quando si toccano i temi della povertà e della privazione sociale perché fa sì che un discorso, e una linea di intervento, che ha da essere mirato si annacqui e sfilacci in un tripudio di generalizzazioni dannose.
    A diminuire, tanto per cercare di capire come stanno davvero le cose, sono, dice l'Istat, “le spese destinate agli altri beni e servizi in tutte le ripartizioni: da 268 euro del 2009 a 253 euro del 2010. In particolare, si contrae, anche a seguito della minore percentuale di famiglie che acquistano tali prodotti, la spesa per la cura personale (parrucchiere, barbiere, centri estetici e simili), i viaggi, gli onorari dei professionisti, l'assicurazione vita e le rendite vitalizie”.

    Ma si deve pur dire che la spesa per la cura personale aveva fatto registrare negli anni precedenti una formidabile impennata, ragion per cui la contrazione attuale avviene entro margini che non configurano un tracollo ma piuttosto un ritorno a livelli di consumo semmai più in linea con l'andamento degli altri consumi. Si risparmia nella galassia dei consumi più voluttuari, insomma, ma al nucleo forte non si arriva e se calano i trasporti (acquisto di auto) aumentano le spese per la casa e non ne risentono, almeno per ora, quelle per tempo libero e cultura. E' una situazione di surplace, semmai, nel corso della quale c'è un riposizionamento delle famiglie attorno a modi e beni di consumo ritenuti più funzionali per tenere le posizioni in tempi difficili. Non c'è stato un sostanzioso e sostanziale arretramento, e meno ancora lo si vede, un tale arretramento, se si scompone la spesa per consumi nelle consuete ripartizioni territoriali. Perché qui sta ancora e più di sempre il vero tallone d'Achille del paese, in questo tanto descritto quanto, almeno a quel che si ricava dall'esperienza, irrecuperabile divario nord-sud, sia che si parli di disoccupazione giovanile o femminile sia che sia parli, appunto, di consumi e spesa delle famiglie.

    A scendere negli ultimi anni, infatti,  è soltanto la spesa mensile delle famiglie del mezzogiorno e non quella delle altre ripartizioni territoriali. Cosicché a circa 2.800 euro di spesa media mensile al nord ne corrisponde una al sud che non arriva a 1.900 euro, mentre tra Lombardia e Sicilia, vale a dire tra la prima e l'ultima della graduatoria delle regioni, ci sono ben mille e duecento euro di differenza, uno stipendio intero o giù di lì, e in percentuale il 74 per cento in più della Lombardia rispetto alla Sicilia. Abitazione (comprensiva di acqua, energia elettrica e combustibili), trasporti e altri beni e servizi (capitolo dentro al quale ci sono beni che vanno dai trattamenti di bellezza alla gioielleria ma anche servizi come quelli dell'assistenza a domicilio e delle residenze per anziani e disabili) fanno quasi tutta la differenza, in un miscuglio di essenzialità e lusso che riflette alla perfezione come il mezzogiorno perda inesorabilmente contatto dal resto dell'Italia non su questo o quell'altro bene o servizio ma praticamente sull'intera gamma dei beni e dei servizi con la sola esclusione dei beni alimentari.

    Differenza che diventa abissale (e sempre più intollerabile) per ciò che concerne i servizi: pubblici, privati o a metà che siano. Quando si parla di due Italie non si vuole commettere alcun attentato, neppure soltanto a parole, contro l'Unità, ma semmai richiamare ad essa. E chi per primo, deve essere richiamato, se non proprio il mezzogiorno? Le differenze territoriali fanno passare in secondo piano quelle altre, chiamiamole strutturali, in certo senso attese. Le famiglie di imprenditori e liberi professionisti spendono mensilmente il cinquanta per cento in più delle famiglie di operai e il doppio delle famiglie con a capo un disoccupato o una casalinga. Le famiglie di anziani hanno consumi sensibilmente più ridotti delle famiglie con a capo una persona giovane (ma a essere di più sono le prime, e non le seconde) mentre le famiglie numerose hanno normalmente consumi decisamente più votati all'essenzialità (quote di spesa superiore per alimentari, vestiti, scarpe, scuola, trasporti) dei single e delle coppie senza figli. Ma niente di queste differenze ci colpisce davvero.

    Alcune, molte, quasi tutte, anzi, hanno alla base una logica che sta per così dire nelle cose, e dunque non scardinabile: che un single o una coppia in giovane età abbiano una struttura dei consumi anche sensibilmente diversa da quella di una famiglia numerosa o di anziani non è una novità, così come non lo è il diverso ammontare monetario dei consumi delle famiglie di imprenditori rispetto a quelle di operai a parità di componenti. Neppure il fatidico divario nord-sud nei consumi delle famiglie è una novità, ma quel che colpisce al riguardo è che a momenti questo divario è il più forte tra tutti quelli possibili immaginabili e che mentre quasi tutti questi divari segnano il passo, e alcuni arretrano, quello nord-sud procede irresistibile verso il peggio. Sembra una legge di natura, ma non lo è. E' tutta opera degli uomini.