L'infanzia non è mai esistita, è una tortura inventata dai vittoriani

Annalena Benini

Prima del Diciannovesimo secolo l'infanzia non esisteva. C'erano dei piccoli esseri umani frignoni che nella metà dei casi riuscivano a superare i cinque anni di vita, ma mancava del tutto l'interesse verso lo stato esistenziale di “bambini”, o un'attenzione per la loro felicità, e l'amore per i nuovi nati veniva considerato uno spreco di energie, qualcosa di inutile come l'affezionarsi a un vecchio gattaccio malato.

    Prima del Diciannovesimo secolo l'infanzia non esisteva. C'erano dei piccoli esseri umani frignoni che nella metà dei casi riuscivano a superare i cinque anni di vita, ma mancava del tutto l'interesse verso lo stato esistenziale di “bambini”, o un'attenzione per la loro felicità, e l'amore per i nuovi nati veniva considerato uno spreco di energie, qualcosa di inutile come l'affezionarsi a un vecchio gattaccio malato.

    Secondo Philippe Ariès, autore francese di “Padri e figli nell'Europa medievale e moderna”, uscito nei primi anni Sessanta, l'infanzia fu essenzialmente un'invenzione vittoriana (forse la creò direttamente Charles Dickens con David Copperfield e Oliver Twist). Secondo Bill Bryson non è esattamente così, e lo scrive in “Breve storia della vita privata” (è una specie di storia del mondo e delle relazioni attraverso le stanze della casa, i mestoli, le forcine, il bidè, le abitudini quotidiane, pubblicato da Guanda – Bryson ha scritto anche “Breve storia di quasi tutto” e “Vestivamo da Superman”, la vita negli Stati Uniti nei primi anni Sessanta attraverso i ricordi d'infanzia).

    La prova di una cura antica per i figli è la stanza per i bambini, e le parole per descriverli: “nursery” risale al 1330, e “childhood” esiste da più di mille anni. Visto che ci si era dati la pena di inventare apposta la parola infanzia, scrive lui, i bambini dovevano essere tenuti in gran conto. E se adesso non succede più che un bambino muoia morsicato da una scrofa non è perché sia sorvegliato meglio e amato di più, scrive Bryson, ma perché non abbiamo più scrofe in cucina. Del resto anche le febbri puerperali (letali nel novanta per cento dei casi) che prendevano le neo madri all'improvviso, sono quasi scomparse, ma non perché le donne siano moralmente più salde (come si diceva allora), ma perché i medici hanno imparato a lavarsi le mani e a non trasferire microbi da un utero all'altro.

    Certo è che la tirannia dell'infanzia non esisteva, ma nemmeno un barlume di spensieratezza infantile, nemmeno nelle case dei ricchi: dieci colazioni per undici figli, al solo scopo di farli sbrigare ad arrivare a tavola. E Gwen Raverat, figlia di un accademico di Cambridge, raccontava che da bambina doveva aggiungere sale al suo porridge, al posto delle montagne di zucchero dei suoi genitori, per non danneggiare la propria fibra morale. Le favole per bambini erano terrificanti e i figli venivano diseredati solo se osavano sedersi al cospetto del padre, anziché rimanere in piedi mentre lui si appisolava. Insomma, l'età vittoriana più che altro inventò l'infanzia per torturarla. E per creare eroine come Jane Eyre.

    • Annalena Benini
    • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.