Se Dio vuole l'Italia non cambia
Nonostante la faccia truccata ma buia di Silvio Berlusconi ieri pomeriggio alla Camera, nonostante il suo rimanere seduto, da solo e a capo chino, nonostante i guai, l'euforia da disastro, la depressione pre e post euforia da disastro, la signorina spread che arriccia il naso, la brutta canzone di Roberto Vecchioni suonata e tweettata mille volte sabato scorso alla manifestazione del Partito democratico, per il grande valore evocativo di “questa lunga notte dovrà pur finire”, nonostante gli appunti scritti a mano dal Cavaliere con la parola “traditori”, la fine del mondo è altrove.
Nonostante la faccia truccata ma buia di Silvio Berlusconi ieri pomeriggio alla Camera, nonostante il suo rimanere seduto, da solo e a capo chino, nonostante i guai, l'euforia da disastro, la depressione pre e post euforia da disastro, la signorina spread che arriccia il naso, la brutta canzone di Roberto Vecchioni suonata e tweettata mille volte sabato scorso alla manifestazione del Partito democratico, per il grande valore evocativo di “questa lunga notte dovrà pur finire”, nonostante gli appunti scritti a mano dal Cavaliere con la parola “traditori”, la fine del mondo è altrove.
Non è in questo governo scalcinato che va a cercar la bella morte (e che non si accontenterà di un'uscita ingloriosa), non è nelle pupille di chi aspetta da mesi, anzi da anni il giorno della fine di Silvio Berlusconi, fingendo di credere che una volta uscito di scena lui, cambieremo tutti. Il plumbeo eccitamento in qualche consesso esiste, è televisivamente palpabile, si legge sui giornali e sui social network, ma è un atto estetico, è puro intrattenimento, è un grido di dolore senza il quale non si può affrontare con affinità elettive una cena fra vecchi e nuovi conoscenti (alle presentazioni, a tavola, seguono subito un paio di battute su Berlusconi o sul telegiornale di Augusto Minzolini, e bisogna annuire, sorridere all'ingiù, sospirare, aggiungere un punto esclamativo almeno, per potersi buttare senza apprensioni, con il senso alto del dovere sociale compiuto, sul vino rosso e sugli involtini).
E adesso ci si chiede cosa succederà, quando e se si farà da parte e si occuperà solo di prepararsi ai giardinetti dividendo l'impero tra i figli, e se la credibilità mondiale per magia correrà ad abbracciare l'Italia e le Borse si metteranno a danzare e le veline a fidanzarsi con ricercatori universitari a progetto, mentre i “Soliti idioti” parleranno in dolce stil novo e nessuno mai più racconterà storielle, comprerà un Suv o si rifarà le tette. Il berlusconismo evaporerà, torneranno le grisaglie, le assemblee e i film con dentro il messaggio oppure il berlusconismo siamo noi? La grande profezia di Giorgio Gaber “Non ho paura di Berlusconi in sé, ho paura di Berlusconi in me” era un geniale rovesciamento di piani. Dovevamo avere paura (ma paura è davvero troppo) di noi stessi dentro Berlusconi.
La scanzonatura, la pacca sulla spalla, il cazzeggio, la fuga dalla noia, la spacconeria cortese, la questione personale, il pranzo della domenica, l'iPhone, l'egocentrismo da analisi, tutta questa roba anche un po' fastidiosa e snobbabile (ma mai afflitta) siamo noi. E saremo ancora (magari davvero con una credibilità risanata dal cambiamento, si spera con nuove energie e nuove idee): Silvio Berlusconi ha offerto la libertà psicologica, il cedimento a tutto ciò che è esteriore, è stato “Thriller” di Michael Jackson, e se adesso basta, adesso non se ne può più, adesso che palle, comunque indietro non si torna. La noia non ci seppellirà. Il malumore nemmeno.
La liturgia, il formalismo, la prudenza cerimoniale, l'antichità piena di decoro e distanza è stata abolita per sempre. Quando Alessandro Baricco, al Big Bang di Matteo Renzi, ha detto: “Ho passato metà della vita a cercare di non morire democristiano e l'altra metà a cercare di non morire berlusconiano”, l'ha fatto per raccontare le sconfitte della sua generazione (che non è stata in grado di fare la prima mossa, e per paura di perdere ha giocato la partita con i neri, quelli che muovono per secondi), ma l'ha detto in un modo (a sua insaputa, per carità) berlusconiano: diretto, privo di cupezza, individualista, egocentrico, seduttivo.
E' per questo, forse, che Pier Luigi Bersani non funziona, non attizza, non fa sognare, e ha avuto il massimo momento di gradimento quando è stato fotografato molti mesi fa con il sigaro in bocca mentre saliva sul tetto dell'Università con aria finalmente scanzonata, con un mezzo sorriso, con un po' di giovinezza (non è la giovinezza artificiale, il trucco, il lifting, le orecchie tirate, la vita artificialmente eterna, deriva egolatrica, ma lo slancio vitale che desidera un paese in cui l'informalità è stata ormai elevata a sistema, e Berlusconi non se l'è inventata, l'ha semplicemente liberata).
La fine del mondo non è mai stata qui, e non dipende dalle non dimissioni. Qui ci si arrabbia se rimandano Napoli-Juventus, si fa la fila da Trony, si guarda “Tutti pazzi per amore” sulla Rai e si va al cinema a vedere come sta Sean Penn col cerone in faccia, si spalano le strade dal fango, si compra il salmone dell'Ikea, si fanno i cinque tibetani e ci si ripromette di andare a letto presto la sera, un giorno. Ognuno, poi, crede di sapere cosa accadrà, cosa ha detto, cosa pensa, cosa farà lo spread, e si pensa già con un brivido di terrore ai talk show devitalizzati, senza più dentro la parola Berlusconi. La volta buona che si spegnerà tutto, lasciandosi andare all'inconfessabile rimpianto. Prima del prossimo fuoco d'artificio.
Il Foglio sportivo - in corpore sano