Il Pdl a briglie sciolte

Salvatore Merlo

Nel dubbio, lo hanno convinto a non intervenire in Aula. Cosa pensa davvero Berlusconi? Cosa vuole fare davvero Berlusconi? Se lo chiedevano giovedì, alla Camera, anche Maurizio Lupi, Fabrizio Cicchitto e Raffaele Fitto. Il vicepresidente della Camera, Lupi, sventolava sotto gli occhi dei colleghi i lanci di agenzia con i quali “il Capo” spiegava di essere stato costretto alle dimissioni dal Quirinale. “Ma le ha dette davvero queste cose?”; “Non lo so, ma se fa così rischia di fare saltare tutto”.

    Nel dubbio, lo hanno convinto a non intervenire in Aula. Cosa pensa davvero Berlusconi? Cosa vuole fare davvero Berlusconi? Se lo chiedevano giovedì, alla Camera, anche Maurizio Lupi, Fabrizio Cicchitto e Raffaele Fitto. Il vicepresidente della Camera, Lupi, sventolava sotto gli occhi dei colleghi i lanci di agenzia con i quali “il Capo” spiegava di essere stato costretto alle dimissioni dal Quirinale. “Ma le ha dette davvero queste cose?”; “Non lo so, ma se fa così rischia di fare saltare tutto”. E dunque si capisce come la strategia dello schiaffo (privato) e della carezza (pubblica) a Mario Monti confonda, per primi, i dirigenti del Pdl. Il “potrei” (staccare la spina) “ma non voglio” (per ora) con il quale Silvio Berlusconi alterna sostegno e critiche all'operazione Monti spiazza la corte di Palazzo Grazioli. Confonde gli ultramontiani come Franco Frattini, i montiani semplici come Gianni Alemanno, e anche gli anti montiani come Renato Brunetta, Daniela Santanchè e Maurizio Sacconi. Li lascia un po' in bambola, ciascuno con i propri orizzonti e le proprie ambizioni quasi mai coincidenti. Ma non spiazza Angelino Alfano, il segretario del Pdl, il giovane ex ministro della Giustizia che negli ultimi mesi, nei complessi equilibri di Palazzo, ha saputo trovare un posto che fosse soltanto suo, certo ancora subalterno al Cavaliere, ma che nella foto di famiglia lo vede alla destra del padre, più al fianco che alle spalle, nel ruolo di consigliere, di freno alle intemperanze fantasiose (e un tempo vincenti) di Berlusconi. “Oggi stiamo meglio di ieri e il presidente può lavorare a una lunga campagna elettorale”, si mormora dalle sue parti. Meno esperto, forse meno colto, certamente più giovane, dilaniato tra la continuità e l'avventura, tra l'obbedienza e l'autonomia, Alfano studia da apprendista Gianni Letta e con flemma democristiana anche da futuro leader.

    Oggi Berlusconi, che lo ha a un certo punto definito “un oggetto misterioso”, non gli impartisce soltanto delle indicazioni, come un tempo, ma lo ascolta e si fa persino condizionare: ieri il Cavaliere non ha parlato alla Camera, come avrebbe dovuto e fino a giovedì sera anche voluto. Alfano appare più sorridente e rilassato adesso che gli è riuscito, con l'aiuto dei Cicchitto, dei Gaetano Quagliariello e dei Raffaele Fitto di evitare le elezioni anticipate alle quali guardava come un approdo drammatico, un “bagno di sangue”, una disfatta certa che sarebbe stata più sua – neo cinquantenne candidato premier – che del Cavaliere; il quale, si sa, non ama partecipare ai funerali e nemmeno mettere la propria faccia sulle sconfitte. Riuscirà il delfino a diventare principe? Sinora Berlusconi ha avuto il diritto di parlargli su un tono di paterna severità; e lui ha dovuto mendicare un po' di libertà per farsi movimentista, per esprimere un timido dissenso sulla legalità, per ricordare le virtù dei congressi, della democrazia rappresentativa, delle primarie. La Corte lo appoggia e lo conforta, lo sostiene, e a Fabrizio Cicchitto, di fronte al ritrovato protagonismo battagliero del Cavaliere, sfugge di dire che “Angelino sarebbe stato perfettamente in grado di gestire questa situazione”. E' già l'8 settembre del Pdl.

    Alfano, dice Cicchitto, avrebbe saputo gestire la circostanza anche senza il ritorno prepotente di Berlusconi sulla scena, quello scatto d'orgoglio maturato dopo la notte delle dimissioni, tra le monetine e gli insulti che non lo hanno abbattuto ma che per un po' hanno risvegliato in lui qualcosa che sembrava sopito per sempre: “Non mi ritirerò a scrivere le mie memorie”. E così per qualche giorno il Cavaliere è sembrato quello di un tempo, il solo che riesca a compattare e a mantenere uniti sia i secchioni e sia le birbe, la maggioranza dei diligenti e la minoranza dei monelli, ad assicurare insomma la disciplina in classe. Il Cavaliere per un po' (solo per un po') è tornato a governarli, e con leggerezza, i suoi cavalli. Lascia che scalpitino, permette a Scajola di incontrare Casini e ad Alemanno di stringere la mano di Fini, concede a Daniela Santanchè di dare battaglia a Monti (e ad Alemanno e a Scajola), mentre ad Alfano assegna il ruolo più elegante, quello della discrezione al galoppo. Ma poi ricade nell'entropia, la Corte lo avvolge in un sudario di ragionamenti e di opportunità; così un discorso già scritto, e annunciato di fronte a telecamere e microfoni, anziché essere pronunciato alla Camera rimane in un cassetto a via del Plebiscito (qualche stralcio capita forse sulle labbra di Alfano). E i cavalli tornano imbizzarriti.

    Il serraglio è composito, un marasma su cui volteggia Pier Ferdinando Casini, che per esperienza e pedigree più di tutti sa che a Montecitorio i gruppi parlamentari sono collegati da un dedalo di strade, di passaggi, di sentieri sottomarini: una terra di avventure per Simbad il marinaio. “Berlusconi in teoria potrebbe farlo cadere questo governo, ma in pratica non lo farà”. E le parole di Casini sono sempre un labirinto di sottintesi: “I singoli deputati dovranno riflettere molto bene nel capire che questo governo andrà appoggiato e assecondato nei singoli passaggi parlamentari”. Così nel Pdl forse trionfa il vecchio pregiudizio secondo cui dietro un italiano, gratta gratta, si nasconde un traditore, perché l'accusa di intelligenza col nemico i dirigenti del Pdl in questi giorni la maneggiano con sempre minore cautela: se la scagliano addosso, tra loro, i sostenitori di Monti; e ai sostenitori di Monti la rovesciano contro tutti quelli che a questo governo avrebbero preferito le elezioni subito. Ma più che un 25 luglio, sembra già un 8 settembre senza Re e con molti marescialli. Così sono accusati di intelligenza con Gianfranco Fini i Franco Frattini e, un po' meno, anche le Mariastella Gelmini, cioè quello che resta dell'associazione Liberamente, che un tempo lontano spinse per la rappacificazione con Fini e che oggi è schierata senza troppi dubbi a favore del governo tecnico (Stefania Prestigiacomo ora è su altre posizioni).

    Ma la stessa accusa è rivolta anche a Gianni Alemanno e Roberto Formigoni (per non citare l'ovvio: Claudio Scajola e Beppe Pisanu). Il sindaco di Roma e il governatore lombardo, con i loro amici e i loro deputati, sono considerati “montiani”, pensano che con il governo di Monti il Pdl non perda tempo ma guadagni tempo alla ricostruzione del partito e al consolidamento di una nuova leadership: per nuove alleanze da stringere con il Terzo polo, più che con la Lega (da abbandonare assieme a Giulio Tremonti, “un sollievo per tutti”). Il loro orizzonte è il Partito popolare italiano, da raggiungere non in catene, al seguito di Casini, ma stanando il leader dell'Udc (e persino Fini) per poter contrattare con loro: alla pari. Un progetto, che con qualche sfumatura diversa, condivide anche la corte berlusconiana, il gruppo più vicino al capo: usare Monti per guadagnare tempo. Lo pensa Fabrizio Cicchitto, che oggi a Milano parlerà anche di questo in un convegno della sua fondazione Riformismo e libertà. Ma ci credono anche Gaetano Quagliariello e Maurizio Lupi e Raffaele Fitto e Maurizio Gasparri, probabilmente anche il segretario Alfano (con, accodati, i sudisti alla Gianfranco Micciché). Nessuno esclude le elezioni, a giugno o in primavera, ma solo nel caso in cui riescano una serie di operazioni politiche, comunicative, di immagine: il Pdl deve tornare almeno al 24 per cento dei consensi, “e ci si può riuscire” – pensano – perché sarà la sinistra a entrare in contraddizione con le sue anime più estreme mentre Monti farà “il lavoro sporco” (e impopolare) per tutti.

    La differenza tra i montiani più spinti e i montiani più cauti è che i primi hanno già deciso quale debba essere il punto di arrivo (Casini), mentre gli altri temporeggiano, coltivano l'idea che l'occasione e il momento determinino le scelte definitive sulle alleanze: né Alfano, che di Roberto Maroni è amico, né la Corte ritiene chiuso il rapporto storico con la Lega. Per alcuni di loro Berlusconi è già monumentalizzato: deve stare buono, fare il padre nobile della patria e del centrodestra, rassodare il partito. E così viene intessuta una tela di rapporti, di negoziati, il cui punto di caduta è l'uscita ordinata dal berlusconismo: Alemanno riavvicina Fini, tasta la consistenza del suo rapporto con Casini, e quando questo Terzo polo si rivela meno solido di quanto non fosse lecito aspettarsi, si rafforza l'idea che con il tempo siano davvero possibili trattative alla pari; d'altra parte “la maggioranza al Senato l'abbiamo noi, e la spina del governo la stacchiamo quando ci pare”.

    “Io piuttosto che votare la patrimoniale e un governo non eletto faccio un gruppo autonomo”. Il serraglio è composito, e chi tende a ricorrere con minori freni alla categoria del tradimento è Daniela Santanchè in numerosa e rumorosa compagnia: Giorgia Meloni, un po' Ignazio La Russa e Altero Matteoli, Michela Vittoria Brambilla, Maurizio Sacconi, Paolo Romani, Renato Brunetta, Saverio Romano, Antonio Martino e Fabio Rampelli, uno dei grandi azionisti di Alleanza nazsionale a Roma. Invocano un governo a tempo, le elezioni, il “ripristino della legalità”, della democrazia rappresentativa: ricandiderebbero anche Silvio Berlusconi alle elezioni, se necessario. Gli ex di An temono un nuovo abbraccio con Fini, perpetuano vecchie logiche ancora più che mai vive nei recinti che furono del Msi; mentre gli ex ministri socialisti e Martino combattono per un riflesso di principio democratico. E poi tutti condividono un timore: “In un anno di cura Monti, Casini ci svuota i gruppi parlamentari”, e dunque ancora osservano preoccupati le mosse rapide di Scajola e quelle lente di Pisanu, e alle garanzie che Giorgio Napolitano ha offerto a Berlusconi e Alfano (mai ribaltoni) non credono neanche un po'. Accetterebbero persino di perdere le elezioni, se necessario alla sopravvivenza politica, ma fanno impazzire di rabbia Cicchitto e anche Alemanno e Formigoni e Fitto: “Non capiscono che facendo così otterranno il risultato contrario? Opponendosi a Moti spingono i nostri democristiani nelle braccia di Casini”. Al centro di questa suprema confusione c'è Berlusconi, che alterna baldanza ad afasia, rottura a compromesso, ma in definitiva non sembra più il solo Cavaliere dei tanti cavalli del Pdl.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.