Dietro il clima da sobrietà nazionale

Storia del travaglio segreto vissuto dal gioioso Pd di governo

Claudio Cerasa

Roma. In questo spumeggiante clima di grande sobrietà nazionale – in cui Pier Luigi Bersani cordialmente dialoga con Fabrizio Cicchitto, in cui Walter Veltroni gentilmente si congratula con Pier Luigi Bersani, in cui Enrico Letta appassionatamente scrive a Mario Monti, in cui Dario Franceschini sentitamente elogia Pier Ferdinando Casini, in cui Rosy Bindi genuinamente plaude ad Angelino Alfano – c'è una storia importante che, tra un applauso e un altro, un sorriso e un altro, un abbraccio e un altro, prima o poi si dovrà pure raccontare. La storia riguarda una serie di preoccupazioni non secondarie vissute in queste ore da uno dei partiti che da ieri pomeriggio ha dato la sua completa fiducia alla nuova squadra di governo: il Pd.

    Roma. In questo spumeggiante clima di grande sobrietà nazionale – in cui Pier Luigi Bersani cordialmente dialoga con Fabrizio Cicchitto, in cui Walter Veltroni gentilmente si congratula con Pier Luigi Bersani, in cui Enrico Letta appassionatamente scrive a Mario Monti, in cui Dario Franceschini sentitamente elogia Pier Ferdinando Casini, in cui Rosy Bindi genuinamente plaude ad Angelino Alfano – c'è una storia importante che, tra un applauso e un altro, un sorriso e un altro, un abbraccio e un altro, prima o poi si dovrà pure raccontare. La storia riguarda una serie di preoccupazioni non secondarie vissute in queste ore da uno dei partiti che da ieri pomeriggio ha dato la sua completa fiducia alla nuova squadra di governo: il Pd. Certo: a prima vista, le dichiarazioni euforiche, i commenti gioiosi, le interviste festose e gli interventi raggianti di quasi tutti i più importanti esponenti dell'ex maggior partito d'opposizione potrebbero portare a pensare che l'arrivo del governo Monti altro non sia che una manna scesa dal cielo per il Pd guidato da Bersani. Da un certo punto di vista non c'è dubbio che sia così: fino a qualche giorno fa, il grande obiettivo programmatico del Pd era costringere Berlusconi a presentare le sue dimissioni, e alla fine Berlusconi le sue dimissioni le ha presentate davvero (anche se risulta un filino difficile attribuire al Pd i meriti delle dimissioni del Cav.). Ma una volta incassate le dimissioni di Berlusconi e una volta dato il “la” al governo Monti, la verità è che sotto il tappeto della sobrietà nazionale si nascondono alcune importanti incognite per il Pd. Incognite che riguardano la linea politica, l'identità del partito, il rapporto con il Quirinale, il destino del leader e i nuovi rapporti di forza presenti nel partito guidato dalla coppia Bersani-Letta.

    Primo punto: la nuova linea economica. La fiducia offerta ieri dal Pd al programma Monti corrisponde a una sfiducia di fatto votata alla linea economica della coppia Bersani-Fassina. Fino a oggi, la linea seguita dalla segreteria del Pd è sempre stata quella di criticare in modo feroce le ricette “giavazziane”, “riformiste”, “blairiane” portate avanti dalle minoranze del Pd in materia di politica economica. Bersani (insieme con i più stretti collaboratori della sua segreteria) non ha mai fatto mistero di considerare praticamente “di destra” tutti coloro che nel Pd (come Enrico Letta, Walter Veltroni, Matteo Renzi) si sono azzardati a sponsorizzare – tanto per fare qualche esempio – la flexsecurity come riforma ideale del mercato del lavoro e il modello Marchionne come riforma ideale del sistema di contrattazione aziendale. E in più occasioni il braccio destro di Bersani (Stefano Fassina) ha certificato, nero su bianco, la contrarietà della segreteria del Pd rispetto alle due questioni. “Chi propone queste riforme – ha sentenziato Fassina due mesi fa – lo fa soltanto a titolo esclusivamente personale, questa non è la linea del Pd, queste sono solo proposte ideologiche dannose ai fini della crescita, finalizzate a indebolire i sindacati e a ridurre il potere contrattuale dei lavoratori, le retribuzioni e le condizioni di lavoro di padri e figli”.

    Il caso vuole però che nel discorso pronunciato giovedì al Senato, e in quello replicato ieri alla Camera, il professor Monti abbia detto vagamente di essere favorevole sia alla flexsecurity come riforma ideale del mercato del lavoro sia al modello Marchionne come riforma ideale del sistema di contrattazione aziendale. E dunque – nota qualche smaliziato dirigente del Pd – “o il Pd è diventato improvvisamente di destra oppure il Pd ha votato contro la linea economica del suo stesso segretario”.
    “C'è stata una svolta – ammette Giorgio Tonini, deputato veltroniano del Pd – gli equilibri sono cambiati, chi ha commesso alcuni errori in questi mesi si è reso conto dei suoi sbagli e sono convinto che anche grazie all'aiuto di Napolitano per il Pd sarà meno difficile capire qual è la giusta strada da seguire per far viaggiare nuovamente il nostro partito sui binari della vocazione maggioritaria”.

    Se il mondo veltroniano sta vivendo con entusiasmo l'idea di confrontarsi con un governo tecnocratico (e con la prospettiva che per un anno e mezzo il Pd sia di fatto commissariato da Giorgio Napolitano), chi si trova invece in una situazione più difficile è il fronte dei devoti bersaniani. Bersani, si sa, avrebbe preferito di gran lunga confrontarsi alle urne con il centrodestra piuttosto che congelare il Parlamento fino alla primavera del 2013 (e infatti, nel Pd, è stato l'ultimo ad accodarsi alla lista dei sostenitori del governo tecnico); ma ora che il governissimo si è insediato il segretario del Pd, pur festeggiando per l'addio del Cav., è consapevole dei rischi che corre il suo partito in questa indiretta esperienza di governo: “Dobbiamo stare attenti – confessa Stefano Esposito, deputato del Pd – a non far allontanare dal nostro partito il nostro elettorato più di sinistra e a non regalare tutto a Nichi Vendola, altrimenti il pericolo qui è che alle prossime elezioni il Pd faccia davvero la fine del Pd siciliano”. I riferimenti a quanto successo in questi mesi in Sicilia con Raffaele Lombardo sono all'ordine del giorno nel mondo democratico. Ed è proprio nell'esperienza siciliana che i dirigenti del Pd meno entusiasti per l'appoggio al governo tecnico (come per esempio i giovani turchi, i quarantenni bersaniani del Pd) intravedono tutte le trappole nascoste nell'esperienza montiana.

    “In Sicilia – racconta un deputato del Pd vicino al segretario democratico – appoggiamo da mesi un governo composto da molti tecnici; e ora che per la prima volta, viste le imminenti elezioni palermitane, ci stiamo ritrovando a definire le nostre alleanze la situazione è paradossale: i sondaggi danno il nostro partito intorno al 20 per cento, una parte del Pd vuole appoggiare come sindaco un candidato che un pezzo di Pd promette già di non appoggiare (Rita Borsellino), un'altra parte del Pd minaccia di uscire dal Pd e di appoggiare un altro candidato con il Terzo polo e di fatto il risultato di questo governo è stato quello di spaccare in due il nostro partito. In Sicilia è andata così ed è vero che questo tipo di governo è stato fondamentale per mettere da parte il berlusconismo ma è anche vero che il rischio che il Pd, anche a Roma, esca allo stesso modo da questo governo di unità nazionale esiste, e sarebbe sciocco non ammetterlo”.
     

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.