Tutte le vie s'incrociano a Riad

Carlo Panella

I missili iraniani puntati contro la penisola araba e l'Arabia Saudita sono di più di quelli puntati contro Israele. Questa valutazione non è sostenuta da dati di intelligence (impossibili data la impermeabilità dell'Iran), ma da due dati di fatto. Dal punto di vista militare, sia che l'Iran si prepari ad attaccare per primo Israele sia che si prepari a rispondere a un attacco israeliano alle sue centrali nucleari, Teheran dovrà applicare tutta la propria potenza militare sulle basi straniere nel Golfo, nel tentativo di strozzare lo Stretto di Hormuz, la giugulare petrolifera dell'occidente.

    I missili iraniani puntati contro la penisola araba e l'Arabia Saudita sono di più di quelli puntati contro Israele. Questa valutazione non è sostenuta da dati di intelligence (impossibili data la impermeabilità dell'Iran), ma da due dati di fatto. Dal punto di vista militare, sia che l'Iran si prepari ad attaccare per primo Israele sia che si prepari a rispondere a un attacco israeliano alle sue centrali nucleari, Teheran dovrà applicare tutta la propria potenza militare sulle basi straniere nel Golfo, nel tentativo di strozzare lo Stretto di Hormuz, la giugulare petrolifera dell'occidente. Quindi deve “martellare” obiettivi strategici statunitensi, sauditi e degli Emirati. I progetti dello Stato maggiore iraniano devono essere ispirati a una “doppia deterrenza”, verso Israele e verso il Golfo, come peraltro più volte evocato dai vertici militari, a partire dal comandante dell'Aviazione dei pasdaran, il generale Amir Ali Hajizadeh. Lo scorso agosto, annunciando il successo del lancio di 14 missili Zelzal, Shahabs 1 e 2 e Ghadr, con una gittata di 2.000 chilometri, Ali Hajizadeh ha dichiarato che i nuovi missili “sono in grado di colpire il regime sionista e obiettivi americani nella regione”, intendendo con questi ultimi le basi che ospitano 27 mila marine in Arabia Saudita, Qatar, Emirati arabi uniti, Kuwait, Bahrein, ma anche le basi saudite perfettamente integrate nell'apparato militare statunitense e che sarebbero parte di ogni eventuale attacco o contrattacco all'Iran.
    L'altro dato di fatto è ancora più importante: la dirigenza iraniana si distingue da quelle di tutti i “rogue states” perché è animata in tutte le sue componenti da una vocazione religiosa e rivoluzionaria a carattere islamico. Persegue una marcata aspirazione alla potenza nazionale dell'Iran, ma non solo. E' animata dalla missione di “esportare la rivoluzione” khomeinista con il miraggio che ha sempre mosso tutte le dinastie islamiche: controllare le città sante della Mecca e della Medina. Fu questo il primo sbocco alla vittoriosa spinta rivoluzionaria data da Khomeini durante i pellegrinaggi alla Mecca degli anni Ottanta (con esiti da macelleria), ed è tuttora la massima e intima aspirazione della leadership politica sciita. Se per gli ayatollah e per il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, è un oltraggio che la terza città santa per l'islam, Gerusalemme, sia sotto il dominio degli ebrei, ancora maggiore è l'oltraggio che custode della Mecca sia una dinastia non soltanto sunnita, ma che, come quella dei Saud, appartiene alla setta wahabita che della guerra agli “eretici sciiti” ha fatto il suo obiettivo principale sin dal XVIII secolo. La recente vicenda dell'attentato iraniano all'ambasciatore saudita a Washington si inserisce in questa contorta dinamica che ebbe la sua prima verifica quando fu proprio l'Arabia Saudita – non gli Stati Uniti – a spingere Saddam Hussein a dichiarare guerra all'Iran nel 1980, finanziandola con ben 30 miliardi di dollari, a riprova di una inevitabile conflittualità strategica tra le due potenze regionali e i due poli religiosi antagonisti del wahabismo e dello sciismo.

    Ecco come appare oggi, vista da Riad,
    la prospettiva di un Iran sciita e rivoluzionario in procinto di dotarsi di un armamento atomico. L'insidia all'indiscusso ruolo di massima potenza regionale nel Golfo di cui gode l'Arabia Saudita si moltiplica alla luce di un conflitto interreligioso che negli ultimi due secoli ha fatto migliaia di vittime, tanto che il nation building dell'Iraq post Saddam Hussein è stato, ed è tuttora, minacciato e insanguinato proprio e solo dalla Fitna, dagli scontri settari tra sciiti e salafiti wahabiti.

    Ad ascoltare le dichiarazioni dei massimi dirigenti sauditi, questo contesto sfugge in larga parte all'Amministrazione Obama. Sicuramente l'ottica saudita nei confronti dell'Iran e della sua bomba atomica sfugge ai media occidentali che continuano a scriverne come fosse una drammatica partita in corso soltanto tra Gerusalemme e Teheran. Ma non è così, tanto che non è fantapolitica prevedere che, quando fallirà il tentativo di impedire con le sanzioni la costruzione dell'atomica iraniana, la pressione saudita su Washington per una azione militare sarà ancora più forte di quella israeliana. E' quanto risulta dai dispacci diplomatici dell'ambasciatore saudita a Washington, Adel al Jubeir (resi pubblici da Wikileaks), il quale riferiva a Riad che, nel corso di un incontro con il generale David Petraeus nell'aprile del 2008, il re Abdullah aveva avanzato “continue richieste perché gli Stati Uniti attaccassero l'Iran e ponessero fine al programma nucleare”. Il tutto accompagnato da una frase secca: “Tagliate la testa del serpente”.

    Identici concetti con identica enfasi
    – secondo quanto ha riferito il Guardian – sono stati comunicati ai vertici della Nato dal principe Turki bin Faisal lo scorso giugno, nel corso di un vertice tenutosi nella base dell'intelligence sul medio oriente e il Mediterraneo della Raf di Molesworth, nel Cambridgeshire. L'ex capo del Mukhabarat – i servizi sauditi – ed ex ambasciatore a Londra e Washington è stato chiarissimo: “Se l'Iran arriverà a dotarsi di un armamento nucleare, l'Arabia Saudita sarà costretta a perseguire politiche che potrebbero portare a conseguenze incalcolabili e forse drammatiche”. L'affermazione è resa ancora più esplicita dal diplomatico che accompagnava Turki: “Noi sauditi non possiamo vivere in una situazione in cui l'Iran abbia armi nucleari e noi no. E' così semplice: se l'Iran sviluppa un'arma nucleare, sarà una minaccia inaccettabile per noi e dovremo fare altrettanto”.

    Turki bin Faisal ha anche spesso detto
    che un attacco israeliano o americano all'Iran sarebbe “una calamità, un cataclisma, non soltanto catastrofico”. Questa affermazione apparentemente contrasta con la richiesta avanzata da re Abdullah al generale Petraeus di attaccare l'Iran, ma in realtà è assolutamente tipica della politica saudita. A livello verbale, i dirigenti di Riad esprimono sempre strategie più che ortodosse sotto il profilo islamico e quindi mai e poi mai ammetterebbero di appoggiare un'azione militare dei “cristiani” contro una nazione musulmana. Così è stato nel 1990, quando pretesero il comando formale di Desert Storm, così è stato nel 2001 per l'Afghanistan dei talebani (peraltro intronati a Kabul nel 1996 da Turki bin Faisal in persona) e così nel 2003 per l'Iraq.

    Il permesso già concordato con l'aviazione israeliana per sorvolare lo spazio aereo saudita per bombardare un domani l'Iran è sempre stato seccamente smentito, ma chi conosce i sauditi sa che sono solo parole. Questa spregiudicata politica del doppio binario è stata iniziata da Abdulaziz ibn Saud con un trattato segreto di alleanza militare siglato con Franklin D. Roosevelt sui laghi amari il 14 febbraio 1945, nel quale affidava a Washington, in cambio del petrolio, la “difesa strategica del regno”
    Mai come con la presidenza di Barack Obama i rapporti tra Washington e Riad sono stati così tesi, nonostante la recente fornitura di armi per 60 miliardi di dollari. Basta leggere le innumerevoli interviste di Turki bin Faisal – il personaggio saudita più presente sui media mondiali – per comprenderne le ragioni: “Gli Stati Uniti dovrebbero riconoscere lo stato palestinese, fare le valigie, lasciarci in pace e permettere che palestinesi, siriani e libanesi negozino direttamente con gli israeliani. Da Obama ci aspettiamo che la smetta di pronunciare banalità. Basta auguri e visioni, per favore; non basta parlare del parlare”. Non meno netto e sprezzante rispetto all'Afghanistan: “Il modo inetto in cui gli Stati Uniti hanno affrontato il presidente Karzai è da mendicanti. Il risultato è che tutte le componenti afghane si sono risentite le une con le altre, lasciando un sapore acido in bocca. L'obiettivo deve essere quello di distruggere i terroristi per poi ritirarsi e lasciare agli afghani il compito di mettere in ordine il proprio paese.” Addirittura apocalittico a proposito del contrasto troppo debole degli Stati Uniti al tentativo del premier iracheno, Nouri al Maliki, di concedersi all'Iran: “Le forze del male sono ancora molto vive e attive in Iraq; sono indispensabili garanzie internazionali che assicurino che Baghdad rimane uno stato sovrano e indipendente. L'alternativa è un conflitto regionale quale non si vede dal tempo delle guerre secolari tra gli ottomani e i safavidi persiani”. Feroce il suo parere sul segretario di stato americano, le cui dichiarazioni a favore delle manifestazioni delle donne saudite per la propria emancipazione sono state particolarmente sgradite a Riad: “Hillary Clinton ha danneggiato gli sforzi per rendere il medio oriente libero da armi nucleari quando ha sostenuto che non vi erano i presupposti per organizzare una conferenza finalizzata alla firma di un nuovo trattato per la non proliferazione nucleare, proposta dall'Onu.” Altrettanto netto, in un contesto pieno di riferimenti all'“arroganza americana”, il suo giudizio sull'azione di Obama per contrastare l'Iran: “L'atteggiamento della comunità internazionale e di Washington sul programma nucleare di Teheran è partito con il piede sbagliato fin dall'inizio e deve essere premuto il pulsante di reset. La politica del bastone e della carota non funzionerà, perché ci deve essere parità di condizioni. Non si può chiedere all'Iran di giocare su un unico livello mentre si consente a Israele, India, Pakistan e Corea del nord di giocare su altri livelli”.
    Non c'è stata alcuna parola di critica aperta, naturalmente, sull'ultimo grave contenzioso tra Riad e Washington che riguarda l'assenso di Obama alla defenestrazione del rais tunisino Ben Ali (oggi ospitato dai sauditi in una lussuosa villa sul Mar Rosso) e soprattutto del rais egiziano Hosni Mubarak, che ha privato i sauditi del più prezioso alleato mediorientale.
    Non c'è stata alcuna parola ufficiale neppure sull'insoddisfazione per il non interventismo americano nell'evoluzione della crisi in Yemen, là dove i sauditi continuano a considerare Abdullah Saleh una pedina indispensabile alla propria politica regionale. Ma è evidente che questo è un ulteriore e determinante motivo di gelo, così come lo sono le prese di distanza statunitensi sull'intervento militare antisommossa di Riad in Bahrein.
    La conseguenza di questo riposizionamento polemico della politica estera saudita nei confronti degli Stati Uniti si è concretizzata nel potenziamento, da parte di Riad, della propria autonoma presenza nelle aree di crisi, tentando di sopperire alla caduta dei regimi tunisino e egiziano appoggiando i Fratelli musulmani locali, e soprattutto intervenendo massicciamente sulle moschee per favorire il radicamento degli imam più vicini al wahabismo, secondo uno schema collaudato da un quarantennio. Ma il fulcro della politica estera saudita è oggi la Siria, in cui Riad persegue apertamente l'abbattimento del regime di Bashar el Assad per favorire poi il controllo del paese da parte dei Fratelli musulmani – da sempre e oggi più che mai finanziati e protetti – e per ribaltare le cocenti sconfitte subite a Beirut dall'assassinio di Rafiq Hariri nel 2005 in poi, trasformando così il Libano in una testa di ponte saudita sul Mediterraneo.
    In qualche modo, la politica estera saudita ricalca le linee di quella “trincea sunnita” che Condoleezza Rice intendeva rafforzare per contenere l'espansionismo iraniano (secondo lo schema applicato nei confronti dell'Urss da Ronald Reagan negli anni Ottanta), con la differenza che oggi Riad sviluppa questa strategia in proprio e con una dichiarata diffidenza politica nei confronti della partnership americana, relegata a poco più che fornitrice di armamenti. Simbolo di questa autonomizzazione militare è la decisione di dotarsi di un armamento atomico. Il “pronti al nucleare se l'Iran avrà l'atomica” minacciato da Turki bin Faisal non è una minaccia astratta. Lo scorso giugno l'Arabia Saudita ha annunciato un investimento di 80 miliardi di dollari per la costruzione di 16 centrali nucleari. Si tratta di un programma di lungo periodo che con molte probabilità serve a “coprire” un programma militare nucleare che Riad può rapidamente attuare grazie al raccordo col Pakistan, le cui atomiche sono state costruite essenzialmente con i finanziamenti sauditi.
    Turki bin Faisal non ricopre oggi nessuna carica politica o governativa in Arabia Saudita. Eppure è l'unico leader saudita a prendere posizione pubblica sui massimi temi di politica internazionale, per di più con una notevole carica polemica – e queste prese di posizione non sono mai state smentite da nessun membro del governo e tantomeno da re Abdullah. Di fatto, Turki occupa lo spazio che dovrebbe essere gestito da suo fratello Saud al Faisal, ministro degli Esteri in carica, stranamente silente. Questa palese anomalia rimanda all'acutizzazione della crisi istituzionale che attraversa il vertice saudita e che è emersa con tutta la sua forza in occasione della recente morte dell'erede al trono Sultan bin Abdulaziz e della nomina come successore di re Abdullah (gravemente malato) di suo fratello Nayef bin Abdulaziz. Questa successione vedrà di qui a poco assurgere al trono l'esponente più contrario alle riforme e più vicino ideologicamente al fondamentalismo islamico dell'intera corte saudita. Si sancisce così lo spostamento del baricentro politico a Riad verso i settori più integralisti (sia pure impegnati duramente nel contrasto militare ad al Qaida), rafforzato dalla contemporanea nomina a ministro della Difesa di Salman bin Abdul Aziz, governatore di Ryad, anche lui noto per la sua intransigenza dogmatica.
    Queste nomine hanno creato tali dissapori nella famiglia dei Saud che, secondo al Quds al Arabi, il sottosegretario alla Difesa, il principe Abdel Rahaman, si è rifiutato di rendere omaggio a Nayef, venendo per questo bruscamente rimosso dall'incarico da re Abdullah. E' l'ennesimo segnale di uno scontro frontale in una corte in cui i nipoti di Abdulaziz ibn Saud fremono nell'attesa che cessi la catena di successioni tra i figli ottantenni (tutti malati) e lo scettro passi a loro. Questa prospettiva interessa molto Turki bin Faisal, che aspira oggi a diventare ministro degli Esteri per diventare domani re, essendo figlio del re Faisal, che allontanò con un golpe nel 1964 re Saud (palesemente indegno), primo erede del fondatore del regno Abdulaziz. Quando toccherà ai figli sessantenni, Turki può dunque tentare di imporre che ricominci il giro (sempre orizzontale, tra fratelli e fratellastri, mai verticale) proprio da lui. E ha molte frecce nella sua faretra per riuscirci.